Contributi a una cultura dell’Ascolto CAMMINARSI DENTRO (266): Leggere Fragile e spavaldo. Ritratto dell’adolescente di oggi di GUSTAVO PIETROPOLLI CHARMET (2008), LATERZA

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Sabato 27 agosto 2011

Gli adolescenti di oggi però, a differenza degli adolescenti studiati dai pionieri della psicoana- lisi nei primi decenni del secolo scorso, non vogliono «uccidere sim- bolicamente» il padre e la sua legge, per il semplice motivo che non hanno più alcun motivo di farlo. Né devono rinunciare a misteriosi e sotterranei complessi col genitore del sesso opposto, nei confronti del quale non nutrono più smodate e ambigue passioni, né lubriche tentazioni o sublimi e intimorite idealizzazioni.
I nuovi adolescenti sono occupati da ben altri pensieri ed emergono da un sistema educativo che non ha affatto l’obiettivo di farli sentire in colpa per i loro desideri e bisogni. Al contrario, la loro educazione infantile ha avuto come fine fargli credere che la cosa giusta e buona da fare sia essere se stessi, non come gli altri vogliono che tu diventi. Perché essere se stessi, cioè il bambino che sei, è meraviglioso; la natura ti sospinge a fare la cosa giusta, non a commettere orrendi peccati o spregevoli incesti o altri atti sovversivi e vandalici.
Oggi, gli adolescenti non hanno paura del castigo e non si sentono in colpa, perché gli adulti hanno abbandonato il sistema educativo della colpa e giustamente i figli non si sentono rei nei confronti del loro corpo e dei loro intimi pensieri. La crisi dell’autorità del padre e la nuova interpretazione del ruolo materno attivata dall’ingresso massiccio delle donne madri nel mondo produttivo, come abbiamo già avuto modo di osservare, hanno prodotto dei figli molto meno schiacciati dal conflitto edipico rispetto a quelli di una volta.
Tutto ciò consente di sostenere l’ipotesi che il processo creativo nell’adolescenza narcisistica non è finalizzato alla riparazione del Sé o dell’oggetto, secondo quanto afferma la disputa psicoanalitica tradizionale. Il processo creativo non sembra ascrivibile al rimorso per il danno inflitto all’oggetto o al tentativo di riparare la propria colpa ricostruendo e ridando vita all’oggetto, che si pensa deteriorato a causa degli attacchi portati in fantasia dal soggetto, o per invidia o come reazione alla sua supremazia e splendore.
Questa ipotesi, a dire il vero, apparirebbe particolarmente verosimile in adolescenza, fase del ciclo di vita durante la quale il soggetto è costretto, per crescere, ad attaccare lo «splendore» dei genitori idealizzati dell’infanzia. Sembrerebbe perciò comprensibile che si possa sentire in colpa e poi in dovere di ripararla attraverso gesti dall’alto valore simbolico.
In effetti molte espressioni artistiche adolescenziali, a livello di contenuto, sembrano alludere proprio a questa vicenda: da un lato una rabbia impetuosa destinata a lacerare ogni vincolo, dall’altro la nostalgia di un’appartenenza ormai sconnessa e la dolente consapevolezza della cacciata dal paradiso infantile che alimenta la solitudine dovuta all’essere rimasto orfano a seguito dell’uccisione simbolica dei genitori. La canzone o la poesia che ne derivano sembrano costituirsi come la produzione artistica di un processo creativo alimentato e promosso dalla colpa per la distruzione dei legami familiari.
Anche la perdita della silenziosa innocenza della corporeità infantile sembra spesso costituirsi come tema di espressione artistica più o meno ben riuscita. La malizia e il dolore, che conseguono la sessualità appena conquistata, sembrano parlare di un corpo attaccato e ridotto male, trasformato in quello di uno scarafaggio ripugnante, dedito a riti lubrichi, costretto dalla propria intrinseca natura o meglio dall’ignobile trasformazione subìta a sperimentare desideri e bisogni «sporchi». Si leva allora la canzone dedicata alla bellezza dell’altro confrontata con la propria presenza indesiderabile, condannata alla contemplazione dell’altrui bellezza, senza alcuna possibilità di scambio.
Se però non si tratta del tentativo di riparare il danno subìto o inflitto, se il processo creativo non ha questa finalità e non persegue questo obiettivo, allora cosa costringe il soggetto ad impegnarsi nella fatica di trovare canali espressivi adeguati per intonare il canto che potrebbe ridare simbolicamente vita all’oggetto perduto o nuovo splendore al soggetto deteriorato dalla propria incapacità di averne cura e portarlo verso la bellezza e la salute naturale? (pp.52-54)

