Contributi a una cultura dell’Ascolto – Leggere ANNA MARIA BENEDETTO e ANDREA GRAGNANI, I Fondamenti teorico-clinici della Vergogna (1997)

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ANNA MARIA BENEDETTO e ANDREA GRAGNANI 
I Fondamenti teorico-clinici della Vergogna 
“Psicoterapia”, 1997 Apr-Giu, 9: 47-66
Associazione di Psicologia Cognitiva, Roma

Riassunto

Tra le emozioni egopoietiche abbiamo scelto di presentare una rassegna dello stato dell’arte degli studi sulla vergogna sostanzialmente per due motivi: da una parte perché pur essendo una emozione che sperimentiamo e riconosciamo quotidianamente paradossalmente viene spesso confusa con altre o trascurata nel setting terapeutico; dall’altra, è quella che riscontriamo più frequentemente in svariati quadri psicopatologici. È stato dato molto risalto alla diagnosi differenziale con le altre emozioni quali il senso di colpa e l’imbarazzo proprio per rendere più chiare e più fruibili tali informazioni per il nostro lavoro di psicoterapeuti. Tale approccio ci permette una maggiore dimestichezza nell’ambito della vergogna e ci consente di ampliare il nostro campo di osservazione e di intervento in un lavoro di ristrutturazione cognitiva.

Abstract

As far as egopoietic or moral emotions are concerned, we have decided to present a review concerning the state of the art of the studies on shame basically for two reasons: on one hand, because even if it is an emotion that we experience and recognize each day, paradoxically, it is often confused with others or disregarded in the therapeutic setting; on the other hand, it is the same emotion that we find in several psychopathological syndromes. It has been remarkably emphasized the differential diagnosis with other emotions, such as feeling of guilt and embarrassment, exactly in order to make clearer and more usable such information for our job of psychotherapists. This approach enables us to have a greater familiarity with shame and also to widen our observation and intervention field in a work of cognitive restructuring.

Introduzione

La vergogna, pur essendo una delle emozioni più importanti in svariati quadri psicopatologici, viene spesso trascurata e confusa nel setting terapeutico. Il nostro lavoro, per ovviare a questo stato di cose, ha il fine di fornire al terapeuta qualche elemento di raccordo tra le molteplici posizioni teoriche attraverso la disamina delle prime teorie psicodinamiche fino ad arrivare alle più recenti proposte in ambito cognitivista. Un altro scopo è quello di offrire informazioni fruibili per effettuare una più precisa diagnosi differenziale con le altre emozioni, e di dare una buona base di partenza per lo sviluppo di modelli più articolati ed esaustivi sull’origine, sul funzionamento e sul ruolo della vergogna.

Le emozioni permeano la vita di tutti ed è considerato normale parlarne, non è un caso che le varie tradizioni popolari siano ricche di proverbi, detti, racconti che saggiamente ci guidano, ci consigliano e ci tranquillizzano dandoci a volte l’illusione che tutto sia già conosciuto. Sono argomenti a noi familiari che vengono facilmente affrontati in un qualsiasi momento della giornata rendendo ciascuno di noi un esperto di emozioni. Questa abbondanza di conoscenze, utilissima nella nostra vita quotidiana, complica l’approccio alle emozioni in termini scientifici.

Una prima difficoltà che si incontra nello studio delle emozioni è la modalità intercambiabile attraverso cui, termini, quali “emozione”, “affettività” e “sentimento” vengono utilizzati in letteratura, M. Lewis (1992) propone una distinzione utile per definirli in maniera più appropriata. Alla “affettività” sono sottesi tutti gli stati psichici di natura non cognitiva, i più semplici a livello filogenetico come ad esempio la fame, la sete, la fatica e il dolore fisico. Il termine “emozione”, invece, si riferisce a due categorie: la prima è quella delle emozioni primarie che sono quelle più quotidiane come la gioia, la tristezza, la paura, il disgusto, l’interesse e la rabbia; l’altra categoria comprende le emozioni secondarie che per essere esperite presuppongono una riflessione su di sé e sono, quindi, emozioni complesse come l’empatia, la simpatia, l’invidia, il senso di colpa, la vergogna, l’orgoglio e il rimpianto. Infine, per quanto riguarda il “sentimento” la definizione che, a nostro avviso, rende più fruibile questo termine è che esso sia la consapevolezza dello stato interno. Un esempio potrà chiarire meglio quanto detto: Francesco svolgendo il suo lavoro di cassiere in una filiale di banca rimane vittima di una rapina a mano armata. Pur assecondando le richieste del rapinatore raggiunge il pulsante del sistema di sicurezza. All’arrivo della polizia, Francesco si alza e si accorge di avere paura. A una indagine più accurata si scoprirà che Francesco si è reso conto di avere paura nel momento in cui, al termine della rapina, alzandosi dalla sedia ha sentito che le gambe gli cedevano e stava ripensando a ciò che era successo negli ultimi minuti. La situazione vissuta da Francesco era sicuramente di emergenza e possiamo ragionevolmente supporre che il suo stato interno fosse di paura fin dall’inizio della rapina, ma la necessità della salvaguardia personale e la difesa del proprio ruolo (era l’unico impiegato che poteva raggiungere l’allarme) ha reso prioritaria l’elaborazione di informazioni esterne tese alla soluzione del problema in atto. Il soggetto era verosimilmente in uno stato di paura pur non essendone consapevole. Il “vero” sentimento è stato infatti esperito nell’attimo in cui la situazione di cessato pericolo ha consentito a Francesco di rifocalizzarsi sul proprio stato interno.

La seconda problematica è rappresentata dall’elevata eterogeneità delle teorie proposte, nel metodo di indagine e nel tipo di variabili studiate, per cui riteniamo necessario illustrare brevemente le caratteristiche comuni e i temi di dissenso. La maggior parte degli autori è d’accordo nel considerare le emozioni come degli schemi abbastanza complessi più o meno stereotipati di comportamento che si caratterizzano per un tipo particolare di vissuto soggettivo e per un determinato livello di attivazione del sistema vegetativo. Come sostenuto fin da Darwin l’emozioni svolgono un importante funzione adattativa, sono associate ad un insieme di reazioni fisiologiche e comportamentali, e permettono di affrontare efficacemente le situazioni emozionali (D’urso e Trentin, 1988). Tra i vari approcci teorici troviamo un elevato disaccordo sui rapporti che intercorrono tra il sistema emozionale ed il sistema cognitivo. Un primo gruppo di teorie è quello che considera le emozioni come entità discrete sostenendo l’esistenza di un numero definito di emozioni, attivate da programmi neurali innati evidenziabili sia nell’espressività facciale che in specifici pattern di attivazione autonomica, e sono, inoltre, largamente indipendenti da altri processi psicologici. Secondo tale approccio l’elaborazione dell’esperienza emotiva è qualitativamente diversa e indipendente dall’elaborazione cognitiva (Darwin, 1892; Thomkins, 1962; Izard, 1977; Ekman, 1984). Il secondo gruppo di teorie è rappresentato da quelle dimensionali di cui fanno parte la maggioranza delle teorie cognitive. Per i sostenitori di queste ultime l’informazione contenuta nell’attivazione vegetativa è troppo grezza, aspecifica e grossolana per poter generare l’ampia gamma dell’esperienza emotiva, per cui l’attivazione vegetativa sarebbe esclusivamente la componente aspecifica dell’emozione. A determinare una particolare esperienza soggettiva dell’emozione sarebbe un processo valutativo di tipo cognitivo concomitante all’attivazione fisiologica aspecifica. In altre parole ciascuna emozione risulterebbe dalla sintesi della componente aspecifica con le valutazioni cognitive. In questa prospettiva non ci può essere indipendenza tra condotte emotive e condotte cognitive, perché una valutazione cognitiva è la pre-condizione necessaria di ogni forma di esperienza emozionale (Lazarus, 1982; Frijda, 1993; Scherer, 1993; Lewis, 1996). Le teorie sistemiche (Mandler, 1984; Kelly, 1955) descrivono l’emozione in termini di processi appartenendo un sistema organizzato di schemi impegnato nella generazione di significato. Oatley e Johnson-Laird (1987), in una prospettiva evoluzionistica e computazionale, utilizzando un modello modulare del sistema cognitivo, costituito da processi autonomi ciascuno associato ad uno scopo, propongono che le emozioni siano il processo di transizione da uno stato all’altro sistema o da un piano organizzato all’altro del sistema stesso.

