Camminarsi dentro (28): Al di sopra dell’amore

25 novembre 2008

«Ma Giove seguitò dicendo: Avranno tuttavia qualche mediocre conforto da quel fantasma che essi chiamano Amore» (GIACOMO LEOPARDI, Storia del genere umano)

Non si può negare che di tutte le illusioni quella di essere amati sia la più bella: immaginare di essere ricambiati, prendere la cortesia per gentilezza, il rimprovero e la recriminazione per interessamento, il diniego e il ‘rilancio’ per crudele sincerità, la chiusura e il rifiuto di sé come orgoglio e schermaglia d’amore.
I fraintendimenti e le trappole della realtà come sfondo concettuale e teorico sono fruttuosi: danno da pensare; fanno discutere; fanno storia.
Rincorrere, pregare, implorare, scongiurare che non accadrà più. Affannarsi a spiegare, a chiarire, a far passare l’interpretazione meno dolorosa, per non soccombere sotto il peso della Verità supposta tale. Estenuarsi nei chiarimenti, intravvedendo il barlume. Cacciarsi in quella luce fioca, facendone una radura, un sito dove invocare ristoro all’arsura. E denunciare la sete, la mancanza. Ondeggiare nell’assenza, nel bisogno. Affabulare la vita. Riempire il silenzio. Chiamare amore il deserto.

Potremmo rappresentare così il corso dei pensieri e le vicissitudini della coscienza di un amante non corrisposto, la condizione disperante di un innamorato che si consumi nell’attesa, facendo di essa una ragione di vita: è importante dilatare il tempo dell’attesa, immaginando una risposta che arriverà, non importa quando.
In materia d’attesa, ROLAND BARTHES segna idealmente la linea di demarcazione tra attesa e attesa. Dopo un’apertura alta con una citazione da Schönberg, egli chiude la voce Attesa nei Frammenti di un discorso amoroso con un piccolo apologo istruttivo: «Un mandarino era innamorato di una cortigiana. Sarò vostra – disse lei – solo quando voi avrete passato cento notti ad aspettarmi seduto su uno sgabello, nel mio giardino, sotto la mia finestra. Ma, alla novantanovesima notte, il mandarino si alzò, prese il suo sgabello sotto il braccio e se ne andò».
In questo paradosso, su cui ci sarebbe da discutere a lungo, è nascosto il segreto della salute: un’attesa interminabile procura solo malattia. Perciò, è importante comprendere cosa ci sia dall’altra parte, riuscire a sentire un cuore che batte per noi. Se non è così, è inutile attendere. Ci si ammala soltanto.
Una conclusione così chiara e severa si impone nell’età del narcisismo: il numero delle persone prive di sensibilità, del tutto anaffettive, cioè incapaci di amare, si allarga. Sapere che è possibile, supporre che possa accadere a noi, che la persona da noi tanto amata sia lì di fronte a noi inerte, poco propensa ad animadvertere, come dicevano i latini, cioè ad avvertire, a sentire, a comprendere l’altro da sé, ad accorgersi di quel che accade in noi, non è scoperta senza conseguenze. Naturalmente, nessuno ci impedisce di continuare ad amare nella condizione di totale asimmetria in cui ci ritroviamo, sapendo bene che sonerà quasi come un destino l’equilibrio dato…

Quel che preme dire oggi qui, tuttavia, è che possiamo anche fare altro: per esempio, andare incontro alla vita senza illuderci troppo, senza idealizzare l’oggetto d’amore prima di averlo conosciuto bene; elaborare la relazione, lavorando in essa, in direzione di un miglioramento dei rapporti, fino a contemplare la possibilità di mettere fine a una relazione nella quale non troveremo nessuna felicità.

La mia generazione non ha ricevuto questo tipo di educazione sentimentale. Noi non sapevamo che l’amore potesse finire: attribuivamo le rotture solo ad eventi catastrofici che le giustificavano, ma non a una mancata corrispondenza, ad una radicale asimmetria del rapporto stesso. Eravamo ciechi: credevamo che l’amore fosse sempre salvifico.
Eravamo stati abituati all’idea che tutti quelli che si sposano sono una coppia ben assortita. Credevamo che una coppia fosse fatta immancabilmente di due persone simili. Solo recentemente ci siamo convinti del fatto che è forse vero il contrario: che le coppie che funzionano meglio siano quelle formate da due persone dissimili, che si compensano, che trovano nei motivi di contrasto una ragione per cercarsi ed incontrarsi: l’interesse nascerebbe dalla totale diversità.
L’osservazione dell’esperienza altrui ci ha insegnato che non è vera nessuna delle due ‘leggende’. Oggi sappiamo che alla base della felicità coniugale – di coppia – ci sono gli stili di attaccamento positivi e il sentimento della vergogna.

