REMO BODEI, Amore e alterità

QUESTIONI

REMO BODEI, Amore e alterità

Ti innamori di una persona e all’improvviso scopri un fenomeno che sembra sfidare ogni logica: voi due – individui separati, che in precedenza non vi conoscevate o vi ignoravate – ora vi ‘riconoscete’, per combinazione e tra milioni di persone, come gli unici capaci di intendervi e di completarvi reciprocamente. E’ come se, senza saperlo, vi foste cercati da sempre.

Vi sentite quasi rinascere e desiderate forse ardentemente fondervi e annullarvi l’uno nell’altro, completando così la vostra personalità specifica in un essere nuovo e strano, formato, secondo l’espressione popolare, da “due corpi e un’anima sola”.

E’ questa una condizione felice ma piena di potenziali pericoli. Ti accorgi però ben presto che l’amore pone ciascuno dei due dinanzi a un paradosso vivente: esige che mi senta, nello stesso tempo, me stesso e l’altro, così che nel rapporto si conservino simultaneamente sia l’identità che l’alterità, sia l'”io” che il “tu”. Se, infatti, mi sottraggo troppo alla fusione con l’altro, se mi chiudo nella mia esclusiva e immodificabile identità (nei miei modi di pensare, nei miei gusti); se, peggio ancora, cerco di imporla all’altro, questi rischia di estraniarsi da me. Mi abbandona, per ‘legittima difesa’, oppure mi si sottomette passivamente (in quest’ultimo caso, mi privo potenzialmente del piacere e dell’interesse stesso dell’amore, che deriva dal contributo di diversità, rispetto a quel che sono, che l’amato mi può dare, per arricchirmi così di quanto, mancandomi, avverto come prezioso. Se, al contrario, mi concedo totalmente all’altro, perdo la mia identità e autonomia, rischiando di venir strumentalizzato dai desideri, dall’arbitrio e dal capriccio dell’altro.

Alternative

Considerando tale sfondo problematico, cosa pensi di queste tre ipotesi: che la piena fusione degli amanti sia non solo desiderabile, ma anche possibile (SOLUZIONE AHotwordStyle=BookDefault; )? Che essa non solo si riveli destinata al fallimento, talvolta tragico, ma possa anche rappresentare una sorta di sottile, mascherata, micidiale manifestazione di violenta minaccia dell’autonomia e della dignità dell’altro (SOLUZIONE BHotwordStyle=BookDefault; )? Che il riconoscimento dell’insuperabilità della solitudine dell’individuo (la rinuncia dunque a trasformare il due in uno) rappresenti, nella sua forma migliore, anche una manifestazione di rispetto dell’altro, il rifiuto di ‘cannibalizzarlo’, di inghiottirlo simbolicamente in noi, di plasmarlo a nostra immagine e somiglianza (SOLUZIONE CHotwordStyle=BookDefault; ) ?


SUGGERIMENTI

Perché l’amore nasca e si mantenga, tra gli amanti deve trovarsi (o ristabilirsi) continuamente una ‘giusta’ distanza. Deve accadere qualcosa di simile allo scoccare della scintilla tra i due poli di un arco voltaico opportunamente situati. Se cioè l’essere amato mi si ‘avvicina’ eccessivamente, finendo con l’identificarsi con me, allora è come se mi ritrovassi solo con me stesso, in compagnia di un doppione del mio io. Se, invece, l’altro si ‘allontana’ troppo, rischia di diventarmi estraneo, di apparirmi persona diametralmente diversa da me, con cui è dunque impossibile stabilire legami profondi e duraturi. In termini platonici si potrebbe dire che Eros è figlio sia di Ricchezza (giacché, come Giulietta dice a Romeo in Shakespeare, “Quanto più / do a te, tanto più possiedo” [Atto II, scena II]), sia di Povertà (perché se bastassi a me stesso, non avrei bisogno dell’altro).

