CAMMINARSI DENTRO (204): Ma che razza di libertà è quella di chi non gode di riconoscimenti adeguati?

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Giovedì 7 luglio 2011

Tra le emozioni di un Educatore c’è anche quella di chi non si sente riconosciuto, e per questo è incessantemente impegnato a dare fondamento alla propria azione educativa.

E’ difficile stabilire quanto possa dipendere dalla personale insicurezza e quanto dai mancati riconoscimenti.

D’altra parte, un “capo” è tenuto a dispensare lodi ai “dipendenti”, perché possano sentirsi a loro agio nel ruolo che ricoprono?

Lasciamo stare l’obiezione facile su quei “capi” con io ipertrofico – che occupano tutto il campo e rinunciano a pulire i cessi solo per mancanza di tempo, perché, se ne avessero a sufficienza, lo farebbero, se non altro per dimostrare che si può fare meglio di come è stato fatto -: essi sono privi di vista, quindi inascoltanti. Non sanno nulla dei loro “dipendenti”. Ragionano solo in termini di efficienza. Non sanno cosa sia efficacia dell’azione educativa. Se la loro mente arrivasse a cogliere la distinzione necessaria e a contemplare il compito dell’efficacia dell’azione educativa, parlerebbero con i loro “dipendenti” e forse scoprirebbero che ci sono persone dotate di sensibilità, che riescono ad entrare in contatto con gli “utenti”, a stabilire relazioni significative con persone reali e a innescare processi di apprendi- mento.

In trentacinque anni di insegnamento ho incontrato Presidi – oggi, purtroppo, sono soltanto Dirigenti scolastici: non si occupano più di Educazione e di Didattica – che hanno saputo apprezzare il lavoro degli insegnanti. In tutti i contesti sociali, senza riconosci- mento si vive di vita grama.

In considerazione del fatto che la vita sociale oggi è resa difficile dall’avvelenamento della verità e dai fenomeni quotidiani di diniego e di ostracizzazione che si vivono ad ogni piè sospinto; se anche nelle cerchie ristrette intervengono ulteriori muri generati da impazienza, false credenze, angustia della mente, apatia dei sensi, aridità del cuore, cosa resta da fare se non provvedere a se stessi, cercando di tenere ogni giorno pulito il proprio orto, lucidando gli ottoni di casa, continuando a scrivere di sé, nella vana speranza che non siano solo i cani di casa ad esprimere affetto, dal momento che il giardino è già stato ripulito delle loro cacche quotidiane?

Il mio destino è nelle mie mani? Se mi sdraio sotto il cielo stellato a contemplare la mia inutile umanità, sono ‘padrone di me’? Voglio dire: è possibile consistere al di fuori dello sguardo altrui? senza riscontri di nessun genere su ciò che si sta facendo?

La psicologia ci ha insegnato tutto, a proposito di “profezie che si autoavverano”, di rinforzo degli apprendimenti, e così via. E’ stucchevole scoprire poi che non sono gli analfabeti i veri inascoltanti.

Ci vuole fegato per arrivare a riconoscere i meriti altrui! Il vero metro della miseria umana è questo. Ne uccide più l’invidia che la lupara, anche se bianca!

Dopo sessantadue anni spesi a correggere sempre l’errore precedente, per dare senso alla mia esistenza e per guadagnarmi il diritto di esistere, scoprire ogni giorno che la strada è ancora quasi tutta da fare, perché interviene ogni tanto un piccolo coccio su cui è stato scritto il proprio nome, non aiuta a sentirsi liberi.

Sarà questa la ragione per la quale da ventidue anni avverto nel dramma della tossicomania – il più chiaro emblema del nostro tempo – un campo in cui sempre riscopro l’umanità dolente che si agita al fondo in ognuno di noi. Tra ‘necessità biologiche’ e travagli del cuore, sono tante le scienze che hanno scritto parole definitive sui ragazzi che vengono pestati sistemati- camente nelle Caserme e uccisi nelle Prigioni di stato, rei di non aver saputo fare uso corretto della loro libertà. Tra loro e gli scienziati, tra loro e chi quotidianamente li uccide sceglierò sempre i ragazzi.

Se un adulto ‘normale’ – riconosciuto come normale dai padroni della vita -, perfino se Educatore, patisce i mancati riconoscimenti, figuratevi come sarà facile la vita di un ragazzo che cresce, quando si ritrovi a dover fare tutto da solo! E poi parliamo di comunicazione sospesa!

Aggiungete la fascinazione esercitata da una madre fallica e l’incapacità di vivere la necessaria solitudine che accompagna ogni processo di separazione e il quadro è (quasi) completo!

Sembra che i progressi compiuti dall’umanità nella direzione di una sempre più chiara comprensione di tutte le forme di dipendenza non abbia prodotto una presa di coscienza del potere politico e degli Educatori della stessa portata: siamo in presenza di malattie gravi che non è possibile ‘curare’ con carcere e ‘respingimenti’ vari.

Il primo riconoscimento di cui un ragazzo affetto da disagio devianza dipendenza avrebbe bisogno e diritto è che sia considerato malattia ciò che non è in nessuno dei suoi momenti capriccio o vizio (soltanto). Quante volte abbiamo sentito raccontare di Ospedali che si sono rifiutati di ricoverare un ragazzo con bronchite o altra affezione del corpo, perché individuato come tossico! Quante volte un tentativo anche timido di fuoriuscita dalla dipendenza è stato ‘negato’, perché niente di ciò che un tossico dice è vero! Vivere senza possibilità di scampo né di scambio non deve essere facile! Quante volte abbiamo visto piovere sul bagnato!

Se il tossicomane è, per definizione, persona che vive al di qua della responsabilità, e se non è lecito indurre con metodi coercitivi alla ‘cura’, esiste una via diversa da quella che pratica chi cerca di comunicare con la ‘parte sana’ della persona, riconoscendo a tutta la persona il diritto di vivere nella fase che precede ogni possibile scelta, almeno fino a quando non le sia possibile prendere una decisione, perché intravveda in chi le è accanto una speranza a cui aggrapparsi?

Le persone impegnate nelle professioni di aiuto sanno bene quanto conti la reciprocità nell’azione per il benessere. Sulla strada dell’empatia il guadagno degli Educatori non è meno grande di quello a cui aspirano le persone che si affidano a loro. E’ sicuramente questa la ragione per cui anche gli insegnanti non hanno mai sofferto per le mancate riforme: la scuola è quello che si fa nella relazione educativa.

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