Oggi faccio fatica a pensare che le separazioni possano essere indotte da radicale incomprensione: la missione dell’amore per me è stata sempre unilaterale. Il soggetto amoroso ha da amare e basta. In questo ho trovato sempre una superiore  forma di moralità, ma anche una grande infelicità.

I rischi che corrono oggi i ragazzi non hanno bisogno di essere denunciati: essi sanno cavarsela da soli, quando ascoltino i consigli di prudenza degli adulti. Non è sempre così, ma non possiamo farci niente.
Marco è morto proprio perché non è stato all’altezza di un amore più grande di lui.  Non si è saputo inchinare di fronte a una donna problematica, lacerata da dissidi e sofferenze grandi, pretendendo da lei solo Eros. Elena aveva bisogno di più: solo l’amore l’avrebbe salvata dalla sua infelicità. Prendersi cura di lei non è stato ciò che  Marco potesse fare. Non averlo capito è ciò che lo ha perduto. Nella sua dipendenza dalle sostanze, non ha saputo vedere quanto grande fosse il bisogno d’amore di una donna che non avrebbe potuto fare nulla per lui. Riuscite ad immaginare come si possa amare di solo amore una donna che sia figlia a sua volta di un tossicomane, senza una madre capace di insegnarle cosa sia una donna, senza occuparsi dell’immedicabile ferita di una nascita che costituiva motivo di tormento? Un amore al di sopra dello stesso amore, non il mero eros. Don Antonio Mazzi ha detto recentemente che noi abbiamo avuto la ventura di amare sempre le persone sbagliate. Allo stesso modo, diremo che Marco avrebbe dovuto comprendere quale persona ’sbagliata’ fosse la sua Elena. E avrebbe dovuto donarsi come solo i maschi sanno fare, quando si trasformino in padri, dimostrando di saper durare, oltre tutte le prove, oltre lo stesso amore, che non si accontenta di un semplice sentimento.
Egli doveva essere soprattutto padre. Dentro il ruolo di padre, doveva ritagliarsi uno spazio ‘erotico’  per sé e per lei, cercando di durare, come debbono fare tutti i maschi. Ma soprattutto, doveva pensarsi al di sopra di lei, al di sopra di sé, al di sopra della loro relazione.

E questo significa tanto: significa, per cominciare, che il sentimento d’amore non deve essere vissuto come cosa di cui non si possa parlare, come se fosse una condizione in cui fatalmente ’si cade’ inavvertitamente, come se innamorarsi fosse cosa che avviene a nostra insaputa!
Parlare d’amore significa tessere un dialogo silenzioso con se stessi in cui far rifluire dubbi e certezze, per saggiare in ogni istante la terra incognita che ci si para davanti, avendo il coraggio di pensare quello che progressivamente si mostra allo sguardo, considerandolo come compito e non come ostacolo insormontabile.
Pensare l’amore – Sartre parlava di intuizione dell’amore, che necessariamente deve avere uno dei due membri della coppia – è pensare per due: condurre la relazione; lasciando, magari, che quell’intuizione trascorra dall’uno all’altro membro della coppia stessa. Perché la coppia non sia portata da tutti i venti, non si sa bene dove. Solo così il corteo dei giorni non riserverà sorprese.

Quando Elena scoprì di aspettare un bambino,  Marco si fece cogliere impreparato, ad esempio! E poi, mentre lei decideva con sua madre di dare alla luce il bambino, lui si crogiolava in elucubrazioni sterili, come se una decisione dovesse essere presa ancora! Allora, gli suggerii di fermarsi a riflettere per qualche ora – non di più! -, e subito dopo di correre nella stessa direzione in cui ormai  Elena correva: bambino, casa, famiglia. Egli doveva dire un sì o un no. Era un ‘prendere’ o un ‘lasciare’, ormai. Se non avesse seguito il mio consiglio, si sarebbe ritrovato per tutta la vita accanto a  una donna che gli avrebbe rimproverato di non aver mai voluto quel figlio! Marco disse sì, ma non fu all’altezza del compito, perché dovette fare il padre due volte, mentre egli avrebbe voluto giocare ancora con la vita, forse. Alle responsabilità dell’età adulta avrebbe preferito forse solo le schermaglie d’amore, ma Elena era lì a chiedere ora in quale casa sarebbero andati a vivere, come avrebbero pagato il ginecologo e le altre visite specialistiche… Gli adulti intorno a loro non hanno saputo essere figure di riferimento: alla solitudine in cui i due ragazzi già versavano si aggiunse il silenzio educativo. Il padre di Marco avrebbe dovuto insegnargli quello che egli non seppe mai indicare a suo figlio: il rispetto delle donne. Ora i due ragazzi precipitavano negli inevitabili litigi, per l’accavallarsi dei problemi irrisolti e per l’incapacità di situarsi ai diversi piani di realtà in cui entrambi si ritrovavano a vivere…
Marco avrebbe dovuto pensare meglio l’amore, prima di avvicinarsi a  Elena. Avrebbe dovuto sapere cos’è una donna, ché non basta il solo amore per amare una donna.  Noi siamo ora dislocati idealmente nell’istante eterno che precedette ogni decisione, quando Marco era in Comunità, e rispose ai richiami di Elena, che inconsciamente lo voleva accanto a sé. Marco non comprese il senso ultimo di tutti i messaggi che da lontano gli venivano da lei. Aderì alle schermaglie e uscì dalla Comunità.

