CAMMINARSI DENTRO (130): C’è un tempo per ringraziare.

*

Il ringraziare è nemico della fretta. Quando mai è bastato dire un grazie! per esprimere riconoscenza? Evidentemente, non stiamo parlando della consuetudine di offrire da bere in un bar o di un invito a cena: non parliamo delle cose che non cambiano la nostra vita. Per queste non si richiede un grande sforzo morale. Non ricordare il bene che si è ricevuto, invece, è cosa che si accompagna spesso ai rapidi congedi.


Qualche anno fa un ragazzo residente in una sede di Exodus disse all’improvviso all’Educatore di riferimento che voleva tornare a casa per qualche giorno: sentiva di dover chiedere perdono a suo padre. Era giunto il momento di farlo. Sentiva l’urgenza di questo gesto. L’Educatore si oppose fermamente e gli fece capire che non doveva. Non era quello il modo e il tempo. Abbiamo riflettuto in tanti su questa esperienza preziosa. Abbiamo compreso dove fosse l’errore. Era passato poco tempo dalla sua partenza da casa. Correre a dire semplicemente Perdonami! non bastava: era chiedere troppo. Sul tema del perdono ritorneremo, con argomenti ancor più stringenti. In materia di ringraziamento, intanto, vale la stessa obiezione.

Il filosofo Jacques Derrida ha confessato prima di morire di aver trascorso tutta la vita a perdonare e a ringraziare. Studieremo con lui che cosa leghi queste due attività morali che danno senso a tutta la nostra vita.

Mi accontenterò di dire oggi che bisogna rinunciare a dire perdono e grazie, per consentire al tempo della coscienza di fare tutti i passi necessari, senza saltarne nessuno. Sarei tentato di dire che è troppo comodo dire: Perdonami! e aspettarsi un perdono immediato!, come dire: Grazie! e con questo ‘pareggiare i conti’. Quest’ultima espressione mi fa venire in mente che io sono in debito (per il bene ricevuto), che io ho sempre da ringraziare, che non cesserò mai di ringraziare per tutto il bene che ho ricevuto.

Il più esatto sentire è quello che riconosce la natura e la grandezza del bene ricevuto. Io sento in me il benessere spirituale, la pace conquistata, la serenità, la calma, l’equilibrio nel fare e nel dire. Non posso fare a meno di riconoscere la grandezza di questi beni. E se l’amicizia e l’amore riscaldano la mia vita; se stima e benevolenza accompagnano ogni sguardo che cada sulla mia esistenza; se godo di riconoscimenti e se sono raggiunto dalle manifestazioni d’affetto più diverse, come potrò sdebitarmi dicendo un semplice grazie?

Basterà ricambiare il bene ricevuto con la stessa moneta con la quale io sono stato compensato? E’ così che si fa? Mi viene in mente una vecchia conoscenza, una persona che credevo amica: si presentò un anno prima di Natale a casa mia, dopo che io le avevo fatto un piccolo dono, dicendo apertamente che era venuta a ricambiare il dono. Portava con sé un oggetto (per me) insignificante che mi consegnò con evidente soddisfazione. Io accettai di buon grado e pensai: siamo pari. Chiamo questo: affrettarsi a ringraziare.

Walter Benjamin ha detto una volta che il dono deve spaventare chi lo riceve. Detto questo, o meglio, dopo aver fatto questo, c’è da chiedersi cosa debba fare a sua volta chi è stato raggiunto da un dono che ha suscitato addirittura spavento per la sua ‘grandezza’. Io credo che non si debba fare nulla: ringraziare, dicendo la grandezza del dono, esprimendo vivo apprezzamento, ma, nello stesso tempo, dichiarandosi in debito, dichiarando coraggiosamente che non sarà facile sdebitarsi, ricambiare, riuscire a fare altrettanto. Al di là, però, delle parole di circostanza, io credo che conti saper accettare. Dirò allora che chi ci fa dono di qualcosa di grande lo faccia per accrescere la nostra felicità, che abbia di mira il nostro benessere materiale e spirituale. Come ringraziare, allora, se non mostrando quell’accrescimento, quella felicità? Solo questo io credo che debba essere ‘restituito’. Chi porta doni non si aspetta doni dello stesso valore! Si aspetta la nostra riconoscenza: chiede riconoscimenti: stima, affetto, amicizia, amore…

Nel tessuto della relazione educativa, allora, bisognerà immaginare solo questo: che l’altro riconosca in noi la misura del nostro limite, come è tipico di ogni atto d’amore. Che veda in noi finalmente persone degne di compassione e di considerazione e di affetto sincero e disinteressato. Nel tempo che resta della nostra vita ci piace immaginare che quelli che abbiamo amato si congedino lungamente da noi, senza abbandonarci del tutto, scandendo il tempo che verrà con i gesti dell’amicizia e della fraternità. Immaginare le parole che vorremmo sentire e i gesti che vorremmo fossero prodotti verso di noi è impresa inutile. Ci basta pensare che tutte le volte che incontreremo ancora coloro che abbiamo aiutato a ritrovare la libertà perduta sappiano correrci incontro e abbracciarci e consolarci un po’ silenziosamente con quell’abbraccio, per le nostre fragilità e per un bisogno d’amore che deve rimanere inconfessato, come è tipico della condizione di tutti gli Educatori, che non possono fare a meno di amare – cioè di prendersi cura di tutti coloro che si sono affidati a loro.

 


Questa voce è stata pubblicata in Senza categoria e contrassegnata con . Contrassegna il permalink.