In questo lavoro si tratterà l’emozione come un sistema gerarchico e multicomponenziale talmente vasto e complesso che Reisenzein (1983) la definisce una “sindrome reattiva multidimensionale”. In questo sistema l’aspetto di mediazione cognitiva assume maggiore importanza con lo sviluppo ontogenetico dell’individuo. Il primo gruppo delle componenti del sistema emozionale è costituito da variazioni, dello stato generale di eccitazione (arousal), dello stato di attivazione e dello stato di inibizione (Frijda, 1988), che producono un insieme di risposte fisiologiche (alterazione frequenza cardiaca e respiratoria, della pressione sanguigna, del Riflesso Psico-Galvanico, eccetera) e tonico-posturali. Il secondo gruppo riguarda le risposte motorie strumentali (mordere, colpire, scappare, prontezza all’azione, eccetera) e le risposte motorie espressive (mimica facciale, gesti e vocalizzazioni) determinate dall’attivazione dei sistemi motivazionali e di disposizione all’azione. Le componenti di questo secondo gruppo possono essere in qualche misura consapevoli anche se apprese in modo automatico attraverso processi non consapevoli. Quanto descritto costituirebbe l’esperienza emozionale (Battacchi, 1988). L’ultimo gruppo riguarda sia la valutazione del processo cognitivo di cui il soggetto può non essere consapevole, che l’elaborazione cognitiva dell’esperienza emozionale riferita alla consapevolezza conscia (Frijda, 1988 e 1993). A differenza dei precedenti gruppi questi ultimi aspetti derivano entrambi da un apprendimento consapevole (vedi l’esempio di Francesco).

Tra i primi autori che enfatizzano l’importanza dei processi cognitivi nella determinazione delle emozioni, figurano Schachter e Singer (1962) che, supportati dai risultati della loro ricerca divenuta un classico della letteratura psicologica, affermarono che le variabili cognitive possono indirizzare l’energia degli individui determinando il tipo di emozione. La quantità dell’emozione sarebbe determinata dal livello di arousal, mentre la valutazione cognitiva ne determinerebbe la qualità. Da questa posizione è nato il concetto di “appraisal” che è “la valutazione che il soggetto fa della situazione emozionale”. Altri autori hanno sviluppato tale concetto definendolo come un processo ciclico influenzato da variabili psicologiche, culturali e sociali. Secondo Lazarus mettiamo in atto due tipi di comportamento per far fronte alla situazione emozionale: il comportamento di evitamento teso a sfuggire alla situazione emozionale valutata come inaffrontabile; ed il processo di “coping” che implica successive valutazioni sul come far fronte alla situazione stessa. La qualità e la quantità delle emozioni deriverebbero, quindi, dalla valutazione cognitiva compiuta dal soggetto e dalle sue capacità di controllo. Smith e Lazarus (1990) distinguono due tipi di appraisal. Il “primary appraisal”, che corrisponderebbe alle valutazioni di positività o negatività di un evento, e il “secondary appraisal”, che definirebbe direttamente le risorse scelte dall’individuo per far fronte alla situazione. Tale posizione viene elaborata da Frijda (1993) che afferma che le emozioni coinvolgono sempre un processo di appraisal e un processo di appraisal cognitivo. Tali processi intervengono tra la comparsa dello stimolo e la risposta emotiva e sono collegati sia all’appraisal degli eventi come significanti emotivi (prymary appraisal), sia al genere di emozione che ne risulta (secondary appraisal). Concludendo, per Frijda, l’emozioni dipendono dalle valutazioni, e le valutazioni implicano la rappresentazione di quello “che c’è” o “che è desiderato”. Castelfranchi (1988) riprende questo concetto e descrive il valutare come una delle attività cognitive di maggior rilievo e pervasività, la valutazione è uno dei mezzi più importanti e necessari, ad ogni individuo dotato di scopi, per agire sulla realtà in modo adeguato. Il perseguimento di quasi ogni scopo implica una attività valutativa e non si può valutare se non rispetto a uno scopo. Nell’ambito di tale approccio l’emozione viene presentata come la percezione da parte di un individuo delle varie reazioni che avvengono al proprio interno, è quindi una “autopercezione complessa”. La prima reazione è il cambiamento di questo organismo «nel suo assetto cognitivo e scopistico, cioè nello stato corrente delle sue conoscenze, valutazioni e scopi» (Castelfranchi, 1990). Si ha dunque un nuovo stato mentale, avremo, ad esempio, gioia o piacere se uno scopo è stato raggiunto, speranza se è vicino ad esserlo, rabbia e tristezza se è stato frustrato, timore se è stato minacciato e stupore se una previsione è stata smentita. Tale stato mentale può essere causato anche solamente da eventi interni all’organismo (“ricordi di…”). La fase successiva al cambiamento è quando l’organismo percepisce che è avvenuto questo cambiamento nel proprio assetto cognitivo-scopistico. Successivamente a tale assunzione si generano reazioni somatiche, cognitive, ideative e conative. In alcuni casi l’organismo esprime l’emozione attraverso comportamenti volontari o involontari.

Questa impostazione risulta fruibile e ci aiuta a risolvere alcune delle difficoltà che si riscontrano nell’analisi e nella descrizione delle emozioni, e nello specifico della vergogna. Riguardo quest’ultima la prima difficoltà nasce addirittura dai significati non univoci che sono stati attribuiti al termine “vergogna”. In italiano tale termine deriva dal latino “verecundia” che veniva utilizzato per indicare disposizioni d’animo quali: timidezza, vergogna, modestia, discrezione, rossore, reverenza, disonore, e stima. Da questa varietà di significati emerge il valore sociale positivo attribuito nella nostra cultura a questa emozione. Dante, infatti, scrive: «nobilitade essere là dove è vergogna, cioè tema di disonoranza, sì come è ne le donne e ne li giovani, dove la vergogna è buona e laudabile» e «gente che non ha, non sente vergogna, spudorata» (Dizionario Enciclopedico Italiano, 1961). Nella lingua inglese il termine “shame” (vergogna) ha un’origine etimologica completamente diversa e deriva dalla radice indoeuropea “skam” o “skem” dalla quale provengono due parole “skin” e “hide” che significano entrambe “pelle di animale” e “nascondere” (Kilborne, 1995). L’etimologia latina lascia maggiormente pensare ad una disposizione d’animo interna nella quale è enfatizzato il rispetto verso il mondo; viceversa nella derivazione inglese è sicuramente molto più evidente il concetto di una difesa dall’esterno tramite una “copertura”. Questi due significati anche se diversi non sono in contraddizione, ma evidenziano ciascuno aspetti caratteristici della vergogna che verranno ampiamente illustrati nel nostro lavoro.

Dopo aver ricordato le origini di questo termine si comprendono meglio le difficoltà che incontriamo quotidianamente “parlando” di vergogna: la confondiamo spesso con altre emozioni, oppure la abbiniamo arbitrariamente con altri stati emotivi, o infine possiamo incorrere nell’errore di considerare un solo “sintomo” come equivalente della vergogna stessa. Ad esempio, quando un bambino si nasconde dietro la madre vedendo degli estranei è d’uso comune considerarlo un comportamento dettato dalla vergogna, ma spesso in questi casi è in gioco l’imbarazzo. Questo sentimento, come sarà precisato in seguito, non comporta necessariamente una valutazione globale di sé, ma riguarda solo il contesto specifico, mentre la vergogna, per essere esperita, necessita di una valutazione sui propri modelli di condotta rapportati a un giudizio globale di sé stessi. La vergogna, infatti, come affermano Tangney et al (1996a), è una emozione che coinvolge l’intero individuo. In merito alla combinazione arbitraria con altre emozioni sappiamo che questo sentimento è spesso associato al senso di colpa, ma tale combinazione è solamente una delle evenienze possibili non una regola. Possiamo vergognarci di una nostra chiara incapacità senza sentirci in colpa, così come possiamo essere colpevoli senza per questo vergognarci. Un altro errore che spesso si commette è quello di confondere un segno con una emozione, per esempio “ha distolto lo sguardo, quindi si vergogna”, è sicuramente vero che una delle manifestazioni comportamentali tipiche della vergogna è quella abbassare la testa, ma tale manifestazione non è patognomonica di questa, quindi non basta questo per dedurre che un soggetto si stia vergognando. In questo lavoro illustreremo la genesi complessa, i segni molteplici, le svariate modalità di soluzione e di utilizzazione della vergogna.

Le origini della vergogna

Sebbene la vergogna faccia parte della vita quotidiana degli esseri umani né Freud né altri importanti psicoanalisti hanno mai considerato tale emozione in termini sufficientemente specifici.

