CAMMINARSI DENTRO (136): L’importanza di essere umani. Per un’etica del riconoscimento.

 

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Mi sono sempre chiesto cosa stessi facendo, cosa fosse la cosa che facevo, e l’idea mi si è chiarita sempre più nel tempo, fino a diventare chiarissima, grazie al testo definitivo di Massimo Cacciari (Liberi di donare) sulla libertà: un discorso che risale al 2000, pronunciato alla presentazione della Carta dei valori del volontariato, a Roma.

 

Inizialmente, dicevo assieme agli altri ‘volontario’, ‘volontariato’. Mi sembrava sufficientemente chiaro cosa le due parole volessero dire, anche in considerazione del fatto che l’esperienza nasceva in un contesto cattolico: essa era sostenuta dall’autorità religiosa locale e molti riti si consumavano all’ombra di quella autorità. Eppure, subito presi a chiedere e a chiedermi cosa stesse accadendo, cosa fosse l’intervento a sostegno delle persone, per quali vie si raggiungesse l’obiettivo di persuadere al cambiamento persone irrigidite in schemi sempre uguali e chiuse nella prigione della dipendenza. Mi fu risposto addirittura che non dovevo interrogarmi, che noi eravamo solo strumenti nelle mani di qualcuno. Di Qualcuno. Rifiutai subito quella spiegazione che non spiegava nulla, ma non per spirito irreligioso. Come insegnante intuivo già quello che poi mi chiarì don Antonio Mazzi – che non si è mai servito della Religione come strumento principe nelle sue comunità -: si trattava e si tratta sempre per me di azione educativa. Accanto alle altre competenze la nostra si affermava come azione educativa. Oggi posso dire tranquillamente di essere un Educatore di Exodus.

Sono passato nel tempo dall’idea di un’azione psicologico-morale all’idea del lavoro sociale, dall’idea della consulenza filosofica (delle pratiche filosofiche e della pratica letteraria) all’idea dell’educazione, che da sola basta a riempire una vita.

Già all’età di dodici anni, infatti, a un insegnante che ci chiedeva cosa volessimo fare da adulti io risposi con sicurezza: l’insegnante. Successivamente, scelsi il Liceo classico e poi la Facoltà di Filosofia. Per trentacinque anni ho insegnato Italiano e Latino, considerandomi sempre un Italianista, e contemporaneamente (dal 1989) ho partecipato come ‘Volontario’ all’esperienza di aiuto in un Centro di ascolto. Ho voluto che nascesse una seconda  Associazione – un Centro di ascolto e di orientamento per ragazzi tossicodipendenti e per le loro famiglie -, diversa da quella in cui avevo iniziato, e volli che si chiamasse Libera Mente, perché ero influenzato dalle idee dell’antipsichiatria prima e da quelle della Psichiatria umanistica – di indirizzo fenomenologico – poi. Per tre anni – all’Università – avevo lavorato su L’essere e il nulla di Sartre. Intorno a quell’opera ho costruito la mia tesi di laurea, che verteva sui rapporti tra Filosofia e Psichiatria, segnatamente sui rapporti tra Sartre e Laing, sull’influenza esercitata dall’esistenzialismo sartriano sull’antipsichiatria di Laing e Cooper. Se considero gli anni del Liceo – scoprimmo il volumetto La psicoanalisi di Bonaventura nella Biblioteca del Liceo in quarta ginnasio, nel 1964 -, è da 46 anni che studio le discipline psicologiche, per comprendere cosa sia anormalità. Sul frontespizio del primo Progetto educativo stilato feci comparire le parole del sociologo tedesco Kracauer: “La realtà si comprende a partire dai suoi estremi”. Dunque, per me si comprende cosa sia normale a partire da tutto ciò che non lo è. Il Male e il negativo sono presenti e operanti nella realtà storica e nella vita delle persone. Da essi è impossibile prescindere, in ogni momento della vita delle persone e delle istituzioni.