APPROFONDIMENTI

Quando nacque Afrodite, gli dei tenevano banchetto, e tra gli altri c’era anche il figlio di Metis, Poros. E dopo che ebbero cenato, giunse Penia per mendicare, poiché il cibo era stato sontuoso, e stava alla porta. Poros intanto, ubriaco di nettare, il vino infatti non c’era ancora, era entrato nel giardino di Zeus e, appesantito dall’ebbrezza, dormiva. Penia allora, proponendosi, per la propria povertà, di avere un figlio da Poros, si distende accanto a lui e concepisce Eros. Per tale ragione, del resto, Eros risulta seguace di Afrodite e dedito al suo servizio: egli infatti è stato generato durante la festa per la nascita di lei, e al tempo stesso è, per natura, amante della bellezza e di Afrodite, che è bella. In quanto è figlio di Poros e di Penia, dunque, ad Eros è toccata una siffatta sorte. Anzi tutto, è sempre povero, e ben lungi dall’essere morbido e bello, come crede il volgo; piuttosto è ruvido e irsuto e scalzo e senza asilo, si sdraia sempre per terra, senza coperte, dorme a cielo scoperto davanti alle porte e sulle strade, e possiede la natura della madre, sempre dimorando assieme all’indigenza. Secondo la natura del padre, d’altro canto, ordisce complotti contro le cose belle e le cose buone: invero, è coraggioso e si getta a precipizio ed è veemente, è un mirabile cacciatore, intreccia sempre delle astuzie, è desideroso di saggezza ed insieme ricco di risorse, passa tutta la vita ad amare la sapienza, è un terribile mago, e stregone, e sofista. E la sua natura non è né di un immortale né di un mortale: in una stessa giornata, piuttosto, ora è in fiore e vive, quando trova una strada, ora invece muore, ma ritorna di nuovo alla vita grazie alla natura del padre; ciò che si è procurato, peraltro, a poco a poco scorre sempre via, cosicché Eros non è mai né sprovvisto né ricco, e d’altro canto sta in mezzo fra la sapienza e l’ignoranza. Le cose stanno infatti nel modo seguente. Nessuno degli dei ama la sapienza, né desidera diventare sapiente, poiché lo è già; se poi c’è qualcun altro ad essere sapiente, neppure costui ama la sapienza. D’altro canto, nemmeno gli ignoranti amano la sapienza, né desiderano diventare sapienti. Proprio in questo, difatti, l’ignoranza è insopportabile, nel credere, da parte di chi non è né bello né eccellente, e neppure saggio, di essere adeguatamente dotato. Chi non ritiene di essere privo, dunque, non desidera ciò di cui non crede di aver bisogno.

– Chi saranno allora, o Diotima, – chiesi io – gli amanti della sapienza, se non lo sono né i sapienti né gli ignoranti?

– A questo punto la cosa è ormai evidente – disse – anche per un bambino: saranno coloro che stanno in mezzo a questi due, e tra di essi vi sarà anche Eros. In effetti la sapienza fa parte senza dubbio di ciò che vi è di più bello, ed Eros, dal canto suo, è amore al riguardo della bellezza, cosicché necessariamente Eros sarà amante della sapienza e, essendo amante della sapienza, sarà nel mezzo tra il sapiente e l’ignorante. E la causa, per lui, di queste cose sta del pari nella sua nascita: ha infatti un padre sapiente e ricco di risorse, una madre invece non sapiente e priva di risorse. Orbene, la natura del demone, caro Socrate, è questa: quanto poi a colui che tu ritenevi essere Eros, non ti è accaduto nulla di sorprendente. Tu credevi invero – come mi sembra, a giudicare da quanto dici – che l’oggetto amato, e non già quello che ama, fosse Eros. Per questo, io penso, Eros ti appariva totalmente bello. Giacché l’oggetto degno di essere amato è ciò che essenzialmente è bello e tenero e perfetto e da ritenere felice; ciò che ama, invece, certo ha un’altra figura, quella appunto che io ho spiegato.