Chi è lo sconosciuto seduto sui banchi delle nostre scuole, sperduto nel labirinto dei centri commerciali, intento ad ascoltare e produrre una musica mai sentita prima d’ora, in cerca di se stesso, apparentemente disinteressato a ciò che gli adulti hanno da dirgli? Malato di fragilità narcisistica, sostenuto da una spavalderia irriverente e da un’indifferenza corrosiva, il nuovo adolescente ha una creatività inattesa che lo aiuterà a crescere, come emerge da questo ritratto sorprendente – frutto della lunga e simpatetica esplorazione del mondo dell’adolescenza fatta da Pietropolli Charmet. [dalla quarta di copertina]

Indice del libro
Introduzione
1. Come nasce Narciso
2. L’adolescente di oggi: un animale simbolico
3. La creatività di Narciso
4. La distruzione dei legami
5. Narciso e la noia
6. Narciso e la vergogna
Conclusione
Bibliografia

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RECENSIONI

dal sito de LA BIBLIOTECA DI GARLASCO

Marco Romani su: Il Venerdì di Repubblica (22/08/2008)
È il bambino più bravo, il più bello, il più intelligente. Tra Io stupore e l’incoraggiamento incondizionato della famiglia a due anni già risponde a tono, a quattro si legge da solo le favole prima di addormentarsi, a sei canta e balla come le veline. Ma poi, crescendo, i ragazzi iniziano a capire che trovare un pubblico sempre pronto all’applauso non è poi così semplice. E la delusione e la vergogna iniziano a prendere il sopravvento creando disagio e solitudine. Sono i giovani della Generazione N (come Narciso) che lo psicanalista Gustavo Pietropolli Charmet descrive in Fragile e spavaldo (Laterza, da settembre in libreria), un ritratto della nuova adolescenza che verrà presentato il 29 agosto al Festival della Mente di Sarzana. «Narciso», dice Pietropolli Charmet «è cresciuto in un ambiente dove le regole non sono universali ma vengono decise famiglia per famiglia e dove la cosa più importante è la realizzazione della propria creatività». A lui si contrappone il vecchio Edipo, «figlio del sistema educativo della colpa che viveva il contrasto continuo tra le regole morali che gli venivano imposte e le pulsioni adolescenziali». E se il problema principale di Edipo era farla franca dai castighi, Narciso corre il rischio di essere umiliato per non riuscire a realizzare gli obiettivi che si era dato durante l’infanzia. «Edipo deve vedersela col sentimento della colpa, Narciso con quello della vergogna».

Quand’è che Edipo ha lasciato il campo a Narciso? «La crisi dell’autorità del padre viene da molto lontano, ma è negli anni Sessanta e Settanta che diventa più evidente. È allora che nasce l’idea che essere un buon genitore significa non tanto tramandare valori ma trasmettere affetto. La coppia decide di mettersi a completo servizio di quel figlio, spesso unico, sul quale si proiettano aspettative di realizzazione e di visibilità sociale. E così appare Narciso, bello, creativo e prodigioso».

Ci sono frasi che possono aiutare a caratterizzare i due modelli di educazione? «A casa, a scuola o in chiesa gli adulti che circondavano Edipo gli dicevano continuamente “taci e ubbidisci”. A Narciso dicono “dimmi chi sei. Balla, canta, esprimiti. Raccontami la tua storia in prima serata”. A Narciso la mamma dice “tu sei molto più importante di me e io do la mia vita affinché tu sia te stesso”».

