Camminarsi dentro (8): Ricordare e dimenticare

La prima attuazione della Legge istitutiva della Giornata della memoria nella mia scuola fu curata da me, con l’aiuto di un gruppo di lavoro misto (composto di studenti e docenti). Portammo in due assemblee distinte le classi del Biennio e quelle del Triennio in un Auditorium capace di contenere i due gruppi, per proiettare in esso film, esporre tabelloni con i risultati di ricerche dei ragazzi, allestire un piccolo spettacolo fatto di musica e poesia, di letture ad alta voce e di interventi politici.

Aprii le due assemblee con lo stesso intervento, a cui detti come titolo: Ricordare e dimenticare. Ricostruii un’esperienza personale per esemplificare l’idea del dimenticare che intendevo proporre e sulla quale fare serie distinzioni. Nel 1961, quand’ero studente di Scuola Media, ci furono le celebrazioni per il Centenario dell’Unità d’Italia. Il clima era risorgimentale. Portavamo al petto coccarde tricolori. Leggevamo letteratura risorgimentale, allora diffusissima. Sognavamo gli eroi della nostra storia, che allora sentivamo come recente. Naturalmente, io mi sentivo un uomo del Risorgimento. La parola scendeva nel cuore come un balsamo, a curare antiche ferite: mio nonno mi aveva parlato degli Austriaci, della guerra che aveva combattuto contro di loro; mi fece sentire come nemico chi abitava al di là delle Alpi, dopo il Brennero, minaccia attuale… Per lunghi anni ancora, almeno fino all’esame di maturità (1966-67), sentivo ancora quel clima. Debbo confessare che andai a sostenere l’Esame con la divisa di uomo del Risorgimento appuntata sull’anima!

Naturalmente, il passaggio all’Università di Roma fu traumatico, perché coincise con la scoperta della Modernità in una sola volta. Impiegaii l’intero Corso di laurea e qualche anno ancora dopo la laurea per imparare ad allontanarmi dal mito e dalla mentalità ottocentesca, che era tutto ciò che ci avevano dato nell’ultimo anno di Liceo. Lentamente compresi che il Risorgimento era lontano. All’Università scoprii altri miti. Mi resi conto del fatto che il mito risorgimentale non era più operante come un tempo.

ll secondo Risorgimento era il nuovo, politicamente parlando. Si trattava della Resistenza. Presi a leggere sugli anni del Novecento che precedettero la nascita della Repubblica Italiana. Sprofondai nella lettura di tutto ciò che circolava allora sul Fascismo. Nacque in me l’amore per la cultura ebraica: scoprii la letteratura mitteleuropea, la shtetl, Israele. Da allora, non ho mai smesso di sentirmi influenzato da tutto ciò che è ebraico. Feci anche una ricerca sulle origini della mia famiglia, perché mi chiedevo, a partire dal cognome, se per caso io non fossi di origine ebraica. La ricerca, però, non dette esiti positivi, perché il nonno di mia padre risultava iscritto al registro della Parrocchia come figlio di genitori sconosciuti.

Il primo Risorgimento era sempre più lontano. Oggi possiamo dire che abbiamo ‘dimenticato’. Quel tempo non è più operante sulle nostre coscienze come lo era una volta.

In seguito, è venuta la scoperta sempre più chiara della Shoah, della quale non ho mai smesso di occuparmi. Mi accade ancora oggi di piangere silenziosamente, quando mi dedico alle mie pratiche di lettura e alla visione rinnovata di film e di testimonianze. Primo Levi è il primo Autore della mia Biblioteca ideale. Naturalmente, amo in modo indicibile Anna Franck, Etty Hillesum, Simone Veil, Edith Stein, Cristina Campo e tutti gli altri che hanno scritto di sé. Oggi che mi appresto ad invecchiare e che si avvicina per me l’ora che non ha sorelle, li sento come miei fratelli. Esercito con il loro aiuto la pratica della memoria. Come dice Michel Onfray, si tratta di «colmare di memoria il buco nero». Questo io farò fino alla fine dei miei giorni.

Ricordare e dimenticare, dunque. Posto, però, che sono nato in un Paese che ha perso la sua dignità, ché non ha il coraggio di parlare del proprio passato, di dare un nome alla vergogna che pesa sul presente – Angela Merkel ha dichiarato che la Shoah è la vergogna della Germania, un passato che pesa sulla coscienza di una Nazione -, posso solo costituirmi come coscienza morale – non mi è dato sentirmi Italiano, cioè fratello di qualcuno – e coltivare nella mia coscienza il ricordo di ciò che è stato. Non mi vanterò più di mio nonno, che con undici figli si rifiutò di prendere la tessera del Partito Nazionale Fascista, ma non smetterò di dire SHOAH.

Mia madre non ha mai pensato, quand’era ancora in vita, che forse suo padre avrebbe potuto fare cose diverse, per imprimere un corso diverso alla sua vita. Lei mi ha raccontato la fame e il dolore, la carne straziata dei giovani nella città in cui sono nato – Lanciano – occupata dai nazisti, spalleggiati dai fascisti italiani. E quando raccontava lo faceva sempre gridando. Come posso far tacere la sua voce? Quando cesserà questo dolore, ancora vivo in me? Quando nascerà un uomo in questa terra che sia capace, come Angela Merkel, di dire: «ciò è stato»; di dirlo a tutti, per curare la ferita immedicabile; di indicare una strada che non sia il disonore che mi opprime oggi e che viene dai cialtroni che si apprestano a governare questa nazione senza volto e senza storia?

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