Oggi possiamo dire tranquillamente che la tossicomania è una malattia. Certamente, si tratta di una sindrome bio-psico-sociale e, in quanto tale, richiede un approccio multimodale  – tutte le figure professionali indispensabili vanno ‘attivate’ – e a rete, cioè occorre costruire intorno al ragazzo e alla sua famiglia la rete di aiuto: le reti tematiche, le reti solidali, le reti sociali sono il fronte su cui tutti ormai siamo attestati. Posto che Medici, Psichiatri, Psicoterapeuti, Assistenti sociali, Educatori di comunità intervengono con un’azione combinata che è tanto più efficace quanto più i linguaggi e i comportamenti convergono verso un unico fine, è proprio dentro questa cultura  – e questa soltanto – che io trovo posto, come Educatore non remunerato da nessuno, ma riconosciuto ufficialmente dalla Fondazione Exodus, almeno dal 1992. L’interesse per le Neuroscienze, allora, come l’interesse per le Scienze sociali, precede e accompagna l’azione educativa, a scuola e nel Centro di ascolto. Gli studi letterari e filosofici mi hanno guidato fin qui, a questa consapevolezza e a questo compimento: la conoscenza delle persone è possibile se ci disponiamo all’ascolto e se attiviamo la nostra capacità di essere empatici con gli altri, ma quella conoscenza diretta delle persone – e con essa la possibilità dell’aiuto, per me – dipende a sua volta da più generali conoscenze scientifiche e filosofiche senza le quali l’esperienza sarebbe ‘cieca’, cioè non riuscirei a vedere e a dare un nome a tutte le forme del disagio umano con le quali mi scontro quotidianamente.

Spesso e volentieri Psicologi e Psichiatri mi hanno insultato, attribuendomi comportamenti e intenzioni che non mi appartengono, come se avessi voluto presentarmi agli utenti in veste di Psicologo! E’ sufficiente dire che non so nemmeno cosa sia psicoterapia: non ho mai cercato testi riservati espressamente agli psicoterapeuti e che parlassero di tecniche specifiche di quell’intervento, per non farmi influenzare da esse nel mio lavoro. A me piace dire che il nostro sguardo si ferma alla superficie: noi ci occupiamo della superficie delle cose. Seguiamo comportamenti e atti, gesti e azioni. Non ‘scaviamo’ nella storia personale. Il nostro sguardo non è ‘clinico’. Operiamo esclusivamente per incidere sulla struttura delle motivazioni personali. Per indurre le persone al cambiamento. L’orientamento verso altri Servizi è il secondo compito che ci siamo dati, assieme all’ascolto. Gli alcolisti vengono indirizzati verso i Centri per alcolisti. I pazienti psichiatrici vengono affidati al locale Dipartimento di Salute Mentale. Le persone e i genitori affetti da evidenti disturbi sono indirizzati verso gli Psicoterapeuti. I tossicomani – che non sono mai accettati dal DSM come utenti del Servizio -, se si presentano in cerca di aiuto o se vengono spinti dalla famiglia, sono ‘rispediti’ al SER.T., che da solo li prende in carico. La collaborazione quasi ventennale ormai con il locale SER.T. e la cura costante dei rapporti con i SER.T. di provenienza delle persone che si rivolgono a Libera Mente è ciò che rende possibile il lavoro del Centro di ascolto: nessun utente è accolto prescindendo dalla segnalazione al SER.T.; tutti provengono da quel Servizio, quando i suoi Operatori decidano di affidarli a noi, per le terapie territoriali – assunzione di farmaci antagonisti e affiancamento sociale – o per ulteriori invii, prevalentemente verso le Comunità terapeutiche (educative). Un lavoro grande, di anni talvolta, è quello che si richiede quando i ragazzi entrano ed escono dalle Comunità, interrompono i programmi e restano legati a noi, o quando completano il programma di reinserimento sociale e lavorativo e prendono a frequentare il Centro, per proseguire un cammino che si sostanzia di ulteriori scelte educative. Il rifiuto da parte di don Antonio Mazzi di chiamare addirittura Comunità le sedi residenziali – oggi le chiamiamo Case – nasce dal bisogno di dire tutto il peso che deve esercitare l’azione educativa, perché la cura dell’anima è compito degli Educatori. La cura di cui parliamo è crescita, liberazione personale, assunzione di responsabilità.

Le ragioni che mi hanno portato qui sono ben espresse dal testo che segue di Massimo Cacciari.