A chi fa comodo una generazione di Narcisi? «Le aziende si sono accorte che se si riesce a far comprare agli adolescenti un determinato prodotto, dall’abbigliamento alla musica e al cinema, si influenza il mercato complessivo. Fa poi comodo anche ai genitori che sono al lavoro tutto il giorno vedere il proprio figlio che se la cava benissimo anche da solo. Narciso ha meno bisogno di presenza, di ordini e di controlli. È un bambino che nasce molto buono, molto creativo, molto espressivo e va volontariamente verso la società».

Ma anche l’educazione del dialogo crea danni… «Sì, oggi vediamo gli esiti incerti di un’educazione che richiede all’adolescente continui successi. E la volontà di essere visibili ad ogni costo, può anche sfociare in comportamenti socialmente non legittimi. È difficile dire se questo modello crei più o meno danni del “taci e obbedisci”, certo è che in alcune famiglie si respira un clima da stadio nei confronti del successo del figlio piuttosto che un sano appoggio neutrale alla sua autonoma realizzazione».

Peggio la vergogna dei sensi di colpa? «La colpa è sempre legata a un’azione e si può superare chiedendo scusa o accettando un castigo. La vergogna invece, mettendo in dubbio il valore della persona, non è facilmente riparabile. La mortificazione dura nel tempo con la stessa intensità. Per superare questa situazione il percorso è più lungo perché implica il recupero dell’autostima».

Ma qual è il modo in cui si reagisce alla vergogna? «Chi si sente umiliato, o decide di sparire, chiudendosi in casa, o si vendica. Ci sono adolescenti che meditano per mesi la vendetta contro la professoressa o contro una ragazza che li ha traditi. Non trovano pace finché chi ha inflitto loro un’umiliazione non l’ha pagata cara».

Perché Narciso si riempie di tatuaggi, piercing e cicatrici? «Perché ha bisogno di comunicare socialmente chi è e che cosa vuole. Nel momento in cui adotta una moda, anche massificata come il piercing, ha l’impressione di differenziarsi, di portare sulla superficie del corpo un contenuto interno leggibile da chi condivide i suoi stessi codici. La tendenza di questa nuova generazione a manipolare anche violentemente il corpo ha alcuni aspetti molto espressivi e altri che sono segno di un disagio e di una nuova complicazione».

Quale? «Il rifiuto del corpo naturale. È il caso del dimagrimento eccessivo delle ragazzine che decidono così di conquistare una fisicità che esprima indipendenza e autonomia dal cibo e dalla mamma. Ed è il caso degli adolescenti che potenziano i loro muscoli con estrogeni e sostanze dopanti. Tutte manipolazioni violente che impongono al corpo di parlare e di soffrire. Lo usano come una lavagna su cui scrivere il proprio nome d’arte e su cui sbandierare la propria sofferenza».

Questa Generazione N esisterebbe anche senza YouTube? «La visibilità sociale è uno degli obiettivi specifici della generazione di Narciso. Mettere il proprio video a disposizione del mondo intero evidenzia il bisogno di parlare in prima persona, di essere nello schermo e non davanti ad esso. Edipo non potrebbe mai parlare di sé, della propria sessualità, dei conflitti con i genitori. Narciso è invece spudorato e ha bisogno di raccontarsi, di esibirsi, di diventare famoso. Tutta l’enfasi sul bullismo, sulla delinquenza minorile, sulle violenze del branco mi pare però eccessiva. Le aree di disagio sono più limitate di quanto si è indotti a credere».

Un consiglio a Narciso per soffrire meno? «Fare un inventario serio di ciò che davvero sente essere la sua verità e la sua missione, rifiutando le aspettative che si sono insediate nella sua mente, ma che vengono dall’esterno. L’importante è portare avanti il proprio progetto originario».

E ai suoi genitori? «Devono capire che non funziona più la pretesa di essere rispettati e obbediti senza fare nulla per meritarselo. Di fronte all’incompetenza di certi adulti i ragazzi hanno buoni motivi per dire “chi l’ha detto che bisogna fare così?”».