E io dissi: – Sin qui va bene, o straniera, poiché tu parli in modo bello. Tale essendo la natura di Eros, quale servizio egli rende agli uomini?

– Appunto questo, o Socrate – riprese – cercherò di insegnarti, dopo ciò che si è detto. In realtà, Eros ha dunque una tale natura e una tale nascita, ed inoltre, come tu mi affermi, si rivolge alle cose belle. Ma se qualcuno ci domandasse: ” In che senso, o Socrate e Diotima, Eros si rivolge alle cose belle? ” o più chiaramente, in questa forma: “Chi ama le cose belle, ama; che cosa ama?”.

E io risposi: – Che esse diventino sue.

– Ma questa risposta – disse – suscita un’altra domanda del seguente tenore: “Che cosa accadrà a colui, cui vengano ad appartenere le cose belle?”. Dissi che io non ero ancora del tutto in grado di rispondere prontamente a questa domanda.

– Ma – disse – è proprio come se qualcuno, servendosi del bene in luogo del bello, mutasse la domanda: “Suvvia, Socrate, chi ama le cose buone, ama; che cosa ama?”.

– Che esse – feci io – diventino sue.

– E che cosa accadrà a colui, cui vengano ad appartenere le cose buone?

– A questo – dissi io – sono in grado di rispondere più facilmente: sarà felice.

– E’ infatti per il possesso delle cose buone – disse – che i felici sono felici, e non occorre più domandare ulteriormente: “A qual fine vuole essere felice, colui che lo vuole?”. Piuttosto, la risposta non ha seguito, a quanto pare.

– Dici la verità – feci io.

– Questo desiderio e questo amore, orbene, credi che siano comuni a tutti gli uomini e che tutti vogliano essere sempre in possesso delle cose buone? Oppure come intendi dire?

– Così, – risposi io – che siano comuni a tutti.

– Perché mai allora, o Socrate – domandò – non diciamo, a proposito di tutti, che amano, se è vero che tutti amano le stesse cose, e sempre; e perché di alcuni, piuttosto, diciamo che amano, e di altri invece non lo diciamo?

– Me ne stupisco anch’io – feci.

– Non c’è da stupirsi, invece, – disse – giacché noi, isolando una certa specie di amore, la chiamiamo appunto, imponendole il nome della totalità, amore, e per le altre specie invece usiamo sempre altri nomi.

– Analogamente a che cosa? – chiesi io.

– Analogamente a questo. Tu sai che creazione è un termine vasto. In effetti, per qualsiasi cosa che proceda da ciò che non è a ciò che è, senza dubbio la causa di questo processo è sempre una creazione; di conseguenza, sia le produzioni che rientrano in tutte le arti sono creazioni, sia i loro artefici sono tutti creatori.

– Dici la verità.

– Ma tuttavia – continuò lei – tu sai che non sono chiamati creatori, bensì hanno altri nomi, e che una sola parte, staccata dalla sfera totale della creazione – la parte che riguarda la musica e la poesia – viene designata con il nome della totalità. Soltanto questa parte, difatti, è chiamata creazione, e coloro cui appartiene questa parte della creazione sono chiamati creatori.

– E’ vero – dissi.

– Così dunque avviene anche riguardo all’amore. Riassumendo, il desiderio delle cose buone e della felicità si riduce interamente, per chiunque, ad essere l’amore potentissimo ed ingannevole; se non che gli uni, ricorrendo a lui in molte e diverse maniere, o nella tendenza agli affari, o nella passione per la ginnastica, o in quella per la sapienza, non ricevono il nome di amanti né si dice che amino, mentre gli altri, procedendo ed impegnandosi secondo una singola specie di amore, portano il nome della totalità: amore e amare e amanti (Platone, Simposio).