 





MASSIMO CACCIARI, Liberi di donare

[La parola “volontariato” non rende adeguatamente il significato del dono, che si fonda sulla libertà intesa come responsabilità.]

Premessa

Tenterò di riflettere sui fondamenti del volontariato, ossia la sua ragione di fondo. Intanto, in senso provocatorio, mi chiedo se il termine volontariato renda l’idea. Forse non fa giustizia delle ragioni del volontariato. Vorrei ricordare quei versi di Dante nel canto di Paolo e Francesca, quando dice “…Quali colombe dal disio chiamate con l’ali alzate e ferme al dolce nido vengono per l’aere dal voler portate”. Qui le anime di due dannati che hanno sottomesso la ragione al loro arbitrio vengono ritratte volando per l’aere dal voler portate. Cioè la volontà può essere ritenuta causa sui: la nostra volontà, se ci pensiamo, è sempre già accaduta. La nostra volontà segue necessariamente il nostro essere. Se ci limitassimo alla nostra volontà dovremmo dire che il nostro operare segue al nostro essere.

Volontà e libertà

Ritengo che non vi sia nessun sviluppo lineare tra volontà e ciò che il volontariato intende. Cioè il volontariato parla di volontà, ma intende un’altra cosa, che non ha nessun rapporto semplice, lineare, univoco, con la volontà. Intende cioè la libertà. Ma libera non è mai la volontà in quanto tale. Ciò che noi possiamo dire è che desideriamo ardentemente di essere liberi, però non c’è nessuna dimostrazione possibile che siamo effettivamente liberi. Per affrontare il problema dobbiamo procedere fino a disperare della nostra volontà: lì vi è il contraccolpo che dà vita al volontariato. Cattivo nome, io ritengo. Perché doveva inventare un nome che non ha la sua radice nella volontà, ma nella libertà. Se noi comprendiamo come sia impossibile dare una dimostrazione razionale della libertà e tanto più della volontà, ebbene se noi giungiamo fino a questo fondo, fino all’angustia dicevano i padri medievali, fino a sentirci soffocare dall’impossibilità di definire ciò che ardentemente desideriamo, cioè l’essere libero, da lì scatta il fatto di essere costretti a prenderci cura di questa nostra angustia. La volontà si vuole libera, decide di essere libera dal fondo della sua humilitas, perché noi reagiamo a questo soffocamento quando comprendiamo quanto ardentemente desideriamo ciò che ci è impossibile definire. Quando comprendiamo che non siamo in grado di dirci liberi, di dirci causa sui. La libertà è la volontà che si vuole libera, che decide per la propria libertà, o meglio ancora che crede nella propria libertà. Il volontario è colui che crede nella propria libertà, perché sente fino in fondo insopportabile il soffocamento, l’angustia per la necessità, propria e di chiunque altro. E crede di potersi far libero. Crede, ma non è possibile dimostrarlo. Questo è un fatto fondamentale, perché su questa base il volontario è sempre caratterizzato da una profonda humilitas e da una profonda insecuritas. È davvero nel suo atteggiamento l’opposto di alcunché di confessionale e di fondamentalista, proprio perché è colui che cerca disperatamente di farsi libero e di fare libero. E questo essere insecurus, humilis lo caratterizza laicamente rispetto a tanto fondamentalismo laicista che circola. Quindi il volontario è il vero laico, perché il vero laico dal punto di vista filosofico razionale è colui che sa, ma mentre il pensiero puramente laico come quello di Spinoza si conclude necessariamente in una posizione scettica, il volontario decide, e questo non ha a che fare con un fondamento razionale, decide o scommette di credere di poter essere libero e di poter fare libero.

