CAMMINARSI DENTRO (141): Dov’è mio figlio? Perché non mi parlate di lui?

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E’ forse anch’esso drammatico il resoconto di un momento drammatico come la scoperta da parte di una madre di una condizione drammatica in cui ci si ritrova se il proprio figlio è in carcere e si parla della Comunità, della collaborazione che questa dovrebbe instaurare con la famiglia, come se di questo ‘ora’ si trattasse: quella madre si lamenta del trattamento che la Comunità riserva a lei, come a tutti gli altri genitori, che non sono cercati, interpellati, aiutati a capire, tutte le volte che il figlio si ritrovi ad attraversare momenti difficili. E’ apparso senz’altro doloroso a tutti quelli che hanno capito constatare la sfasatura esistente tra la realtà dei fatti e l’oggetto della recriminazione e del lamento.


Quella madre ieri era protesa verso il momento in cui non ‘scatta’ la collaborazione tra Comunità e famiglia, come se suo figlio fosse in Comunità! In realtà, la Comunità collabora sempre con la famiglia. Tutte le volte che tace – e questo può accadere anche per lunghi periodi – dipende dal fatto che non è il momento di parlare, perché è prematuro o perché al telefono non è facile affrontare questioni che saranno poi prese di mira nel rapporto faccia a faccia, quando genitori e figli si ritroveranno l’uno di fronte all’altro o quando i genitori saranno convocati dagli Educatori per un colloquio chiarificatore, per conoscersi, per approfondire questioni aperte, per verificare la bontà di scelte e intuizioni…

L’ansia di quella madre derivava dall’impazienza: lei anticipava nella mente l’esperienza del soggiorno residenziale del figlio e non riuscendo poi ad immaginare il ‘seguito’, cioè l’instaurarsi di un rapporto stretto tra lei e gli Educatori, reclamava ascolto, lamentava di non essere interpellata a sufficienza, si spingeva fino a recriminare sul fatto che nelle realtà territoriali in cui è assente un Centro di ascolto che segua i genitori la Comunità dovrebbe fare di più per i genitori!

Quando le ho fatto notare che suo figlio ora è in carcere; che il momento di cui stava parlando era un’anticipazione dell’esperienza; che gli Educatori – come gli Insegnanti – si prendono cura delle persone che vengono loro affidate senza con questo correre ad ogni piè sospinto ad interpellare i genitori, con i quali comunque il canale di comunicazione è sempre aperto; che la collaborazione va costruita – non ‘scatta’ mai subito -; che dalla parte degli Educatori c’è senz’altro la percezione della problematicità della figura dei genitori – che debbono riconquistare nel cuore del loro figlio il posto di figure di riferimento – ; che la preoccupazione degli Educatori è quella di arrivare a stabilire un’alleanza educativa con il ragazzo che aiuti in seguito a far sì che nel ragazzo la ricostruzione del paesaggio affettivo comprenda tutte le figure che è indispensabile compaiano…

Quando ho fatto intravvedere a quella madre la realtà ‘rassicurante’ in cui riposerà la sua mente quando suo figlio deciderà di passare dal carcere alla Comunità, è stata ad un passo dal pianto. Si è placata, si è raddolcita, guardandomi a lungo con un’espressione enigmatica, perché forse non poteva – nel momento della confusione delle emozioni – accedere in un momento alla verità che le si schiudeva davanti, a causa delle emozioni dolorose che l’avevano presa davanti a tutti, spingendola a discutere di una realtà non attuale, nella quale, tuttavia, proiettava già suo figlio, per vincere l’angoscia che l’attanaglia da settimane, al pensiero che suo figlio è ancora in carcere, ostinatamente chiuso nell’idea che sia meglio stare lì che altrove.

Ci siamo lasciati dopo aver parlato ancora per mezz’ora, dopo l’incontro consueto con le famiglie, perché forse doveva abituarsi all’idea a cui l’avevo introdotta delicatamente, che siamo al di qua dei problemi da lei sollevati. Il tempo della speranza non è ancora arrivato.


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