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Giuliano Ladolfi su: L’Avvenire (08/08/2009)
Leggo con grande interesse, e con un preciso desiderio di apprendere, gli studi di psicologia adolescenziale, perché mi aiutano nel lavoro di educatore a contatto con più di mille studenti. E se poi chi scrive presenta l’autorità e l’esperienza di Gustavo Pietropolli Charmet («Fragile e spavaldo. Ritratto dell’adolescente di oggi», Roma-Bari, Laterza 2009), il confronto con la realtà in cui opero si presenta immediata e continua. Eppure durante la lettura, nel riflettere sul discorso dello psicologo, aumentava la consapevolezza che il ritratto da lui delineato si poneva in antitesi con la realtà da me vissuta quotidianamente nei colloqui e nelle relazioni con l’adolescente contemporaneo.
Senza dubbio condivido molte parti di carattere generale, come quelle riguardanti il bisogno di ricerca di identità, la crisi della personalità, il cambiamento del rapporto con l’adulto, come pure la constatazione della diversità del percorso adolescenziale odierno rispetto alla generazione precedente. Tuttavia il modello del «Narciso» non corrisponde alla totalità della mia esperienza. Non sono all’oscuro che il comportamento identificativo-sentimentale dei genitori rispetto all’atteggiamento precedente di carattere educativo abbia accresciuto una tale componente, del resto caratteristica di quell’età, ma questo non ne ricostruisce l’intero perimetro psicologico.
Quotidianamente mi trovo a lavorare con adolescenti seri, determinati, generosi, altruisti, capaci di vivere e di richiedere autenticità e coerenza, desiderosi di condividere con gli adulti un progetto educativo, impegnati nel volontariato, creativi, in grado di comunicare entusiasmo, nonostante la loro timidezza, la loro sensibilità, la loro debolezza di fondo, alla loro fragilità psicologica, la loro difficoltà di gestire la responsabilità connessa con l’autonomia e la libertà.
Mi sono allora domandato dove vada cercata la diversità di esperienza. Nella certezza della relatività della mia conoscenza (difficilmente mi confronto con casi-limite), ho riscontrato in questo lavoro, frutto «della lunga e simpatetica esplorazione del mondo dell’adolescenza», un’impostazione «iatratica» (mi si conceda la coniazione del neologismo «iatrite», cioè «malattia del medico») che consiste nell’elaborare modelli tratti dalla patologia e nell’applicarli all’intera società o ad una precisa categoria. Questa pratica risale a Freud, il quale, dopo aver ideato la psicanalisi come terapia, ne ha esteso le problematiche allo sviluppo di ogni individuo.
Pur nella consapevolezza che ogni modello interpretativo è limitato e parziale, sono convinto che esistono gerarchie di modelli e assumere quello patologico per una descrizione universale e necessaria appare rischioso e spesso deviante. Non è un caso, infatti, che l’opinione comune, ripresa dai mass media, dai divulgatori e dai teorici puri, diventi patrimonio generale e induca a ritenere, per limitarci a questo caso, che tutti gli adolescenti siano unicamente «spavaldi e fragili».
L’effetto «riflettore», proprio del mondo della comunicazione, che seleziona il reale in base a criteri eccessivamente semplificatori, non aiuti gli educatori (genitori, insegnanti, sacerdoti, allenatori ecc.) a guardare con realismo alla complessità di un mondo estremamente ricco di potenzialità ideali, che, se condivise con fiducia, aiutano a formare una personalità equilibrata e ricca di valori umani.