I momenti in cui il cuore è ‘libero’ sono i più rischiosi: allora siamo più propensi a trovare facilmente chi possa appagare il bisogno di compagnia, regalandoci emozioni nuove. Quando poi si tratti di persona che noi conosciamo già, il richiamo è forte.
In Comunità i ragazzi si innamorano facilmente, nei Centri misti. Essi scambiano per amore il bisogno di cui parlavamo. Commettono un grave errore a scegliere una persona che non ha ‘risolto’ ancora i propri problemi, ché non è ancora veramente libera. La passione amorosa, l’attrazione fisica, il benessere immediato, la consonanza degli affetti – in un ambiente in cui vengono sollecitati fortemente i processi di individuazione – possono essere presi come ’strumenti’, veri e propri ‘beni’ (ormai acquisiti) da spendersi sul ‘mercato’ dei sentimenti: una dote da portare nella relazione, che i ragazzi hanno voglia di ’spendere’ subito.
Non si può negare che ci sia bisogno d’amore, sicuramente acuito dalla mancanza, ma l’impazienza con la quale solitamente i ragazzi si ‘lanciano’ in imprese sentimentali a due quasi mai dà frutti positivi. Un’idea dell’amore, a questo punto, ci verrà in aiuto, per dimostrare l’assunto generale: che ci sia qualcosa al di sopra dell’amore, addirittura più importante per noi dello stesso amore.
Se consideriamo i frutti marci delle scelte affrettate, ci rendiamo conto della natura dello stesso errore: dobbiamo scegliere, per non ritrovarci accanto a una persona che, magari, scopriremo in seguito che non è quello che cercavamo!
Al primo insorgere dei segni dell'amore; non appena ci sembra che l'altro abbia aperto una ferita nel nostro cuore, ci affrettiamo a chiamarlo amore. Per non perdere l'occasione data dai primi palpiti, ai quali assegniamo addirittura valore di verità – si tratta di indubitabili: puro sentimento, assoluta verità -, corriamo a dire il sentimento, incominciamo a dire a noi stessi che quello che sta nascendo è vero amore; se ci viene offerta l'opportunità di farlo, non aspettiamo un solo minuto: corriamo a dichiarare i nostri sentimenti all'altro; approntiamo la corte d'amore, immaginando i dialoghi più belli; accendiamo tutte le luci di casa, i lampioni delle strade, le stelle di giorno: è luce dappertutto; ogni impercettibile moto dell'anima dell'altro sarà interpretato come espressione alta, di pura spiritualità, luce, perfetta letizia, paradiso. Un semplice sorriso per noi sarà conferma accordata a mille domande di riconoscimento. Incominciamo a sentirci corrisposti. Magari, sarà anche così; ma la nostra macchina amorosa è in moto, procede inarrestabile. Senza dubbi, né esitazioni. Il calore che proviamo, l'emozione viva suscitata dalla semplice vista e dalla voce della donna che ci si para davanti – magari inconsapevole e del tutto naturale nei suoi movimenti – sono segni inequivocabili della bontà dei nostri sentimenti. Il nostro sentire è sincero. Ce ne convinceremo nel seguito dei giorni, segnati tutti dall'affanno, dal desiderio di rivedere una persona che fino a poco fa non ci mancava.
Quel sentire e quel patire l'altro non sono scienza, cioè certezza indubitabile del buon fare: occorre cercare scienza e verità, anche sui nostri sentimenti, prima dei sentimenti stessi. Noi non pratichiamo la giusta attesa. Non basta aspettare. Bisogna rimandare ogni decisione e scelta. Decidere, cioè separarsi dalla sponda in cui eravamo dislocati, e scegliere l'oggetto d'amore non son cose da fare a cuor leggero, d'impulso, confidando nella bontà delle nostre intuizioni e nella certezza delle conoscenze sulla natura dell'altro, della sua anima, delle sue intenzioni, del suo modo di condursi nel mondo. Non si tratta di scegliere una bellezza non meglio definita. Lasciarsi sedurre dalla bellezza e basta, senza aver assegnato ad essa un valore più profondo, senza aver dato all'oggetto d'amore un significato morale: qui è la radice dell'errore. La grazia e la bellezza sicuramente ci seducono. Gli occhi e la bocca, la voce e l'incedere di una donna sono stati celebrati dalla poesia da millenni. Cosa non sappiamo dell'amore, del suo modo di vincere le nostre resistenze? Apparentemente, tutto. Crediamo di sapere. Dunque, ci affidiamo ai  primi impulsi, convinti come siamo che la nostra esperienza e le nostre energie morali ci sosterranno nel compito della conoscenza dell'altro.
E' stato detto che l'amore non è cieco, anzi ci insegna a vedere. Se allora scopriamo di esserci sbagliati, dovremo ammettere di non aver visto bene. Non abbiamo saputo prevedere, ma soprattutto non abbiamo saputo attendere, per arrivare finalmente a vedere tutto ciò che c'era da vedere, cioè da comprendere, da conoscere…

