CAMMINARSI DENTRO (157): Un’antica servitù


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Una circostanza ricorrente nella pratica educativa è data dal fatto di ‘scontrarsi’ con persone che patiscono infelicità e incomprensioni a causa della loro ignoranza. Mi è accaduto recentemente di trovarmi di fronte a un ragazzo adulto che era letteralmente preda di un ingorgo emotivo: raccontava disordinatamente fatti avvenuti in famiglia, accavallandoli e saltando da un episodio all’altro. Ho provato per tutta la durata del colloquio a farmi spiegare ora questo ora quell’episodio, ma egli non riusciva a trovare le parole per farlo: lamentava, comunque, di non poter sopportare più i soprusi e le angherie a cui la famiglia lo sottoponeva senza una ragione…

Quando parlo di ignoranza mi riferisco a quell’analfabetismo emotivo di cui parla sempre Galimberti, che contraddistinguerebbe un po’ tutti gli adulti oggi, giacché non riescono a parlare con i ragazzi, aiutandoli ad affrontare il mondo. Chiamo, ancora, ignoranza l’incapacità di dare un nome alle proprie cose, ai fatti, alle emozioni, alle situazioni più diverse.

Al ragazzo di cui parlavo ho chiesto, nel momento più drammatico del colloquio: “Ma i tuoi ti vogliono bene?”. Mi ha risposto: “Oggi non è più un problema”. Cose se fosse inutile aspettarsi ancora affetto. Come se egli non ne meritasse. O forse perché le relazioni sono così appesantite dalle incomprensioni che è difficile per lui dire a che punto stiano le cose. Naturalmente, il lavoro di motivazione proseguirà con il coinvolgimento della famiglia, per conoscere aspetti della realtà che sicuramente sfuggono a lui e per far entrare nel lavoro stesso persone che fanno parte del suo paesaggio affettivo, ma in modo sfocato e approssimativo.

Oggi mi preme solo dire le emozioni provate. Di fronte a un linguaggio sempre poco appropriato e a una memoria delle cose appannata, ho sentito tutta la precarietà di un’esistenza che magari non comprende le parole altrui e che si ritrova a scontrarsi con incomprensioni che sarebbero facilmente evitate se soltanto sapesse districarsi dalle situazioni con un atteggiamento più plastico, più mobile. La rigidità dello schema mostrato – a cui egli ricorre sempre – fa pensare che è facile bersaglio dell’impazienza altrui. L’ignoranza ci condanna ad avere quasi sempre torto. E’ facile avere ragione di chi non è in grado di mostrare le proprie ragioni, se al fastidio che genera l’ambivalenza si aggiunge la preoccupazione per l’irresolutezza dei comportamenti.

E’ sempre vero quello che ci ha insegnato Lorenzo Milani più di quarant’anni fa: tra un uomo che conosce duemila parole e uno che ne conosce ventimila, il primo è il servo e il secondo è il padrone.

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