CAMMINARSI DENTRO (135): Il timore e la speranza. Dalla paura di perdere un figlio per droga alla paura di vederlo perdersi di nuovo, dopo la riconquista della libertà.

 

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I genitori di un tossicomane – soprattutto i padri – sono portati a pensare che debba salvarsi solo il figlio, che lui e solo lui abbia un problema, che quel problema se lo sia ‘cercato’ lui, che le ‘cure’ debbano riguardare solo lui. Non comprendono quello che sicuramente accadrà durante la permanenza in un Centro residenziale e al rientro del figlio, nel corso delle ‘verifiche’ periodiche, alla fine del programma di recupero. Difficilmente realizzano che tutto si ‘risolverà’ nella relazione faccia a faccia, che il padre debba soprattutto manifestare le proprie emozioni, stabilire un contatto vivo e franco, che debba essere ricostituito un rapporto in cui il sospetto e la recriminazione non hanno più motivo d’essere.


A me piace dire che l’assedio delle sostanze è finito. La casa non è più in pericolo. Si tratta di abbandonare la morale da stato d’assedio che per anni è stata adottata, che ha segnato le emozioni di tutti i giorni, portando anche a pensare al figlio come a un nemico che si è costretti a tenere in casa. Non è più tempo di avere paura di lui.

Ma una nuova paura interviene a turbare i giorni. Certamente non grande e opprimente come quella di un tempo, ma non meno insinuante e persistente: il pensiero della libertà del figlio, l’idea che di essa egli possa non fare un buon uso. Come se la libertà fosse un costume da adottare, un’abitudine, un comportamento! Alla speranza riconquistata – quando questa riesca ad affermarsi chiaramente! – subentra affiancandola il timore. E’ difficile il passaggio all’idea che in fondo a tutti i sacrifici e le rinunce di un figlio, dopo un lungo cammino di ‘rieducazione’ e di crescita, compiuti tutti i processi riparativi e ricostruttivi, fondamentalmente noi ci ritroviamo di fronte un uomo libero. Ai genitori che chiedono: “Ma dopo la comunità mio figlio sarà guarito?” io rispondo: “Sarà un uomo libero”.

Non è facile per nessuno – anche se guidato per anni verso la meta desiderata – ‘credere’ alla libertà riconquistata. Molti regrediscono allo stadio precedente, assumendo atteggiamenti inquisitori, negando ogni permesso di uscita, immaginando che ‘fuori’ c’è solo la ‘ricaduta’. Vedranno pericoli dappertutto, ignorando le ‘abilità’ apprese dal figlio e i meccanismi da lui appresi per ‘evitare’ ed ‘affrontare’: di volta in volta egli dovrà scegliere se affrontare la realtà o evitare contatti che potrebbero risvegliare antiche emozioni e costituire occasione di ‘contagio’.

I padri e le madri in forme diverse e con intensità diversa finiscono per vivere il dramma della libertà del figlio. Essi finiscono per temerla e quasi non desiderarla. Essi debbono crescere assieme al figlio, lungo tutte le fasi del cammino di recupero. Debbono morire assieme al tossico che è in lui, quando si darà morte rituale. Debbono rinascere assieme a lui, quando avverrà la nascita rituale dell’uomo nuovo. Debbono perdonare e perdonarsi, seguendo l’analogo ‘movimento’ spirituale che avverrà in lui. Debbono reprimere il pianto, quando si tratta di favorire la sua decisione, con la partenza, per non richiamarlo indietro. Dovranno pure abbandonarsi al pianto liberatorio della gioia per il figlio riconquistato.

Il carico di fatiche e di sofferenze per la ‘caduta’ del figlio non si alleggerisce con la sua partenza. Una fase nuova si apre, che è fatta di positive prove morali. Paradossalmente, non tutti riescono ad accogliere il figlio che si appresta a tornare a casa. Non tutti procedono assieme a noi. Quante volte ho sentito dire da Fondatori di Comunità e dagli Educatori di riferimento: “Non piangere! Tuo figlio sta bene!” Quanto di quel pianto è disperazione per i mancati giorni e quanto gioia per un figlio finalmente ritrovato?

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