Freud nelle prime teorizzazioni vedeva nascere la vergogna e il sentimento di colpa da impulsi inaccettabili di natura sessuale o aggressiva, ma nella più tarda elaborazione lo sviluppo delle emozioni autocoscienti era spostato più avanti, intorno ai tre anni. Freud attraverso la connessione della vergogna con la moralità mostra come questa emozione sia una trasformazione del senso di colpa e che i sentimenti di inferiorità riflettono i conflitti tra Io e Super-io, tanto che i sentimenti di inferiorità e il senso di colpa sono difficili a distinguersi. H.B. Lewis (1987), riguardo questa attenzione sul tema della colpa, nota che Freud «descrive il Super-io maschile nei termini dell’imperativo categorico kantiano della colpa — come un gendarme prussiano interno, per dirla con Marx — mentre il Super-io femminile assumeva la forma inferiore della vergogna».

Erikson e Melanie Klein hanno ricondotto le emozioni autocoscienti, in particolare la vergogna, al controllo degli sfinteri che si colloca alla fine del secondo anno. Va notato che Erikson riteneva la vergogna più precoce del senso di colpa e che, nella sua gerarchia delle sfide evolutive, quella legata al binomio autonomia-vergogna precede quella imperniata sulla contrapposizione iniziativa-colpa.

In chiave cognitiva tutti i sistemi sono capaci di autoregolarsi e questo presuppone una consapevolezza di sé almeno a un qualche livello, questa proprietà è di tutti gli esseri viventi, ma non tutti possiedono quella che noi definiamo la “coscienza di noi stessi”. Lewis (1992) propone tre diversi livelli di autoconsapevolezza che si sviluppano nei primi due anni di vita, ma che una volta comparsi continuano ad esistere e a perfezionarsi ciascuno a suo modo. La struttura finale è il Sé e li comprende tutti. I primi due livelli sono quello dei riflessi e quello delle rappresentazioni che consentono le funzioni di autoregolazione e controllo e costituiscono la “autoconsapevolezza soggettiva”. Il terzo livello è quello della “autoconsapevolezza oggettiva” che ci permette di essere coscienti di noi stessi. Ortony, Lore e Collins (1988) sostengono che vi siano emozioni che richiedono più di altre un’elaborazione cognitiva e postulano un processo di differenziazione che procede da stati emotivi cognitivamente più semplici ad altri più complessi, indipendentemente dal tipo di emozione (primaria, basica o secondaria, morale, autocosciente, egopoietica). Quindi possiamo affermare che l’emergere delle emozioni segue l’andamento dello sviluppo dell’autoconsapevolezza.

Bridges (1932) descrive questo sviluppo partendo dalla polarità originaria benessere-malessere dalla quale si svilupperebbero tutte le altre emozioni: tra i 2 e i 4 mesi compare il disgusto seguito dalla rabbia e, solamente, verso gli 8 mesi si manifesta la paura. In maniera analoga, dal benessere si svilupperanno gioia, felicità, interesse e sorpresa. Con la maturazione biologica e la socializzazione delle emozioni si giunge alla fase di sviluppo successiva, quella della “autoconsapevolezza oggettiva”, che si raggiunge verso la metà del secondo anno. Da essa emerge il primo gruppo di emozioni autocoscienti che Lewis chiama emozioni esposte: “imbarazzo”, “empatia” e “invidia”. Queste emozioni non implicano un apprezzamento e infatti non sono suscitate da un giudizio negativo o positivo sulle proprie azioni, sentimenti o pensieri, ma derivano dalla pura e semplice scoperta del Sé che si trova esposto agli occhi propri e altrui. Una particolare attenzione merita di essere dedicata all’empatia, infatti l’autore le attribuisce dignità di stato emotivo, non la considera solamente una forma di conoscenza, ma anche l’esperire il sentimento dell’altro e deve essere ben distinta dai comportamenti imitativi del bambino e dal “riflesso empatico” (pianto del neonato in presenza di altri bambini che piangono).

I modelli, le norme di condotta e l’autoconsapevolezza oggettiva interagiscono con le emozioni esposte rendendo possibile la trasformazione di queste nelle emozioni autocoscienti valutative che allargano il repertorio esperenziale del bambino. Verso il secondo anno di vita, infatti, i bambini mostrano turbamento quando contravvengono a una norma di condotta che hanno accettato (regole, valori, criteri di giudizio della madre, della famiglia e della cultura). Le norme culturali vengono dettate fin dalla nascita, ma è solo quando compare l’autoconsapevolezza oggettiva che il bambino le possiede veramente; in altri termini l’emergere dell’autoconsapevolezza oggettiva determina la comparsa delle emozioni legate all’immagine riflessa di sé (imbarazzo, empatia, invidia) e permette di incorporare modelli e norme dell’altro (possesso). All’inizio il bambino accetta passivamente i modelli imposti dall’adulto e, solo successivamente, comincerà a farli propri. Tale capacità di spostarsi dai criteri altrui ai propri si instaura in funzione della comparsa di un sé oggettivo, emerge cioè il “me” come oggetto distinto dall’ ”altro”. Questo è il momento in cui compaiono le emozioni autocoscienti valutative (l’orgoglio, la vergogna e la colpa) che comportano un giudizio di valore, una valutazione globale di sé e necessitano, quindi, di una struttura cognitiva più elaborata (Lewis, 1992). Il senso di efficacia e competenza che ottiene un bambino di due mesi trovando il ciuccio non è uguale a quello di un bambino di cinque anni che risolve un problema. Pur mostrando entrambi gioia e soddisfazione solo nel bambino di cinque anni sarà presente l’orgoglio che si riferisce esplicitamente al successo di una azione che risponde a requisiti e criteri che egli ben conosce. Allo stesso modo anche l’insuccesso rispetto a modelli e criteri dell’adulto genera paura, ansia e tristezza, ma è solo con lo sviluppo dell’autoconsapevolezza oggettiva e delle altre strutture cognitive che, a questi sentimenti, si aggiungono la vergogna e il senso di colpa.

Nell’osservare e descrivere lo sviluppo delle emozioni è necessario tenere conto che questo avviene in un organismo in evoluzione, quindi una manifestazione di una emozione primaria di un bambino di pochi mesi non deve essere confusa dall’osservatore con un’emozione autocosciente valutativa.

Come si apprende la vergogna

In questo paragrafo vogliamo evidenziare i principali fattori vissuti nel contesto familiare che sono implicati nella genesi della vergogna. Nella famiglia del “piccolo futuro vergognoso” troveremo una serie di messaggi invalidanti o svilenti rispetto a capacità, caratteristiche fisiche o mentali. Cerchiamo ora di analizzare specificamente quali sono le modalità verbali e comportamentali che più frequentemente ritroviamo nell’infanzia delle persone maggiormente vulnerabili a questa emozione. Relativamente ad un piccolo insuccesso del bambino possiamo supporre almeno tre tipi di reazioni da parte degli adulti: il primo è quello assolutamente colpevolizzante che può essere seguito dal castigo; il secondo è quello in cui gli adulti non colpevolizzano direttamente il bambino e non infliggono un castigo, ma assumono un atteggiamento svilente; l’ultimo tipo di reazione è quello in cui i genitori, contestualizzando l’insuccesso, cercano di aiutare il bambino a trovare nuove e più proficue soluzioni. Facciamo l’esempio di un bambino che frequenta la scuola materna e ha cominciato a imparare a scrivere il suo nome e qualche altra parola. Normalmente a questa età non si rispettano le righe e i margini, e talvolta si dimenticano alcune lettere. Supponiamo che questo bambino debba fare un compito a casa, in questa situazione le reazioni di genitori con alte aspettative nei confronti dei figli possono essere diverse. Possiamo, infatti, distinguere, tra questi, almeno tre tipi di genitori. I primi, spazientiti dalle incertezze del figlio, cominceranno ad accusare il bambino di essere disordinato dicendogli: “ecco guarda che brutto questo quaderno tutto spiegazzato e disordinato come te e la tua stanza, non hai cura delle tue cose. Niente merenda finché non metti in ordine i tuoi giocattoli”. Altri possono mostrare delusione rispetto allo scarso rendimento del figlio elogiando, magari, il cuginetto: “hai visto quanto è bravo Giulio e non impiega tutto questo tempo”. L’ultimo gruppo di genitori, pur mantenendo il concetto di alte aspettative, avrà nei confronti del figlio un atteggiamento di supporto: “dai su cerchiamo di fare più attenzione, le righe servono per andare dritti, vedi fai così”. I bambini dei primi due gruppi di genitori svilupperanno più facilmente sentimenti di vergogna e talvolta anche di colpa a causa della drammatizzazione di incapacità che sono normali nel loro stato di sviluppo e che vengono, invece, elaborate dal bambino in termini autosvalutativi. Gli altri bambini elaboreranno più difficilmente temi lesivi dell’autostima poiché l’atteggiamento dei genitori consente loro di differenziare l’effettiva difficoltà del compito, l’impegno profuso e le reali capacità. Non ci dilungheremo in questa sede a valutare gli eventuali problemi che potrebbero nascere nel bambino a causa delle aspettative troppo elevate da parte delle figure genitoriali.