La responsabilità come risposta

Il volontario è quello che risponde allo stato di necessità, colui che risponde all’angustia, propria e a quella degli altri, perché vede il mondo dominato dalla necessità, e questo gli è insostenibile e inaccettabile e perciò crede di poter essere libero. La responsabilità è un grande nome che non può continuare ad essere ridotto ad un’etica del calcolo razionale. La responsabilità viene da un termine impegnativo. Spendo in greco voleva dire “libare agli dei”. E respondere in latino viene dallo stesso termine da cui viene sposare, cioè una promessa che ti impegna integralmente. Il volontario è colui che risponde, cioè colui il cui esserci è determinato dal tentativo, dalla ricerca di dare risposta all’angustia, allo stato di massima necessità, di massima sofferenza. Che è di ognuno di noi nel momento in cui sente che ciò che massimamente desidera, l’essere libero, non gli è afferrabile, non è determinabile. Allora c’è la simpatia, la consofferenza. Il termine chiave da usare è responsabilità, ma secondo il grande impegno del termine. Si risponde alla disperazione. A colui che non pensa più di poter essere salvo, di potersi conservare. E ciò propriamente fa il volontariato, questa è la sua cura. Questo significa essere figli, perché è figlio colui che risponde, che necessariamente è in relazione, perché il figlio è inconcepibile senza una radice, un’appartenenza, senza l’hu-militas. Cioè il fatto di sapere che la sua volontà è determinata, che sono una serie di cause che hanno necessitato il suo volere. E quindi la libertà del figlio si determina tutta nella capacità di rispondere. Ecco l’abisso con la concezione contemporanea di libertà. La libertà come idea di obbligazione non è un concetto solo cristiano o islamico, è un’idea romana. Quando la libertà non è obbligazione i romani la chiamavano licentia. C’è la libertà che è obbligazione e c’è la libertà che è licenza e che non è libertà, perché la libertà è tutta nella capacità di rispondere, ma dove la risposta non è quella del papà buono, ma quella del servo co-sofferente: niente di filantropico.

La radicalità del dono

Ormai certi termini stanno perdendo ogni significato, li usano tutti dappertutto. Libertà, responsabilità, democrazia, sono diventati flatus voci, musica d’atmosfera. Bisogna ridefinire i termini e su questa base definire da che parte stare. Libertà è obbligazione, responsabilità. La libertà obbliga, non libera. Ma allora se la libertà ha questo significato è evidente che se la libertà si caratterizza come responsabilità, al colmo della libertà starà la mia capacità di abbandonarmi completamente nella risposta, proprio di farmi tutto risposta. Allora, se la libertà è responsabilità, sarò completamente libero quando mi sarò svuotato completamente nella risposta. Quando non sarò altro che risposta. Ecco il concetto radicale di dono, che dovrà illuminare ogni atto donativo: la libertà come responsabilità si conclude necessariamente nella mia capacità di farmi dono, di farmi risposta, e il donare è da questo punto di vista l’immagine più propria della libertà. Da questo punto di vista non si distingue tra credente e non credente. Il credente è colui che crede che la sua libertà e la sua capacità di donare gli sia a sua volta donata, e questo non lo può dire il non credente. Ma sul fatto che libertà è concepibile solo come responsabilità e dono non vi può essere differenza tra i due. La differenza si pone a tutt’altro livello, più propriamente teologico. E allora, lungo il cammino che ci conduce a questa idea di libertà come responsabilità e dunque dono, vi è in tutta la sua drammatica evidenza la parabola evangelica, quella di Luca 17,10. Quando dice che alcuni servi fanno tutto quello che il padrone gli aveva comandato e alla fine della loro giornata di lavoro sono chiamati a dire: abbiamo fatto tutto quello che dovevamo, siamo servi inutili. Siamo servi perché semplicemente facendo il nostro lavoro abbiamo obbedito, in più inutili, dal radicalissimo punto di vista del Vangelo. Cioè fintanto che tu obbedisci soltanto in questa chiave e non ami, e cioè non dimostri questa tua sovrumana e indefinibile libertà attraverso il dono e il sacrificio di te che è il dono della tua libertà, non solo sei servo ma sei anche inutile. Eppure sono persone che hanno fatto fino in fondo il loro dovere, assolutamente incontestabili. Questa è la radicalità con cui dobbiamo affrontare queste questioni. Perché qualsiasi nostra pratica viene illuminata dalla sua idea limite. E all’interno di questa possiamo sviluppare anche tutte le nostre politiche, che staranno da una parte precisa, in giusto conflitto con le altre. Perché il conflitto è sano visto che fa maturare delle decisioni e senza le decisioni non c’è figlio, non c’è uomo maturo, non c’è volontariato.

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