Una delle esperienze più importanti che io abbia fatto in campo sentimentale riguarda un'altra persona, una giovane donna morta su cui il marito scrisse in un 'ricordino' consegnato agli amici che lei aveva una fede adulta. Per molti anni, in seguito, mi sono chiesto cosa fosse una fede adulta. Dobbiamo chiederci, allo stesso modo, se un sentimento non debba essere adulto, per essere vero.
Diremo, a questo punto, che la giusta attesa e la capacità di visione fanno un sentimento adulto.

Chi sa di sé non teme di attendere: ricorda il bene che ha ricevuto e spera.
La fedeltà, come fedeltà a se stessi, è buona fede, sincerità delle intenzioni, retto sentire: la qualità di questi affetti è morale, non genericamente psicologica.
Non basta dire che una persona ci piace, ci fa star bene, ha qualità. Sempre di nuovo, nel corso del tempo, ci ritroveremo nella condizione di dover scegliere, di dover pronunciare un sì rinnovato che non sarà mera adesione al patto d'amore: si tratta di elaborare il significato di una persona. Mente e cuore dovranno costruire costellazioni di senso, assegnando valore morale a ciò che si presenta con i caratteri della bellezza e della grazia.
Un momento di verità, al riguardo, è offerto dalle circostanze drammatiche in cui una persona che si senta non compresa o addirittura tradita negli affetti si ritrova a chiedere con insistenza quale sia il suo significato: cosa sono io per te? chi sono? qual è il mio significato?

Chi sa di sé saprà dire cosa significhi l'altro (ciò che vede, ciò che sa dell'altro); (di)mostrerà il senso di un agire nella direzione della persona amata, fornendo ragioni che troverà nel tempo: un amore che non sia cieco è memore di sé, sa di aver rettamente pensato, rettamente sentito, rettamente agito; non temerà alcuna tempesta. Saprà essere il timoniere che possiede l'intuizione dell'amore, l'energia spirituale condivisa, che sola garantisce la continuità nel tempo e il successo della vita di relazione: il trascorrere dell'intuizione d'amore – il significato che i membri della coppia danno al loro stare insieme – dall'uno all'altra è il risultato più grande. Significa affidarsi all'altro, confidando nell'altro: l'altro non si tradirà; si prenderà cura di noi.

Sia crescita non costruzione! / Per questo scegliesti / il partito delle radici / contro il lastrico delle vie, fossero pure imperiali.

ha scritto la poetessa italiana Margherita Guidacci.

Crescere insieme. Non c'è niente da 'costruire'. Le vie del diavolo sono lastricate di buone intenzioni! Scegliere il partito delle radici, cioè vedere le cose dalla parte delle radici, andare alla radice delle cose, e la radice delle cose è l'uomo – come ci ha insegnato Karl Marx.

E' nell'universalmente umano che troveremo il senso del nostro errare. La nostra errante radice trova qui il suo approdo, in questo consistere plurale, nella consapevolezza che si cresce in consapevolezza solo insieme a qualcuno. Sarà facile procedere, se ci faremo sostenere dal coraggio – la virtù dell'inizio -, dalla fedeltà – la virtù della continuazione – e dalla perseveranza – la virtù del compimento.

Al di sopra dell’amore significa proprio questo: nella vicenda amorosa possono darsi circostanze essenziali (non secondarie) che impongano una superiore capacità di amare. Più dello stesso amore, conta la capacità di prendersi cura dell’altro, oltre la ricompensa che ne deriverà per noi.

VITTORINO ANDREOLI confessa: «Io sono tanto fragile da pensare sempre all’amore, nelle sue varie specificazioni, e sento la voglia di essere amato per poter amare: un circolo virtuoso per cui la voglia di amare coincide soltanto con l’essere amato: due fragilità si uniscono e si fanno forza dentro il segreto, nel mistero dell’amore» (L’uomo di vetro. La forza della fragilità, Rizzoli 2008, pag.14).

Leggere REMO BODEI, Amore e alterità.

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