CAMMINARSI DENTRO: (58): Riportare i ragazzi a casa.

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Quando cerco un’espressione che possa andar bene sempre, per rendere conto dei venti anni di esperienza di volontariato che si compiono nel 2009, mi viene in mente quello che promisi a don Antonio Mazzi il 31 gennaio 2003, in una fredda serata invernale assediata dalla neve: eravamo sotto una grande tenda riscaldata, alla periferia della mia città, ad un incontro serale, al termine di una lunga giornata fatta di incontri, con i ragazzi delle scuole, con gli Amministratori del territorio, finalmente con i genitori. Gli promisi altri dieci anni di fedeltà, cioè di operoso silenzio.
La ragione ultima dell’azione è una sola: riportare i ragazzi a casa.

La prima volta si verificò quando un’alunna di una mia amica si presentò da lei, sconvolta e smarrita perché era andata via di casa. Almeno, quelle erano le sue intenzioni: fuggire da suo padre, un uomo violento che picchiava sua madre. Lei aveva ‘assorbito’ la lezione del Sessantotto, con l’antiautoritarismo che lo contraddistingueva. Doveva dire a suo padre che lei non era d’accordo con i suoi metodi; doveva opporsi fieramente, rischiando di subire violenze tanto più dolorose, in quanto ne sarebbe uscita umiliata la sua giovane vita e con essa la fierezza di essere donna.
Al termine di lunghe ore trascorse a parlare drammaticamente dei rischi che correva allontanandosi troppo dalla sua famiglia, la convinsi a farsi accompagnare a casa, da suo padre.
Quando ci presentammo a lui, ci riservò uno sguardo torvo e preoccupato: conosceva il nostro prestigio di insegnanti, che non poteva osteggiare con gesti inconsulti.
Ci sedemmo a un tavolo del suo bar, in un angolo silenzioso, e gli dicemmo che avevamo riportato Erika a casa. Restò a lungo in atteggiamento di sospetto, quasi balbettando perché non comprendeva cosa stesse accadendo, quasi temendo che stesse per scattare una trappola: in quei momenti, eravamo noi a temere che potesse accadere qualcosa di spiacevole per noi; ma non battemmo ciglio. Era importante non danneggiare Erika, mostrando insicurezza e timore.
Serenamente disposti, senza che ci tremassero la voce o le mani che tenevamo poggiate sul tavolo, in atteggiamento di rispetto affettuoso, raccontammo l’accaduto, cioè lo smarrimento di Erika e l’atto inconsulto, la decisione di allontanarsi. Senza nulla chiedere, ci alzammo per accingersi a salutare e a ripartire.
Fu allora che vidi dipinto sul volto di quell’uomo duro e inutilmente severo momenti di smarrimento morale: era spaventato dalla nostra gentilezza, forse commosso.
Da quel giorno Erika cercò suo padre, gli parlò, gli fu vicino nei momenti di crisi economica, lo sostenne forse meglio di sua madre… Sicuramente, cancellò dal suo cuore l’idea che potesse abbandonarlo ancora.

Erika oggi è mamma premurosa e attenta. Sua figlia ha frequentato per cinque anni il Liceo in cui insegnavo io. Nelle sere riservate al ricevimento dei genitori, mi è accaduto qualche volta di incontrarla di sfuggita. Ci siamo stretti la mano e ci siamo abbracciati con un breve sorriso. Non è mai stato necessario dire altro.

Sua figlia somiglia a lei: l’ho riconosciuta nella massa dei ragazzi che affollavano la scuola. In qualche ora di supplenza passata nella sua classe ho osservato i suoi atteggiamenti: ho scoperto in essi la stessa premura e la stessa gentilezza che erano nate in sua madre tanto tempo fa, quando scoprì di essere figlia, cioè legata alle radici non importa quanto aspre della sua casa.

L’onda dei ricordi mi ha riportato sempre alle mie ragioni, alla scelta consumata oltre trent’anni fa, quando per la prima volta mi resi conto che questo è educare: aiutare i ragazzi a crescere allontanandosi dalle proprie radici, ma senza separarsene mai.

L’esistenza spezzata dei tossicomani è segnata dallo stesso errore di Erika. Essi cercano la felicità con i mezzi sbagliati. Soprattutto, non sanno cosa sia la vera felicità. Non sanno.

In questi venti anni, più doloroso è stato il tragitto disegnato dai ragazzi incontrati, che cercavano senza sapere cosa. Insieme abbiamo continuato a cercare, senza smettere mai di tenere lo sguardo rivolto verso casa. Quest’ultima è apparsa spesso vuota, ancor più spesso estranea, addirittura irraggiungibile.

E’ stato necessario tessere emozioni e pensieri, restituire significato alle parole e alle persone, curare antiche ferite e favorire processi riparativi e ricostruttivi. Siamo stati accanto all’Ombra, cioè vicino all’errore e al male e ne siamo usciti sempre accresciuti, avendo ricevuto in dono l’affetto di giovani esistenze esposte a tutti i venti, che finalmente hanno ritrovato in sé ragioni a sufficienza per poter consistere presso di sé, pacificate e serene. Abbiamo disegnato insieme quello che Exodus chiama ‘paesaggio affettivo’. Abbiamo visitato insieme i nuovi sogni che affollano le notti dei ragazzi, non più assediate dagli incubi dell’incomprensione e dell’isolamento. Li abbiamo visti ogni volta allontanarsi da noi, per riprendere la strada di casa. La meta che il loro cuore desidera è stata sempre la stessa. Non ci sbagliavamo.
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