Per quanto riguarda le affermazioni svalutative dei genitori esse saranno orientate in diversi ambiti in relazione ai temi familiari dominanti (il rendimento scolastico, come nell’esempio precedentemente illustrato, o la forma fisica, l’autonomia personale, ecc. ecc.) e l’eventuale vergogna sarà più frequentemente legata a tali temi.

Quando proviamo questa emozione la responsabilità del fallimento la attribuiamo esclusivamente a noi stessi, infatti gli individui con una marcata tendenza alla attribuzione interna saranno sicuramente più vulnerabili alla vergogna. Normalmente utilizziamo modalità di attribuzione interne o esterne a seconda del nostro ruolo, delle nostre capacità, del nostro potere e del contesto in cui operiamo. Alcuni individui prescindono dall’esame delle loro reali potenzialità e dal contesto, e tendono a utilizzare rigidamente solamente una di queste modalità di attribuzione. Per quanto riguarda l’argomento in oggetto ci occuperemo prevalentemente dell’attribuzione interna, che possiamo ritrovare in almeno tre tipologie di individui: persone che tendono ad attribuire a sé stessi tutti i successi e non i fallimenti; persone che tendono ad attribuire a sé stessi tutti i fallimenti e non i successi; e persone più capaci di oscillare liberamente tra questi due poli. Le personalità narcisiste, nelle quali come vedremo in seguito la vergogna ha una posizione rilevante, attribuiscono sistematicamente qualunque successo ai propri meriti perfino una vincita a tombola, pur non essendo disposti ad accettare la responsabilità di un fallimento. Nei depressi troviamo la posizione contraria, tutto viene elaborato come un fallimento personale e i successi non sono minimamente riconosciuti come proprio merito.

Gli individui descritti finora tendono a dare una attribuzione globale agli eventi esperiti e hanno notevoli difficoltà nelle attribuzioni specifiche. Facciamo l’esempio di un paziente che arriva alla nostra osservazione in ansia perché deve tenere una conferenza, questa persona è completamente focalizzata sulla certezza che un eventuale insuccesso determinerà il crollo della propria immagine. Affronta questa situazione utilizzando una modalità di attribuzione globale, perdendo completamente di vista la possibilità di usufruire di attribuzioni specifiche e, quindi, di focalizzarsi sulla propria effettiva preparazione che potrebbe offrirgli maggiori possibilità di successo.

Sappiamo che i bambini più piccoli sono maggiormente esposti all’attribuzione interna e, in occasione di eventi altamente significativi e drammatici (divorzio, morte prematura di uno dei genitori o più semplicemente nelle malattie croniche), hanno difficoltà a utilizzare un’attribuzione specifica a causa dell’intensità emotiva dell’evento. In un ambiente familiare con un evidente disagio i figli tendono più facilmente a una attribuzione interna globale vedendo sé stessi come causa del problema. Il figlio di genitori separati pensa frequentemente: “non sono stato buono e per questo che papà non mi vuole bene e se ne è andato”.

La tendenza a un giudizio globale di sé può essere appresa dalle relazioni con gli adulti (insegnanti e/o genitori) che, in occasione di un insuccesso del bambino, determinano una modalità di attribuzione sia interna, che globale (“sei proprio stupido”). Vari studi sugli interventi tipici dei genitori nei confronti dei figli hanno mostrato come si utilizzino diversi metodi pedagogico-educativi: spesso consistono nel mostrare disgusto o disprezzo per l’azione giudicata negativamente, il bambino elabora queste espressioni mimiche come un giudizio su di sé sperimentando sentimenti di vergogna. Esistono altri tipi di intervento come “l’imposizione”, il “ragionamento” e il “rifiuto dell’amore”. L’imposizione genera oltre ai sensi di colpa e all’ansia, anche vergogna causata della rigidità del messaggio che impedisce al bambino di riflettere sul contenuto del messaggio stesso favorendo un processo di attribuzione interna globale. Il ragionamento consente al bambino di utilizzare un processo di attribuzione interna specifica inducendolo a riflettere sul contenuto specifico determinando, quindi, più facilmente dei sensi di colpa piuttosto che la vergogna (Lewis, 1992). Riguardo il rifiuto dell’amore — revoca dell’amore materno o paterno — molti autori (ad es. Hoffman, 1970) lo trattano erroneamente come radice della genesi dei sensi di colpa. In una persona che ha subito minaccia di abbandono e che non si sente amabile, l’attribuzione interna, dato che riguarda una valutazione generale della persona, non può che essere globale (“sei cattivo, la mamma non ti vuole più bene”). Questo dato viene ampiamente confermato dall’esperienza clinica nella quale frequentemente ritroviamo che, in molti adulti, la presenza di vergogna correla positivamente con minacce costanti di revoca dell’amore occorse durante l’età infantile.

Semeiotica della vergogna

Castelfranchi e Poggi (1988) definiscono la vergogna come «il timore di perdere la faccia o il dispiacere per averla persa» che determina, di conseguenza, il desiderio di nascondersi e “di sparire sotto il pavimento”. Per questi autori, il timore è una sorta di anticipazione di un dispiacere e al tempo stesso un tentativo di prevenirlo, mentre il dispiacere si prova solamente quando uno scopo è già stato frustrato. In questa definizione la vergogna sarebbe il campanello d’allarme delle brutte figure.

Crockett (1979) descrive le emozioni autocoscienti, compresa la vergogna, come predicati a tre argomenti. Nel caso della vergogna il primo il primo predicato è rappresentato da colui che prova vergogna (experiencer), il successivo è qualcosa di cui ci si vergogna (situation) e il terzo è qualcun’altro di fronte a cui si sperimenta questa emozione (animate object).

Rispetto al secondo argomento Castelfranchi e Poggi (1988) sostengono che «si può provare vergogna solo e se quella proprietà, azione o evento provoca o può provocare in me o in altri l’assunzione di una mia mancanza di “potere di rispetto a un qualche scopo». Ci si può, quindi, vergognare di qualsiasi cosa, riguardo le caratteristiche fisiche o morali, le azioni volontarie o involontarie, le lodi, fino al vergognarsi anche della propria vergogna. Possiamo provare vergogna in situazioni apparentemente asettiche, infatti è sufficiente che esse permettano, attraverso una catena inferenziale di pensieri anche molto lunga e complessa, l’assunzione di valutazioni negative su noi stessi. La valutazione è una “assunzione sul potere di raggiungere un certo scopo”. Nella vergogna e nella sua implicita valutazione negativa si evidenzia l’impotenza di raggiungere degli scopi “basici”. Questi ultimi sono delle precondizioni al raggiungimento di altri scopi più complessi, sono quindi dei poteri elementari che si richiedono a tutti e da tutti sono giudicati. Facciamo riferimento a tutte quelle situazioni di ridicolo (es. inciampare per la strada) o di handicap fisico (es. andare in giro sulla sedia a rotelle).

Gli animate objects — qualcun’altro di fronte a cui ci si vergogna — possono essere molteplici, uno “sconosciuto”, ma anche solo alcune persone in relazione a particolari tematiche, quindi non necessariamente ci si vergogna di tutto con tutti. La precondizione per poter esperire questa emozione è la condivisione di valori rispetto al gruppo, al fine di mantenere il sovrascopo della immagine di sé rappresentato dalla possibilità di essere adottato. La funzione della vergogna sarebbe di evitare la compromissione sia dello scopo della buona immagine nei confronti del gruppo e di sé stessi, che dello scopo dell’autostima  che sarebbe il valutare sé stessi adeguati per certi scopi. Questo significa che pur mantenendo una buona immagine potremmo egualmente vergognarci a causa della compromissione dello scopo di autostima, e viceversa. Se ad esempio presentiamo un lavoro in un congresso e veniamo ampiamente lodati per il nostro intervento potremmo comunque vergognarci non già per la compromissione dello scopo della buona immagine, ma perché sappiamo che la nostra ricerca presenta molte lacune e l’uditorio non era sufficientemente competente per coglierle, e quindi proviamo vergogna in riferimento alla frustrazione dello scopo dell’autostima.