SOLUZIONE A

L’equilibrio tra tutti i fattori che costituiscono l’amore è assai delicato e instabile. Se preferisci questa soluzione hai allora una concezione dell’amore che viene in genere definita impropriamente “romantica”. In realtà di “romantico” in senso storico e filosofico vi è in questo caso ben poco, tanto è vero che uno dei padri fondatori del romanticismo, Friedrich Schlegel ha scritto un romanzo, Lucinde, che sarebbe più giusto avvicinare a certe forme di ‘libertinismo’, come quello presente in un’opera quasi contemporanea, Le relazioni pericolose [Les liaisons dangereuses] di Chordelos de Laclos, che forse hai visto nella versione cinematografica del regista Stephen Frears (1988). Sei, semmai, più vicino alla versione profana del concetto cristiano dell’amore dell’uomo per Dio (quale si esprime in particolare nella tradizione dei mistici spagnoli, come San Giovanni della Croce o Santa Teresa d’Avila, che miravano ardentemente al congiungimento tra l’Anima-Sposa e Dio-Sposo, all’estasi da consumarsi “en una noche oscura, / con ansias en amores inflamada”, nelle tenebre dell’indistinzione e della dedizione assoluta in cui l'”amado si unisce con l’amada”, poiché, come già insegnava Sant’Agostino, non deve esistere alcun limite nell’amore verso Dio: “l’unica misura di amarlo è amarlo smisuratamente”). Tale tradizione mistica si esprime in forma laicizzata e poetica anche in uno scritto giovanile di Shakespeare.

“L’identità non era equivalenza: con la loro natura, unica pur sotto duplice nome, esse non contavano né per uno, né per due. – La ragione, confusa da se stessa, vedeva l’unione nella loro divisione; assorbita l’una nell’altra, distinta una dall’altra, quelle creature si erano così bene assimilate, che si chiedevano come il loro due potesse formare un così armonico assolo; così che l’amore ha ragione, mentre la ragione, che pure dovrebbe aver ragione, che pure dovrebbe aver ragione, ha torto, dal momento che vede una così bella unione là dove dovrebbe esserci una divisione” (W. Shakespeare, La fenice e la tortora, versi 38-48, in Opere complete, a cura di A. Baldini, Milano, Rizzoli, 1963, vol. II, p.1211)].

SOLUZIONE B

Se condividi tale soluzione, allora puoi comprendere le posizioni di filosofi e sociologi come Hegel e Simmel o di scrittori quali Rilke o Musil, i quali insistono sull’impraticabilità di una fusione completa degli amanti e sulla possibile tragicità degli esiti di rapporti tesi al raggiungimento di questo fine. Le differenze legate alla “proprietà” (al corpo, al sesso, al patrimonio), una volta trascorsi i momenti di ebbrezza, non si possono infatti cancellare. [TESTO ANTOLOGICOHotwordStyle=BookDefault; ]

Simmelianamente, ciò che è il punto di forza dell’amore, l’unicità dell’essere amato, può trasformarsi in punto di rottura.

“L’amore è la più pura tragicità, in quanto si accende solo per l’individualità e si spegne contro l’insuperabilità dell’individualità” [G. Simmel, Frammento sull’amore, Milano, Edizioni Athena, 1927, p.89)].

Proprio perché si diventa troppo identici o troppo diversi, l’amore e il matrimonio naufragano, come scrive Rilke a proposito dell’atteggiamento della moglie.

“Ho capito perché dalla nostra vicinanza non è potuto nascere niente di reale: perché lei, o era me con tutte le sue forze e quindi soverchiante, oppure era il mio Contro Io e allora naturalmente un advocatus diaboli, un pallido doppio e costante oppositore, senza fondamento personale. Quanto possa aver sofferto di tutto questo è difficile da scoprire, è comunque stato inutile per ambedue e senza sbocco. Le belle lettere che di quando in quando mi scriveva, erano mie, lettere mie, nel mio stile, oppure non mi scriveva affatto” (R. M. Rilke – L. A. Salomé, Epistolario 1897-1926, Milano, La Tartaruga, 1992, p.173)].

