Camminarsi dentro (23): La dolcezza di Exodus

angeloerosa

Avrei potuto scrivere ‘paterna’ ma non sarebbe stata la stessa cosa. Per di più, il ‘paterno’ è ‘maschile’, pertiene strettamente alla condizione maschile, alla natura del maschio, che è padre prima ancora di esserlo; mentre, la dolcezza, da sempre assimilata e riservata al ‘femminile’ non pertiene in modo esclusivo alla condizione femminile, alla natura della donna, per quanto si conservi il ricordo di una dolcezza che sembrava connaturata a tutte le donne.
Dire di Exodus, poi, che si può sperimentare nelle sue case la dolcezza è cosa non poco peregrina: molti si chiederanno cosa c’entri la dolcezza con la tossicomania e con i metodi da adottare per vincerla.

In verità, proprio questo è il sentimento che andrà posto alla base del metodo. A me è stato insegnato da grandi Fondatori di Comunità che la tossicomania si affronta con la fermezza e con la gentilezza.
Fermezza, non durezza. Scade nella scortesia, nella scontrosità, nella rumorosità, nell’insulto chi non conosce il potere della fermezza. E fermezza vuol dire che bisogna fare in modo che sia vero ancora oggi per noi quello che abbiamo detto, promesso, giurato ieri. Il ‘muro’ che, così facendo, mettiamo davanti al ragazzo è ciò che lo ‘fermerà’. Altro non è dato fare.
Gentilezza, poi, significa rispetto della persona, ascolto paziente, attenzione a ogni svolta della relazione, empatia, dialogo non giudicante, atteggiamento sempre congruente dalla parte di chi si impegna ad aiutare.

La gentilezza, dunque, non è la dolcezza. E’ di più. E non è un ‘semplice’ sentimento, perché non è un sentimento semplice, come abbiamo appena detto.
Eppure, dopo aver distinto dolcezza da gentilezza, non si può dire che resti poco, che della prima valga solo la tenerezza che pure sembra contraddistinguere quell’affetto.
Un Fondatore di Comunità diceva in tutti i suoi scritti che la tossicomania si combatte con l’amore, salvo chiarire poi che ‘amore’ significa ‘prendersi cura…’, dunque amare, cioè esercitarsi nella virtù dell’accettazione, dell’ospitalità, dell’accoglienza, del dono.
Abbiamo già scritto con Eschilo che la legge più bella è ubbidire al padre e con Nietzsche che chi non ha un padre se lo deve dare. Ubbidire al padre, darsi un padre: inchinarsi di fronte alla naturale saggezza del padre.
Recentemente, don Antonio Mazzi ha suggerito come uno dei suoi dieci comandamenti della saggezza: Aiuta amorevolmente chi ne ha bisogno – Inchinati davanti al fratello. Ha tematizzato poi lungamente il verbo chinarsi, inchinarsi. Io credo che per sollevarsi fino a raggiungere l’altro occorra inchinarsi, cioè chinarsi sulla fragilità dell’altro e sui sentieri dell’anima dell’altro camminare con passo accorto, come Ospite riconoscente dell’accoglienza ricevuta: essere una mente ospitale è il compito più importante, cioè essere a propria volta Ospite, cioè accogliere in sé chi ci ha permesso di entrare nella sua vita.
Con quali sentimenti ci accingeremo a varcare la soglia di un’anima? Basterà togliere le scarpe sporche? Non servirà un nuovo sentire, cioè farsi vaso di elezione, come ha scritto mirabilmente Dante? Non è compito, addirittura ‘missione’ di un’intera vita accogliere l’altro, fare dono di sé? Non è forse questo l’amore cristiano e non dovremo riguardarlo sempre come una legge a cui obbedire? Se parleremo allora di legge dell’amore, se essa è un imperativo morale, se la nostra dignità di creature discende dalla capacità di rispondere ad essa, questo sarà responsabilità: prendersi cura del fratello che è nel bisogno, inchinarsi davanti a lui.
E nel farlo, saremo padre e madre, fratello e sorella, come ci ha insegnato Francesco d’Assisi.
Non di indistinzione di ruoli io parlo, né di confusione dei sentimenti, ché si tratta più severamente di un amore che si declinerà ogni volta in modo diverso: ogni volta ci troveremo davanti Qualcosa di diverso: un figlio o una figlia, e questo ci farà sentire padre e madre; un simile, come riesce ad essere solo un fratello, e allora ci chineremo sui suoi bisogni e  sentiremo la fraternità che ci lega.
Ma che cosa finalmente lega i cuori, posto che non di leggi dello Stato qui si tratta? In che modo la legge dell’amore ci legherà all’altro? Riusciremo a sentirci, così, liberi, posto che libertà è obbligazione, giacché la libertà è forza che lega non che scioglie!? A quale forza del cuore faremo appello, se non alla stessa che contraddistingue la condizione di chi è ‘ridotto’ nel bisogno e da lì aspetta una risposta? E che cosa sarà ‘rispondere’ se non corrispondere a quell’attesa? E cosa daremo a chi tacitamente chiede, al di là dei beni materiali di cui pure avrà bisogno (reddito, salute…), se non la certezza di non esser solo, che può contare su qualcuno, che conta ciò che resta, ciò che dura, ciò che vale?
Nella vasta gamma dei sentimenti morali non includeremo, ad esempio, quello che nel XXVI dell’Inferno Dante chiama la dolcezza del vecchio padre? Che cos’è ‘dolcezza’, in fondo, se non riconoscimento di una medesimezza umana che proviene dalla natura più che da scelte storiche e culturali? Più che di tenerezza, parleremo di quel dolce che si distilla nel cuore quando questo si lascia attraversare dallo stupore della bellezza morale.
E’ dolce chinarsi sul fratello, ubbidire ai suoi bisogni, corrispondere alle sue attese, riconoscere la sua condizione di fratello e da lì incominciare a consistere riuscendo a vedere cos’è la vita buona. Nel corso del XX Capitolo di Exodus, che si è tenuto a Sirmione sul Garda dal 2 al 5 ottobre, uno dei miei fratelli, Salvatore Regoli, riferendo sinteticamente il suo cammino di Educatore, affermò che a un certo punto aveva incontrato la dolcezza di Exodus. Francamente, devo dire che non avevo mai sentito quell’espressione, riferita poi a una realtà grande, cioè fatta di tante cose (amministrazione, case, lavoro, fatica…). Continuo a pensare a quella dolcezza e mi viene in mente il modo in cui don Antonio si rivolge sempre ai suoi ragazzi. Riesce ad essere sempre, in un modo naturale e spontaneo, dolce con loro, come sanno essere i veri padri, che non mancano di rimproverare i loro figli e spesso lo fanno aspramente, ma con una voce calda e accorata, tipica di chi sa che sta parlando ai cuori e alle anime non alle menti. Io l’ho visto in tutti questi anni sempre chino sui suoi, sui ragazzi come sugli Operatori, mai stanco di amare. Perché la dolcezza di cui parliamo è pazienza e coraggio.

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