Al fine di chiarire il primo argomento del predicato di questa emozione, cioè chi può provare vergogna (experiencer), possiamo avere una buona indicazione analizzando la situazione degli individui che non sperimentano vergogna. Questa emozione è legata allo scopo della buona immagine per cui chi si sente amato non si vergogna con la persona amata, poiché l’adozione affettiva da parte dell’altro è scontata e quindi non si rischia di compromettere il proprio scopo della stima. Un altro caso in cui non compare la vergogna è rappresentato dalle persone autonome e indipendenti che non sono interessate alla buona valutazione da parte degli altri. Questo viene confermato osservando la vergogna nel periodo adolescenziale in cui, non essendo ancora ben definito il tipo di persone a cui si vuole piacere, il numero di situazioni vergognose è di gran lunga superiore a quelle incontrate da un individuo adulto che ha già scelto a chi vuol piacere.

La vergogna, oltre a tutelare l’immagine di sé, ha una importante funzione a livello biologico e sociale. Vergognandoci mostriamo di condividere valori e norme, ed esprimendo tale emozione ne riaffermiamo implicitamente l’importanza mostrando di condividerli. L’affronto sociale più inaccettabile che può operare un individuo responsabile di qualcosa è proprio quello di non esprimere vergogna (“…e non si vergogna neppure!”). Questo comportamento spesso determina il disprezzo degli altri e, quindi, l’esclusione dal gruppo. I segnali espressivi di questa emozione svolgono la funzione di confermare al mondo e a noi stessi la nostra appartenenza al gruppo.

Per ciò che riguarda i segnali espressivi riteniamo importante fare alcune precisazioni. Il rossore, per esempio, pur essendo uno dei segnali espressivi della vergogna, non è esclusivo di questa emozione. Darwin (1872) lo descrisse come «la più peculiare e la più umana di tutte le espressioni». Le persone arrossiscono in varie situazioni: minacce all’identità pubblica, la lode e le altre forme di attenzione positiva, l’esame critico, le accuse di stare arrossendo, lo sforzo fisico, la rabbia e l’imbarazzo. Il rossore più strettamente collegato alla vergogna è quello facciale ed è localizzato sulle guance e sugli zigomi potendosi estendere fino alle orecchie con modalità rapide di comparsa e di regressione. Tale segnale espressivo si manifesta anche in connessione con il pudore e la timidezza che trovano il loro nucleo emozionale nella vergogna. La differenziazione di questi stati emotivi consiste nell’osservazione che la vergogna implica il timore di una valutazione negativa, mentre la timidezza e il pudore hanno il semplice scopo di evitare l’esporsi alla valutazione (Castelfranchi e Poggi, 1988).

Di solito quando arrossiamo abbassiamo anche la testa per evitare lo sguardo altrui, l’effetto immediato di tale postura è quello di ridurre il contatto oculare e, quindi, l’interazione “faccia a faccia”. Tomkins (1982) interpreta questo tipo di postura come un pattern innato la cui funzione è di inibire la comunicazione sociale messa a rischio dalla “perdita della faccia”. Tale comportamento esprime in maniera figurata il vissuto soggettivo dell’individuo, infatti alcune delle espressioni verbali più comunemente usate per descrivere questo stato emotivo sono: “avrei voluto sparire”; “mi sentivo tutti gli occhi addosso”.

Nella vergogna questi due comportamenti sono segnali comunicativi non regolati da intenzioni o scopi interni, ma da scopi esterni all’individuo e hanno una funzione sociale e una biologica. Il rossore comunica la consapevolezza dell’avere violato una norma pur volendo allo stato attuale aderirvi, la postura a testa bassa è un segnale di sottomissione per placare l’aggressività del gruppo.

La presenza di tali segnali rende più credibile il pentimento verbale dell’individuo e discrimina l’ipocrisia da una sincera richiesta adozione. Se un gruppo crede che uno di loro abbia violato una regola, un atteggiamento di vergogna determinerà l’attenuazione dell’aggressività degli altri e della severità della punizione. Ciò darà la possibilità al trasgressore di avere un migliore giudizio generale di sé potendo, nel contempo, confermare la sua appartenenza al gruppo.

Quando ci vergogniamo

La vergogna è un evento che normalmente ha un valore adattivo e ben poche persone possono dichiarare di non averla mai sperimentata. Nonostante la frequente valutazione individuale a carattere egodistonico pochi di noi vorrebbero vivere in un mondo dove non esiste vergogna. Vari autori (Buss, 1980; Tangney, 1989; Lewis, 1992) hanno individuato situazioni prototipiche della vergogna, quelle che ritroviamo più frequentemente riguardano l’insuccesso nel lavoro e negli studi, l’essere “colti in fallo”, le carenti prestazioni sessuali, l’attirare l’attenzione non volontariamente (inciampare, rumori corporei, ecc.), il vergognarsi empaticamente per la vergogna altrui. Tutte queste situazioni e altre non citate, pur essendo molto diverse tra loro, hanno almeno due elementi caratteristici in comune: “il venire meno a qualche regola o modello” e “un globale giudizio negativo su sé stessi”.

Fino ad adesso abbiamo affermato l’utilità sociale della vergogna all’interno del gruppo, ma esiste anche il caso del “vergognarsi di mostrare vergogna” che compromette lo scopo dell’autostima e, di riflesso, riduce l’adottabilità e il potere dell’individuo. Vergognarsi, a volte, può permettere la scoperta da parte degli altri di un nostro errore che avremmo voluto tenere nascosto; un esempio lo abbiamo quando parliamo con un collega di un argomento che riteniamo di dover conoscere e temiamo che si scopra la nostra impreparazione. In questo caso, se utilizziamo prevalentemente un meccanismo di attribuzione globale, il mostrare vergogna verrà vissuto come la dimostrazione della nostra incapacità non solo a livello professionale, ma come individui in toto. Nell’adulto, soprattutto se maschio, esiste un maggiore timore della ridicolizzazione e della conseguente diminuzione del proprio potere sociale rispetto a un bambino o a un adolescente. La vergogna può essere vista come segno di insicurezza, pavidità, incapacità di fronteggiare gli altri o delle piccole difficoltà, dimostrazione dell’eccessiva dipendenza dal giudizio altrui e scarso controllo sulle emozioni (Castelfranchi, 1988).

Ricordiamo infine che un altro tipo di vergogna è quella causata da incompatibilità di alcuni criteri interni al soggetto, quindi da un intimo conflitto di valori che conduce l’individuo a vergognarsi della propria incoerenza.

Diagnosi differenziale

Le emozioni che più frequentemente vengono confuse con la vergogna sono il senso di colpa e l’imbarazzo. Il senso di colpa e la vergogna possono presentarsi singolarmente o concomitanti, mentre nel caso dell’imbarazzo la sua presenza esclude quella della vergogna, e viceversa. Per noi terapeuti è molto importante poter discriminare accuratamente questi stati emotivi perché, come vedremo in seguito, ognuno di essi differisce nella funzione, nella genesi e nelle modalità di mantenimento. Vari autori italiani (D’Urso e Trentin, 1988; Castelfranchi, 1988; D’Urso, 1990; Magri e Mancini, 1991) hanno orientato il proprio lavoro sullo studio dei rapporti tra cognizione ed emozione con l’intento di raggiungere un’ipotesi funzionale dei processi emotivi, non considerandoli come altro da sé, ma investigando gli antecedenti e le componenti cognitive delle emozioni. Questo tipo di approccio ci aiuta nella comprensione e nella differenziazione, non solo delle emozioni che interessano direttamente questo articolo, ma di tutti gli stati emotivi.