Ritieni, comunque, come Stendhal, che l’amore possa presentare dei lati tanto attraenti quanto pericolosi.

L’amore “è un fiore delizioso, ma bisogna avere il coraggio di andarlo a cogliere sull’orlo di un abisso spaventoso” (Stendhal, L’amore, Milano, Mondadori, 1968, p.147).

TESTO ANTOLOGICO

Unificazione vera, amore vero e proprio, ha luogo solo fra viventi che sono uguali in potenza, e che quindi sono viventi l’uno per l’altro nel modo più completo, e per nessun lato luno è morto rispetto all’altro. L’amore esclude ogni opposizione; esso non è intelletto le cui relazioni lasciano sempre il molteplice come molteplice e la cui stessa unità sono le opposizioni; esso non è ragione che oppone assolutamente al determinato il suo determinare; non è nulla di limitante, nulla di limitato, nulla di finito. L’amore è un sentimento, ma non un sentimento singolo: dal sentimento singolo, poiché è solo vita parziale e non vita intera, la vita si spinge fino a sciogliersi e a disperdersi nella molteplicità dei sentimenti per trovare se stessa in questo tutto della molteplicità. Nell’amore questo tutto non è contenuto come somma di parti particolari, di molti separati; nell’amore si trova la vita stessa come una duplicazione di se stessa e come sua unità; partendo dall’unità non sviluppata, la vita ha percorso nella sua formazione il ciclo che conduce ad un’unità completa. Di contro all’unità non sviluppata stavano la possibilità della separazione e il mondo; durante lo sviluppo la riflessione produceva sempre più opposizioni che venivano unificate nell’impulso soddisfatto, finché la riflessione oppone all’uomo il suo stesso tutto, l’amore infine, distruggendo completamente l’oggettività, toglie la riflessione, sottrae all’opposto ogni carattere di estraneità, e la vita trova se stessa senza ulteriore difetto. Nell’amore rimane ancora il separato, ma non più come separato bensì come unito; ed il vivente sente il vivente.