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Camilla Tagliabue su: Il Sole – 24 ore (08/11/2009)
0gni tre secondi nel mondo muore un bambino con meno di 5 anni: 24.000 vittime al giorno, quasi 9 milioni all’anno. È questo il bilancio a vent’anni dalla Convenzione sui diritti dell’infanzia, approvata dall’Onu il 20 novembre 1989 e ratificata da 193 paesi a eccezione di Stati Uniti e Somalia. Lontani dal garantire il primo e fondamentale diritto alla vita, gli stati si sono posti il più modesto obiettivo (Millennium Development Goal 4) di ridurre di due terzi la mortalità infantile: per Save the Children sarà raggiunto nel 2045 anziché nel 2015. Eppure il cambiamento è possibile, basti pensare che nel 1900 in Gran Bretagna morivano 140 bambini su mille, molti più che nell’attuale Liberia. Il diritto all’istruzione, poi, è ostacolato dallo sfruttamento del lavoro minorile e quasi nulla è, in molti paesi, la tutela dell’incolumità fisica e psicologica: subiscono violenza, ad esempio, il 95% dei bambini in Palestina, il 94 nello Yemen e il 92 in Sierra Leone, Camerun ed Egitto (che detiene pure l’infelice primato delle mutilazioni genitali femminili).
Le proporzioni del fenomeno sono enormi: la popolazione mondiale sotto i 18 anni è di oltre 2 miliardi, di cui 1,9 nei paesi in via di sviluppo, 0,4 in quelli meno sviluppati e 0,2 in quelli industrializzati. Anche in questi persistono ingiustizie, specie nei confronti dei minori immigrati. È quanto emerge da due report di Human Rights Watch e uno di Unicef: i primi (Lost in transit e No Refuge) denunciano i maltrattamenti dei piccoli migranti in Francia e Grecia, il secondo analizza la loro condizione di vita in otto paesi Ocse, tra cui l’Italia. Qui, il loro numero è quadruplicato in 10 anni (nel 2007 erano circa 660.000): il 22% vive in famiglie a rischio povertà e 3 su 5 abitano case sovraffollate. A causa soprattutto della scarsa scolarizzazione, possibilità e settori d’impiego sono quantitativamente e qualitativamente inferiori ai coetanei italiani. E questi come stanno?
Tenta di rispondere il bel libro dello psicoanalista Gustavo Pietropolli Charmet. Fragile e spavaldo, l’adolescente italiano non è più Edipo, schiacciato tra senso di colpa e castigo, ma Narciso, innamorato di sé, incurante del mondo, vocato alla realizzazione della propria identità e bellezza. «Ha bisogno di vedere riflessa la propria immagine nello specchio sociale, nel consenso del gruppo»: questa la debolezza di chi considera l’altro un «fan» e «ha la certezza di avere diritto» al successo e alla visibilità. Non contesta la scuola, la politica, le istituzioni perché non dà loro alcuna importanza, avendoli svuotati di senso e ruolo; non trasgredisce, ma distrugge le relazioni che gli causano dipendenza e si vendica contro chi l’ha umiliato: inversamente proporzionale alla fragilità, come per il diamante, è la sua durezza. È stata in buona parte l’educazione a trasformare Edipo in Narciso: dalle ceneri del «perverso polimorfo» è risorto il «cucciolo d’oro» di mamma e papà, che chiede obbedienza per amore e non per paura. Corteggiato anche dalla televisione e dal mercato dei consumi, il nuovo adolescente trionfa ovunque, «sente che può liberamente dedicarsi al culto del sé». All’etica preferisce l’estetica, a costo di manipolare il corpo al limite della morte. L’archetipo ha seducenti richiami filosofici: da un lato, il Narciso marcusiano, eroe della liberazione erotica; dall’altro, il Don Giovanni di Kierkegaard, che rincorre il proprio desiderio sull’orlo di un abisso di noia e disperazione. Anche il ragazzino spudorato e creativo di Pietropolli Charmet rischia di morire, letteralmente, di vergogna e di noia.
Il mondo dell’infanzia si configura così paradossalmente: i più non hanno diritti, alcuni nemmeno alla vita; pochissimi, come nel caso italiano, si ritrovano impacciati nel gestire i propri, lo straordinario potere acquisito, con conseguenze psicologiche e fisiche talvolta gravi. Rimane da chiedersi se per questi sia in corso un’indigestione di libertà o se non si tratti di una nuova e più subdola violazione dei diritti. Già Baudrillard profetizzava il «narcisismo in termini di controllo sociale» e «l’esaltazione della bellezza solo a titolo di sfruttamento».

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dal FESTIVAL DELLA MENTE: La mente adolescente che crea e distrugge (audio e video)

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