In merito alla diagnosi differenziale tra vergogna e sensi di colpa storicamente uno dei principali fattori distintivi è stato il constatare (ad es. Ausubel, 1955) che la vergogna fosse una emozione più pubblica, mentre la colpa un’emozione più privata. Alcuni autori (Lewis, 1971; Taylor, 1985; Tagney, 1990; Castelfranchi, 1988 e 1994; Tangney et al, 1996a) hanno confutato tale concetto che considerava l’esposizione pubblica e la disapprovazione degli altri come un prerequisito esclusivo e patognomonico del sentimento di vergogna per due motivi. Il primo è che anche la colpa può essere sperimentata in situazioni pubbliche, il secondo è che ci si può vergognare anche soli con sé stessi. Un’altra differenziazione menzionata soventemente è stata quella che riconosceva come causa della vergogna una attribuzione interna e incontrollabile, mentre vedeva come origine del senso di colpa sempre una attribuzione interna, ma controllabile. Tale differenza può essere messa in discussione perché possiamo sentirci in colpa anche per eventi o caratteristiche completamente fuori dal nostro controllo, e possiamo vergognarci per atti e caratteristiche controllabili. Questa posizione viene confermata da Castelfranchi (Castelfranchi, 1988; Castelfranchi e Poggi, 1990; Miceli e Castelfranchi, 1992; Castelfranchi, 1994) che ci propone una interessante ipotesi funzionale del senso di colpa e della vergogna. L’autore cerca di spiegare le ragioni per le quali queste due emozioni non concorrano sempre insieme, nonostante in entrambe esista la valutazione negativa dell’atto e la conseguente critica di sé. Il primo, e più importante, motivo ravvisato da Castelfranchi riguarda la diversità delle valutazioni negative presenti nella vergogna e nella colpa; avremo vergogna quando è presente una “valutazione di inadeguatezza e di mancanza di potere”, mentre sarebbe presente senso di colpa quando c’è una “valutazione di danno e di nocività”. La valutazione è sempre relativa a scopi e gli scopi pertinenti queste emozioni hanno domini diversi: la vergogna ha come scopi finali il potere dell’individuo e i vantaggi del gruppo  e riguarda il mondo dell’immagine che sottende la adozione e la gerarchia sociale; mentre il senso di colpa avrebbe come scopo finale l’altruismo reciproco che viene perseguito tramite l’equità  e l’altruismo. Il senso di colpa servirebbe, quindi, a non omettere aiuto, a non danneggiare inopinatamente, a non avvantaggiarsi di scambi iniqui e a reciprocare o a riparare. Alla luce di quanto detto, ci si può vergognare per scopi estetici  e per scopi morali, ma ci si può sentire in colpa solo per scopi morali.

Queste emozioni possono presentarsi anche associate, ad esempio un senso di colpa determinato da un atto colpevole evidenzia un difetto specifico nell’azione (colpa), ma può anche essere considerato come la conseguenza di una inadeguatezza, di un difetto più generale del carattere (vergogna). In questo caso avremo, oltre al senso di colpa, disappunto, tristezza, disgusto e dispiacere verso noi stessi, quindi «la percezione di una degradazione più profonda di quella che l’atto colpevole di per sé giustificherebbe» (Silver, 1994). L’esempio riportato mostra come la vergogna possa trarre le sue origini da un atto colpevole, esiste anche il caso in cui, solo in apparenza, accade il contrario: in seguito ad un nostro comportamento inadempiente dichiariamo agli altri il nostro senso di colpa che, in realtà, serve a coprire un sentimento di vergogna. Un esempio valido e quotidiano! Se ci viene commissionato un articolo e a pochi giorni dalla scadenza del termine di consegna ci prendiamo un week-end di vacanza pur vergognandoci molto, possiamo manifestare agli altri il nostro dispiacere per non avere lavorato (“sono mortificato e mi sento in colpa”), ma stiamo in realtà cercando di nascondere la nostra autopercezione di inadeguatezza (“faccio le cose sempre all’ultimo minuto, sono proprio stupido”). Quindi in questo caso non è certo la colpa a nascere dalla vergogna, ma neanche il contrario, è solo vergogna. Stiamo affermando che queste due emozioni possono comparire singolarmente o, nel momento in cui sono associate, la colpa origina la vergogna, mentre il contrario sarà solamente un mascheramento della vergogna stessa.

Un altro elemento comune a queste due emozioni è la rabbia anche se, come è ben documentato dalle numerose ricerche di Tangney (1990, 1992, 1996a, 1996b), con delle differenze sostanziali. Questo autore parte dall’osservazione che le persone con una evidente tendenza a una di queste emozioni manifestano un tipo di rabbia qualitativamente diversa per contenuti e conseguenze. La rabbia reattiva alla vergogna ha caratteristiche maladattive ed é accompagnata da sospettosità, irritabilità, risentimento e rapporti non empatici. In questo tipo di rabbia si tende a colpevolizzare gli altri per accadimenti negativi e l’ostilità viene espressa in modo indiretto. Nel senso di colpa, invece, la rabbia ha livelli di intensità più bassi, una espressione diretta, e una disposizione più adattiva e costruttiva. Ricordando le differenti valutazioni negative di queste due emozioni è altamente probabile che la rabbia di chi si vergogna sia così devastante perché si riferisce al fallimento dello scopo della buona immagine (“che cretino sono stato!”) con una sensazione di inadeguatezza generale. Mentre la rabbia conseguente al senso di colpa è meno intensa poiché sarebbe collegata al fallimento dello scopo dell’altruismo reciproco (“che ho fatto!?”) in cui non si mette in gioco l’inadeguatezza o la mancanza di potere, ma solo il proprio potere negativo con una valutazione di nocività.

L’altra emozione che viene spesso confusa con la vergogna è l’imbarazzo. Mead (1950) considerava l’esposizione del Sé agli occhi critici degli altri come l’essenza della vergogna, e affermava che essa non poteva sorprendere l’uomo in solitudine. Questa affermazione può essere accettabile se riferita all’imbarazzo e non già alla vergogna. Anche altri autori non hanno dato all’imbarazzo dignità di emozione: Izard (1977) considerava l’imbarazzo come una componente della vergogna; Kaufman (1989) sosteneva che, sebbene sia meno intenso, l’imbarazzo non è un’emozione diversa dalla vergogna. In altri studi ( ad es. Buss, 1980; Edelmann, 1987; D’urso, 1990; Lewis, 1992; Tangney et al, 1996a; Keltner e Buswell, 1996) è stata proposta una distinzione tra imbarazzo e vergogna articolata in base a dimensioni affettive, cognitive e motivazionali. L’imbarazzo è uno stato emotivo più o meno intenso e di durata variabile (da pochi secondi a pochi minuti). Si manifesta più improvvisamente, determina spesso un grande senso di sorpresa e nasce da eventi più superficiali e ridicoli rispetto a quelli che generano la vergogna. A conferma di queste evidenze sono interessanti alcune ricerche sull’imbarazzo, riportate da M. Lewis, in cui si notava che bambini ai quali venivano rivolte delle lodi distoglievano lo sguardo, ma diversamente dalla vergogna, per breve tempo tornando ogni volta a guardare lo sperimentatore. Alcuni si toccavano il volto senza coprirlo con le mani, questo comportamento era accompagnato da un “grande sorriso” che sembra essere il principale elemento espressivo di distinzione tra imbarazzo e vergogna.

L’imbarazzo è legato alla crisi dell’immagine pubblica, al presente e al luogo dell’azione, per cui gli elementi costitutivi di questa emozione sono: la presenza sulla scena di chi si imbarazza e la presenza di chi causa o assiste a questa situazione emozionale. Al contrario, la vergogna può essere vissuta anche da soli o per eventi passati (Edelman, 1987). Nelle rare occasioni in cui l’imbarazzo si manifesta senza la presenza degli altri si ha una immaginazione molto vivida della situazione imbarazzante (Tangney, 1996a). L’imbarazzo dipende da eventi che coinvolgono gli altri realmente o mediante un’esposizione immaginata, per cui è sempre una risposta a “eventi pubblici” (Miller, 1996). Anche la vergogna può dipendere dall’immaginazione dell’esposizione pubblica, ma la maggiore gravità della trasgressione, e la maggiore frequenza con la quale questa si sperimenta in contesti individuali, suggerisce che essa possa avere una componente privata (autostima) che l’imbarazzo non possiede. Quest’ultimo è legato ad un problema di immagine che non implica una valutazione globale negativa di sé. Per Castelfranchi (1988) è una perdita, avvenuta o temuta, della propria autostima situazionale, che a sua volta dipende dalla minaccia o dalla perdita della stima pubblica. Ogni imbarazzo dipende dalla situazione specifica che lo suscita, la ferita dell’autostima pubblica sembra essere limitata a quella specifica categoria di eventi, o addirittura all’evento singolo. La funzione dell’imbarazzo è sicuramente quella di segnalare l’infrazione, avvenuta o solo temuta, di norme sociali poco chiare, non formalizzate, sconosciute o contraddittorie. L’imbarazzo, in questi casi, è attivato dalla consapevolezza del “sapere di non sapere”. Quando le regole sono chiare la paura di infrangerle e il timore delle sanzioni previste,per tali infrazioni generano l’imbarazzo (D’Urso, 1990).