Poiché l’amore è un sentimento del vivente, gli amanti possono distinguersi solo in quanto sono mortali, solo in quanto pensano questa possibilità di separazione, non in quanto siano realmente qualcosa di separato, non in quanto il possibile congiunto con un essere sia qualcosa di reale. Negli amanti non vi è materia, essi sono un tutto vivente. Che gli amanti abbiano autonomia e ciascuno abbia un principio suo proprio di vita significa solo che possono morire. Che la pianta abbia sale e parti di terra le quali recano in sé leggi proprie del loro operare, lo dice la riflessione di un estraneo, e significa solo che la pianta può decomporsi. Ma l’amore si sforza di togliere anche questa differenza, questa possibilità come mera possibilità, e di unificare quel che è mortale, di renderlo immortale. Il separabile, finché prima dell’unificazione completa è ancora qualcosa di proprio, crea difficoltà agli amanti: vi è una specie di contrasto fra la completa dedizione, l’unico annullamento possibile, l’annullamento dell’opposto nell’unificazione, e l’autonomia ancora sussistente: la prima si sente impedita dalla seconda. L’amore si sdegna di ciò che è ancora separato, di ciò che è una proprietà: e questo sdegnarsi dell’amore di fronte ad un’individualità è il pudore, il quale non è una reazione subitanea di ciò che è mortale, non è una manifestazione della libertà di conservarsi e di sussistere. In un’aggressione priva di amore, un animo pieno di amore viene offeso da questa ostilità, il suo pudore diviene ira che ora difende solo la proprietà, il diritto. Se il pudore non fosse un effetto dell’amore, che ha la forma dello sdegno solo perché vi è qualcosa di ostile, ma fosse qualcosa per sua natura ostile che volesse salvaguardare una proprietà attuabile, si dovrebbe dire che il massimo pudore ce l’hanno i tiranni, o le ragazze che non concedono senza denaro le loro grazie, oppure le donne vanitose che vogliono incatenare con i loro vezzi. Né gli uni né le altre amano: la loro difesa di ciò che è mortale è il contrario dello sdegno che si ha per esso: essi attribuiscono a quel che è mortale un valore in sé, sono cioè senza pudore. Un animo puro non si vergogna dell’amore, ma si vergogna che esso sia incompleto: l’amore si rimprovera che vi sia ancora una forza, un qualcosa di ostile che ne ostacola il compimento. Il pudore subentra solo con il ricordo del corpo, con la presenza personale, col sentire l’individualità: esso non è paura per ciò che è mortale, che è solo proprio, ma è paura del mortale, del proprio, paura che svanisce via via che il sensibile è ridotto sempre a meno dall’amore. L’amore infatti è più forte della paura, non ha paura della propria paura, ma accompagnato da essa toglie le separazioni, temendo solo di trovare un’opposizione che gli resista o che resti addirittura salda. Esso è un prendere e dare reciproco; nel timore che i suoi doni possano essere sdegnati, nel timore che un opposto possa non cedere al suo prendere, vuol vedere se la speranza non lo ha ingannato, se trova in ogni modo se stesso. Colui che prende non si trova con ciò più ricco dell’altro: si arricchisce, certo, ma altrettanto fa l’altro; parimenti quello che dà non diviene più povero: nel dare all’altro egli ha anzi altrettanto accresciuto i suoi propri tesori. Giulietta nel Romeo e Giulietta: Più ti do, tanto più io ho eccetera. L’amore acquista questa ricchezza di vita nello scambiare tutti i pensieri, tutte le molteplicità dell’anima, poiché cerca infinite differenze e trova infinite unificazioni, si indirizza all’intera molteplicità della natura per bere amore da ognuna delle sue vite. Quel che c’è di più proprio si unifica nel contatto e nelle carezze degli amanti, fino a perdere la coscienza, fino al toglimento di ogni differenza: quel che è mortale ha deposto il carattere della separabili, ed è spuntato un germe dell’immortalità, un germe di ciò che da sé eternamente si sviluppa e procrea, un vivente. L’unificato non si separa più, la divinità ha operato, ha creato. Ma questo unificato è solo un punto, un germe: gli amanti non gli possono partecipare nulla, sì che si ritrovi in lui un molteplice; infatti nell’unificazione non si è lavorato su un opposto, essa è pura da ogni separazione; tutto ciò per cui un molteplice può essere, può avere un’esistenza, il neo-generato deve averlo condotto a sé, opposto e unificato. Il germe si dà sempre più all’opposizione ed incomincia a svilupparsi; ogni grado del suo sviluppo è una separazione per riguadagnare l’intera ricchezza della vita. Così si danno ora: l’unico, i separati e il riunificato. Gli unificati si separano di nuovo, ma nel figlio l’unificazione stessa è divenuta inseparata.

