CAMMINARSI DENTRO (65): Dalla Verità al Presque-rien.

E’ incredibile il numero di persone che si abbandonano al potere delle illusioni, senza rendersi conto del fatto di essere sotto l’influsso di un potere che distorce il rapporto con il tempo,  proiettando la persona oltre la sua realtà umana!


Il fraintendimento di fondo che opera nell’azione di un’illusione nasce dalla tendenza a presupporre atteggiamenti, risposte, situazioni concepite come plausibili e verosimili e, per questo, possibili, anzi, probabili, anzi tali che presto si avvereranno. La fiducia che ciò che è stato solo pensato si avvererà viene chiamata spesso speranza, che è altro sentimento poco chiaro.

E’ singolare il fatto che la lingua latina non abbia un verbo che esprima la ‘speranza’ che una cosa sia accaduta: si ‘spera’ che una cosa accadrà, cioè il verbo sperare vuole dopo di sé l’infinito futuro, come promitto (prometto) e iuro (giuro).  L’asse temporale che è proprio di questo verbo è uno solo ed è quello del futuro.

Se noi diciamo: spero che tu mi abbia riportato il libro, il latino dice: mi auguro che tu mi abbia riportato il libro. Ben diverso è il sentimento che si attaglia alla situazione: si esprime l’augurio o il rammarico, a seconda che una cosa possa verificarsi o no, si sia verificata o no. Le forme italiane che corrispondono a quelle latine non sono meno interessanti: voglia il cielo che… (ed è possibile che accada ciò che desideriamo – AUGURIO), volesse il cielo che fosse accaduto… (ed è impossibile che sia accaduto: sappiamo che non è accaduto ciò che desideravamo o che è accaduto ciò che temevamo potesse accadere – RAMMARICO).

E’ sconcertante la capacità della mente di concepire come quasi certo ciò che solo la speranza ha il diritto di assegnare al futuro prossimo come probabile, essendo verosimile che accada: non di mera supposizione o desiderio si tratta, ma di cosa progettata, voluta assieme ad altri o predisposta in modo tale e a condizioni tali che sicuramente accadrà, si farà… Resta solo quel tasso di alea e di caso che è proprio di ciò che non è ancora: una porzione di imponderabile che accompagna tutte le azioni umane.

L’errore in cui cadiamo nasce dalla pretesa di fare di un mero desiderio un progetto: siamo pronti anche a chiamare progetto un’intuizione, un’anticipazione del futuro plausibile, un frammento di realtà credibile perché già dato.

Quante volte il maschio scambia un sorriso e una disponibilità umana come interessamento di una donna, sentendosi autorizzato a ‘sperare’ nell’insperabile? E quante volte poi interpreterà un cortese rifiuto come necessario e temporaneo diniego, in vista di più corposi assensi, da preparare con insistenti richieste o avances più o meno esplicite?
Ma, soprattutto, quando saprà imparare dall’esperienza, esercitandosi a graduare la risposta, abitando la distanza, aspettando i segni che ogni cuore produrrà, se vorrà produrli?
Chi insegnerà ai maschi che crescono il linguaggio dei sentimenti, perché comprendano la realtà dell’anima e si allenino a percorrere le strade che conducono all’invisibile? Troveranno i ragazzi che crescono chi possa aiutarli ad accedere al simbolico?

Non ascoltiamo gli altri. Non ci fermiamo di fronte alla realtà corposa delle cose. Non rispettiamo le situazioni, i caratteri delle persone, le biografie, le file di continuità che pure talvolta si danno e stanno lì a ricordarci che non tutto può essere manipolato a nostro piacimento.
Le oscillazioni del cuore altrui, come le nostre, non ci porteranno forse ora a desiderare il meglio, ora a temere il peggio? E presteremo fede a ciò che non appare nemmeno vagamente come la ben rotonda verità?

Ad una cosa sola rendere omaggio, alla realtà delle cose, non a verità eterne ed immutabili, che vogliamo scolpite nella pietra e che talvolta non sono altro che le-presque-rien, quasi niente, come felicemente intuì Jankélévitch.
A questo riguardo, in quale altro modo chiamare l’insistente ricerca della verità di ciò che è accaduto in un momento dato e che ci appare cosa da cui dipende un’intera relazione, la sua verità, appunto? Un dettaglio, un incontro fortuito, un interessamento non incoraggiato, uno scambio emotivo necessario perché dettato dalle circostanze, finalmente una simpatia ricambiata, un contatto  emotivo basato sul piacere di conversare… Se troveremo in ogni movimento delle cose un tradimento, un inizio di tradimento; se ci faremo tormentare dal sospetto e dal dubbio, rincorreremo i gesti spiati per stabilire fin nei minimi particolare come si sia consumato il tradimento: vogliamo inchiodare l’altro alla verità, costringerlo ad ammettere che il nostro tormento ha un fondamento di verità indubitabile, che è assolutamente vero quello che temevamo… Vogliamo una resa, una umiliazione, forse anche un risarcimento, ma un grande risarcimento.

E’ allora che ci rendiamo conto della sproporzione esistente tra quello che abbiamo accertato e il rimedio, la ricompensa… Cosa possiamo mai chiedere? Ma, soprattutto, cosa abbiamo tra le mani? la verità, anzi la Verità suprema, un’anima finalmente smascherata o un dettaglio piccolo, un fatto, un avvenimento e niente più? E’ ciò che Vladimir Jankélévitch chiama le-presque-rien, il quasi niente. Noi non abbiamo tra le mani la grande verità.

Dobbiamo decidere, poi, che cosa fare dell’esistenza dell’altro. Se sia possibile cestinarla, abrogarla, sospenderla, chiuderla in casa, inibirla nei comportamenti e nelle scelte, fermarla per sempre. Scopriamo dolorosamente che non vogliamo niente di tutto questo, anche se tenteremo questa o quella impresa, per arginare il dolore della mente. Scopriamo l’inutilità del nostro affanno, della smania, del furore. Avvertiamo sempre più chiaramente la sproporzione tra le nostre chimere e la realtà.

Se saremo sostenuti da amore della conoscenza e dalla conoscenza dell’amore, ascriveremo a sapere saputo l’accaduto: faremo tesoro dell’esperienza, apprenderemo da essa, impareremo a ricordare il bene ricevuto, dilatando la percezione dell’altro alla dimensione ampia del Bene.

Se riusciremo nell’impresa ricorrente dell’assegnazione di significati condivisi al mondo, ci salveremo e ci salveremo assieme agli altri con i quali avremo condiviso il senso. Saremo autorizzati a sperare. Ci sarà posto nel nostro cuore per la sottile sofferenza che ci assale quando ci rendiamo conto che gli altri continuano ad esistere quando si allontanano da noi, e quella sofferenza non sarà disgiunta dalla certezza che torneranno a noi, che la solitudine di oggi è beata solitudo, la sola beatitudo che ci è concessa in sorte tutte le volte che ci sciogliamo dall’abbraccio con il mondo.

Solo se impariamo a consistere da soli riusciremo a sopportare il peso della lontananza e della mancanza e non ci faremo schiantare tutte le volte che patiremo l’assenza o la perdita di coloro che amiamo.

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