La vergogna in psicoterapia e psicopatologia

La descrizione della vergogna proposta da Erikson (1950) può essere illuminante riguardo la situazione emozionale vissuta dal paziente nel contesto terapeutico: «la vergogna è caratterizzata dalla consapevolezza di avere un “didietro” che il soggetto a differenza degli altri non può vedere e che è quindi esposto agli attacchi degli altri». Alcuni pazienti sentono la loro vita, e sé stessi, sotto la lente di ingrandimento di uno sconosciuto, “giudicante e non giudicabile”. Questa situazione asimmetrica accresce la loro paura di essere scoperti inadeguati e non è favorevole al mantenimento della loro buona immagine, già così precaria. La vergogna è quindi inevitabile nella relazione terapeutica e dipende anche dalle condizioni del setting (Beck, 1967; Lewis, 1971 e 1987; Schneider, 1987). Teniamo conto che questa emozione può coinvolgere anche il terapeuta che talvolta si ritrova, suo malgrado, a colludere con il paziente nell’evitare di affrontarla. Lo stesso Freud (1925) motivava l’innovazione tecnica delle condizioni del setting (posizione del “lettino” e della sedia che consentono al terapeuta di vedere il paziente senza essere visto) con l’ammissione che spesso trovava imbarazzante il colloquio “faccia a faccia”. Talvolta un terapeuta con problemi di vergogna, non riuscendo ad ammettere un proprio errore e sentendosi minacciato dal giudizio del paziente sulla propria capacità professionale, potrebbe attribuire una situazione di “stallo” a una non collaborazione del paziente che vedrà così confermata la propria incapacità (Koufman, 1989). Per H B Lewis (1971) un’altra fonte di vergogna in psicoterapia nasce dagli stessi commenti, interpretazioni e riformulazioni del terapeuta che possono “spiazzare”, “smascherare” e “mettere a nudo” il paziente. Tutte queste condizioni potrebbero essere accentuate dalla differenza sessuale tra terapeuta e paziente (Wright, O’Leary e Balkin, 1989).

Quanto le famose resistenze terapeutiche dipenderanno da meccanismi di questo tipo?

Un processo di autogenerazione della vergogna è il non riuscire a esprimerla (vergogna della vergogna), questa modalità di comportamento costituisce uno degli ostacoli più importanti nella soluzione delle problematiche di questi pazienti. In questi casi uno dei principali obbiettivi dell’intervento psicoterapeutico sarà quello di intervenire gradualmente nel blocco del meccanismo autogenerativo della vergogna, tenendo conto delle difficoltà che potrebbero creare le innumerevoli fonti di vergogna presenti nel contesto terapeutico. Riuscire a fare verbalizzare la vergogna per riconoscere, affrontare e ricontestualizzare i sentimenti di inadeguatezza è un compito ancora più delicato e necessario nelle terapie di gruppo poiché il senso di esposizione è aumentato (Hahn, 1994).

Negli individui tendenti alla vergogna un altro elemento che denuncia la loro inadeguatezza e vulnerabilità è il fatto stesso di essere in trattamento psicoterapeutico. Questo è il motivo più frequente per il quale alcuni pazienti non dichiarano volentieri ad amici o parenti di essere in psicoterapia; tale ammissione confermerebbe ancora una volta la loro diversità, inadeguatezza e debolezza.

Nella psicoterapia di pazienti con questo tipo di vulnerabilità, qualunque sia la psicopatologia lamentata, l’intervento sarà mirato a condurli a riconoscere le proprie modalità di attribuzione, a modularle o, qualora sia possibile, a trasformarle da globali in situazionali, contestuali e realistiche. Questo approccio consentirà al paziente di potersi finalmente sperimentare proponendosi mete e scopi realistici, sviluppando un confronto positivo con sé stesso e rafforzando o ricostruendo sia una buona immagine sociale che una buona stima di sé.

Ci occuperemo ora dei principali quadri psicopatologici nei quali la vergogna gioca un ruolo preponderante nella genesi e nel mantenimento. Secondo la H.B. Lewis (1971) e Harder (1992) l’esperienze di vergogna determinano una tendenza a sviluppare una sintomatologia di tipo depressivo e isterico. La depressione è storicamente il quadro psicopatologico più frequentemente collegato al sentimento di vergogna. Freud vedeva la depressione come aggressività rivolta all’interno. Bibring (1953) e Bowlby (1969) preferivano vedere in essa la conseguenza della perdita di autostima dovuta al mancato soddisfacimento delle aspirazioni narcisistiche. Queste posizioni in cui la depressione è legata alla stima di sé concordano con alcuni lavori di Beck (1976) e Seligman (1975) che hanno considerato la depressione come una attribuzione negativa che coinvolge globalmente la persona e perdura nel tempo.

La più recente analisi della vergogna fornita da M. Lewis (1992) sembra corrispondere a questo tipo di analisi della depressione, per cui il risultato di certe situazioni sarebbe la vergogna e/o la depressione. Sembrerebbe quindi che la depressione non sia una trasformazione della vergogna, ma un’emozione concomitante: l’individuo talvolta potrebbe scegliere di concentrare l’attenzione sull’aspetto depressivo anziché sulla vergogna. Se un soggetto si trova esposto a ripetute esperienze di vergogna ha diverse modalità per farvi fronte: negarle, dimenticarle, riderci sopra, confessarsi, ecc. ecc.. Quando l’esperienza è troppo pesante, per evitare la disintegrazione del Sé, risulterebbe quasi inevitabile la comparsa di una emozione sostitutiva. La depressione, quindi, servirebbe da sostituto emotivo della vergogna quando il sistema del Sé è seriamente minacciato di disgregazione (vedi anche le “personalità multiple”). Secondo Lansky perfino il suicidio deriverebbe, non già dalla depressione in sé per sé, ma dalla vergogna del paziente per le sue idee depressive.

Concludendo, ripetute esperienze umilianti e l’impossibilità di sfuggire da un contesto ambientale che continua ad alimentare tale situazione, costringono l’individuo ad adottare strategie alternative. Nei casi più gravi osserveremo depressione, manifestazioni di violenza e, nelle forme più estreme, un vero e proprio deterioramento della personalità fino alla psicosi.

La vergogna è una componente importante di tutte le sindromi da scissione  che comprendono il Disturbo Narcisistico di Personalità, il Disturbo da Personalità Multipla e il Disturbo Borderline di Personalità (Koufman, 1989).

Nel Disturbo Narcisistico di Personalità la vergogna occupa un ruolo sicuramente preminente e basilare come sostenuto da Kohut (1971), Kernberg (1975) e M. Lewis (1992). Kohut afferma che i segnali di vergogna svolgono un ruolo essenziale nel mantenere e restaurare l’equilibrio omeostatico narcisistico. Per la H.B. Lewis (1971) la shame-proneness (suscettibilità alla vergogna) può condurre ad una riconcettualizzazione della psicopatologia narcisistica. La causa di fondo di questo disturbo sarebbe la tendenza a mettersi in gioco globalmente nei giudizi di successo-insuccesso, per cui un risultato cattivo darà luogo a vergogna e uno positivo a superbia. Il narcisista é molto vulnerabile al sentimento di vergogna e agisce in modo da evitarlo a ogni costo. Si può evitare la vergogna mettendosi in condizioni di non provare mai l’insuccesso proponendosi delle mete troppo basse o troppo alte e considerando come successo azioni che normalmente verrebbero valutate fallimentari. In questi individui la tendenza ad attribuzioni globali e le frequenti reazioni di vergogna hanno reso impossibile l’apprendimento di modelli di condotta adeguati e realistici per cui i loro obiettivi risultano sbilanciati. Quando un narcisista riconosce un inequivocabile fallimento tende a incolpare gli altri e questo peggiora ulteriormente i rapporti interpersonali, in questa situazione la sua umiliazione genererà risposte estreme di violenza o di profonda depressione (Lewis, 1992). Kohut (1971) parla di «rabbia narcisistica» che appare come una via di uscita dalla vergogna, affetto annichilente che non può essere in generale elaborato, ma solo espulso o ribaltato.