Questa unificazione dell’amore è sì completa, ma può esserlo unicamente in quanto il separato è opposto in tal modo che l’uno è l’amante e l’altro è l’amato e che quindi ogni separato è un organo del vivente. Ma oltre a ciò gli amanti sono ancora legati con molti elementi morti; a ciascuno appartengono molte cose, cioè ciascuno è in relazione con opposti che anche per colui che vi si rapporta sono ancora opposti, ancora oggetti; così gli amanti sono ancora capaci di una molteplice opposizione nel loro molteplice acquisto e possesso di proprietà e diritti. Ciò che è morto ed è in potere dell’uno è opposto ad entrambi e l’unificazione sembra poter aver luogo solo se quel che è morto cade sotto il dominio di entrambi. L’amante che vede l’altro in possesso di una proprietà non può non sentire nell’altro questa voluta particolarità; né egli può da sé togliere l’esclusivo dominio dell’altro, perché ciò sarebbe di nuovo un’opposizione contro la potenza dell’altro, non potendovi essere altra relazione all’oggetto all’infuori della padronanza di esso; egli contrapporrebbe al dominio dell’altro una padronanza e toglierebbe una relazione dell’altro, l’esclusione di tutti gli altri. Giacché il possesso e la proprietà costituiscono una parte così importante dell’uomo, delle sue cure e dei suoi pensieri, neanche gli amanti possono trattenersi dal riflettere su questo lato dei loro rapporti; ed anche se l’uso fosse comune, resterebbe tuttavia indeciso il diritto al possesso; il pensiero di questo diritto non sarebbe certo dimenticato, perché tutto ciò che gli uomini possiedono ha la forma giuridica della proprietà; e se pure il possessore pone l’altro nel suo stesso diritto di possesso, tuttavia la comunanza dei beni è solo il diritto di ognuno dei due alla cosa (G. W. F. Hegel, Frammento sull’amore: L’amore, in Scritti teologici giovanili, Napoli, Guida, 1972, II vol., pp. 529 -532).

APPROFONDIMENTI

Credi che l’amore possa essere un semplice gioco di conquista, una “civetteria” che consiste nel concedersi e nel sottrarsi continui, oppure che – persino nel senso del Don Giovanni come viene presentato da Kierkegaard – lo “stadio estetico” della vita, la rincorsa affannosa del piacere nasconda una irrequieta insoddisfazione e, per contrasto, la posizione di Hegel? Che valore dai alla fedeltà all’interno o all’esterno del matrimonio?

SOLUZIONE C

Se ti ritrovi in questa soluzione ritieni probabilmente che abbia ragione lo scrittore austriaco Musil nel sottolineare l’autonomia dell’amato sino al punto di parlare di una “voluttà di estraneità”:

“Il nostro desiderio non è di fare di due creature una sola, bensì di evadere dalla nostra prigione, dalla nostra unità, di diventare due in una congiun-zione, ma meglio ancora dodici, un numero infinito, di sfuggire a noi stessi come in sogno, di bere la vita a cento gradi di fermentazione, di essere rapiti a noi stessi o comunque si debba dire, perché non lo so esprimere; allora il mondo contiene altrettanta voluttà quanto estraneità (…). Il solo sbaglio che potremmo commettere sarebbe d’aver disimparato la voluttà dell’estraneità e immaginarci di fare chi sa quali meraviglie dividendo l’uragano dell’amore in magri ruscelletti che scorrono su e giù fra un essere e l’altro” (Robert Musil, L’uomo senza qualità, trad. it., Torino, Einaudi, 1972, pp. 1102-1103)].

Il rispetto maggiore per l’amato potrebbe anche consistere, altrimenti, come dice Adorno, nell’accettazione eticamente riuscita dell’alterità e nella possibilità lasciata a ciascuno di essere se stesso, anche nella manifestazione della propria fragilità, senza che l’altro ne approfitti.

“L’amore è la capacità di sentire il simile nel dissimile” (Theodor W. Adorno, Minima moralia. Meditazioni sulla vita offesa, Torino, Einaudi, 1979, p.228)

“Sei amato solo dove puoi mostrarti debole senza provocare in risposta la forza” (ibid., p. 230).


APPROFONDIMENTI

Credi che l’amore possa essere un semplice gioco di conquista, una “civetteria” che consiste nel concedersi e nel sottrarsi continui, oppure che – persino nel senso del Don Giovanni come viene presentato da Kierkegaard – lo “stadio estetico” della vita, la rincorsa affannosa del piacere nasconda una irrequieta insoddisfazione e, per contrasto, la posizione di Hegel? Che valore dai alla fedeltà all’interno o all’esterno del matrimonio?

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