Nei pazienti con Disturbo da Personalità Multipla, o Disturbo Dissociativo dell’Identità (APA, 1994), la vergogna ha un ruolo importante nello sviluppo dello sdoppiamento della personalità. Tra tutti gli autori (ad esempio Ross, 1989) c’è un sostanziale accordo sul fatto che questo disturbo sia eziologicamente correlato con l’abuso infantile. Vari studi evidenziano che la maggior parte dei pazienti con Disturbo da Personalità Multipla in età infantile hanno subito violenze sessuali, aggressioni psicologiche, brutalizzazioni fisiche e sopraffazioni emotive. Questo tipo di abusi sono generalmente continuativi e la vittima non ha ricevuto adeguate cure e protezione. Ci sembra opportuno sottolineare che il trauma infantile accentua semplicemente la potenzialità biologica a dissociare, infatti non tutte le vittime di tali traumi sviluppano questo tipo di disturbo. Secondo Lewis (1992) la vergogna verrebbe attivata dall’abuso o dalla riattualizzazione del trauma e per eluderla si metterebbe in atto, come ultima strategia difensiva, la dissociazione. Le esperienze traumatiche prolungate e ripetute di vergogna tenderebbero a provocare la frammentazione del Sé che rappresenta l’estrema forma dissociativa. Tra vergogna e dissociazione esiste quindi un rapporto sistematico che va dal semplice distanziarsi, come ridere con gli altri del proprio insuccesso, fino a un vero e proprio dissociarsi. Nelle esperienze più umilianti si farebbe ricorso a emozioni sostitutive come la rabbia e la depressione, mentre in situazioni di vergogna più intensa e prolungata avverrebbe una dissociazione radicale che darebbe luogo alla personalità multipla. Quindi «il Disturbo da Personalità Multipla è una strategia, e spesso l’unica possibile, messa in atto da un bambino per sopravvivere a una infanzia traumatica» (Miti, 1992).

Nella nostra pratica clinica traumi infantili di varia natura e la trascuratezza nel contesto familiare emergono spesso anche nell’anamnesi di soggetti con Disturbo Borderline di Personalità. Sono queste esperienze umilianti subite nell’età infantile a generare la certezza di avere un intrinseco “difetto di fabbrica” da dover nascondere a tutti i costi tramite apparenti competenze sociali (“personalità camaleontiche”). Quando nonostante ciò si sentono scoperti il sentimento di vergogna può diventare così intollerabile da determinare un improvvisa e inspiegabile rabbia distruttiva che si ripercuote negativamente sul soggetto stesso e peggiora ulteriormente i rapporti con il mondo. Nella teoria di Beck (1990) viene descritto un tipico circolo vizioso, da noi stessi condiviso (Cotugno e Benedetto, 1995): il mondo è pericoloso e cattivo; io sono impotente e vulnerabile; io sono intrinsecamente inaccettabile. Da questa triade cognitiva deriva che i pazienti borderline si ritrovano in un costante dilemma: sono relativamente convinti di avere bisogno di aiuto in un mondo comunque ostile. Questo li conduce a vacillare continuamente tra due desideri, l’autonomia e la dipendenza senza mai riuscire a scegliere. Il manifestare un desiderio di dipendenza genera vergogna nel momento in cui viene frustrato, tale frustrazione conferma l’ostilità e l’inaffidabilità del mondo suscitando forti sentimenti di rabbia che a loro volta aumentano la percezione di cattiveria e, quindi, di inaccettabilità personale. La relazione terapeutica con pazienti borderline è estremamente delicata proprio a causa della loro vulnerabilità alla vergogna che viene esperita nel momento in cui emerge chiaramente il loro bisogno di aiuto. Nel contesto terapeutico i borderline si sentono continuamente in pericolo di essere “smascherati” dal terapeuta che fa parte del mondo pericoloso e cattivo, ma purtroppo necessario a loro così deboli e dipendenti. Un esempio molto frequente lo abbiamo quando il terapeuta manifesta un atteggiamento “troppo” empatico durante l’ascolto di una vicenda dolorosa per il paziente. Quest’ultimo spesso scambia l’empatia con la compassione e la pena, che sono riservate alle persone bisognose d’aiuto e quindi deboli e dipendenti, ed è proprio la vergogna di “perdere la faccia” a scatenare la rabbia e l’ostilità verso il terapeuta, emozioni molto frequenti durante la psicoterapia dei pazienti borderline.

Meissner (1986) osserva come la vergogna sia il segnale affettivo per sentimenti di umiliazione, inferiorità o mortificazione narcisistica e come questa sia in «diretta relazione con l’economia proiettiva dato che l’esposizione del Sé coinvolta nella vergogna deve implicare una percezione degli altri che percepiscono il Sé come fallimento». La connessione tra vergogna e sindromi paranoidi è stata già rilevata da Kretschmer (1930) e più recentemente da Ballerini e Rossi Monti (1990). Per questi ultimi «uno dei paradossi del fenomeno delirio è da un lato di implicare una deformazione di categorie generali della mente che vanno da pattern cognitivi particolari fino alla creazione di un peculiare mondo esistenziale; dall’altro di sostanziarsi attraverso significati personalissimi, che spesso rinviano in modo enigmatico-oracolare alla storia di vita della persona, al fluire degli eventi esterni e interni del suo percorso esistenziale». Quindi il delirio può avere un’enorme quantità di significati possibili o apparire come il massimo dell’insensatezza. Lo scacco dell’immagine del Sé, che abbiamo nel sentimento di vergogna, determinerebbe un’enorme categoria globale nella quale “tutti gli altri” segnalano il loro disprezzo e la loro persecutorietà. Abbiamo già visto come l’oscillazione vergogna-rabbia sia una frequente maniera intrapsichica di affrontare il disagio; si può dedurre che quando questa modulazione perde la propria omeostasi facilmente il mondo che normalmente è talvolta, e solo in alcune situazioni, giudicante diventi sempre e globalmente persecutorio. Per cui nella situazione delirante avremo un passaggio dal sentimento di vergognosa disfatta a quello persecutorio.

In una ottica squisitamente cognitivista riteniamo di particolare interesse le due manifestazioni cliniche estreme dell’organizzazione cognitiva dei Disturbi Alimentari Psicogeni: l’anoressia e la bulimia. Questi pazienti, prevalentemente di sesso femminile, presentano un problema di definizione di sé stessi che li rende molto vulnerabili al giudizio degli altri. La paura che si scopra quanto sono condizionabili, dipendenti e vulnerabili dal giudizio esterno rappresenta il “difetto di fabbrica” da dover nascondere. Il sentimento di vergogna si innesta quando hanno il timore che il loro difetto venga “smascherato”, in queste occasioni l’ultima difesa possibile, per evitare la frammentazione del Sé, è la rabbia. Quando, ad esempio, devono prendere una decisione, un qualunque giudizio, consiglio o affermazione altrui viene letta come una minaccia alla propria già fragile identità, poiché non riescono più a discriminare se il comportamento che vorrebbero mettere in atto sia veramente il frutto di una loro esclusiva decisione. In queste pazienti anche le conferme chiaramente positive non sono mai sufficienti a rafforzare la loro autostima, per cui l’unico modo per sentirsi adeguate è “sfidarsi” pretendendo di riuscire a portare a termine il maggior numero di impegni possibili con prestazioni caratterizzate dal concetto che “il minimo indispensabile debba essere il massimo pensabile”. Vista la tendenza di queste persone a utilizzare delle modalità di attribuzione interne globali, l’inevitabile insuccesso non viene contestualizzato, ma generalizzato e mette in discussione l’intero individuo. Al fine di sanare la fragile identità, la dipendenza dagli altri e la vergogna che provano nel momento in cui si sentono smascherate utilizzano come estremo tentativo di soluzione l’unica sfida apparentemente controllabile solo da sé stesse, essere magra: “se sono magra sono vincente, forte, indipendente e non condizionabile”, al contrario “se sono grassa sono perdente, debole, condizionabile e tutti vedono chiaramente la mia dipendenza e quindi la mia vulnerabilità nei confronti del mondo”. Le anoressiche, apparentemente vincenti, continuano a sentirsi in pericolo e qualsiasi piccolo cedimento è fonte di vergogna e di disperazione. Continuano a combattere per cercare di raggiungere definitivamente la vittoria, ma la scelta delle mete é totalmente disturbata e il punto di arrivo non sarà mai definito, per alcune fino alla morte. Per le pazienti bulimiche il non poter nascondere la propria immagine corporea viene considerato la causa principale dei propri fallimenti e della propria inaccettabilità sociale. Il loro grasso diviene “il capro espiatorio” del costante sentimento di vergogna, è infatti chiara a tutti la loro debolezza e la loro dipendenza dal cibo, e costituisce la giustificazione della loro immobilità, apatia e incapacità.

 

 

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