CAMMINARSI DENTRO (280): Dare un volto alle cose

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Il volto è l’anima del corpo
LUDWIG WITTGENSTEIN

Finzione suprema o suprema menzogna? Ne converrete con me: più ‘menzogna’ che finzione! Se l’apparenza del volto fosse di per sé veicolo di verità, se dovesse indubitabilmente condurci al cuore della verità, ‘al cospetto’ delll’anima dell’altro, non saremmo già paghi del nostro sguardo? Non saremmo assolutamente certi del nostro ‘vedere’? Non sapremmo già tutto ciò che c’è da sapere?

E se è così – cioè, se siamo sempre sulla soglia, al di qua della Realtà umana dell’altro -, non siete disposti a riconoscere che, pur disponendo di volti, convinti di possedere l’accesso all’anima, in realtà non sappiamo molto di ciò che vorremmo sapere: il Segreto di un’anima, la sua vera natura, l’essenza nascosta?

Non è stupefacente il fatto che siamo protesi a cogliere un’ultima verità, la verità più vera di tutte le altre, come se la superficie delle cose fosse mera parvenza, mai una sostanziale ‘presenza’, ingannevole immagine di altro, che sta ‘dietro’ o ‘sotto’ ciò che appare?

Se pure siamo arrivati a ‘toccare’ qualche volta l’essenza, il cuore della cosa, perché poi continuiamo a cercare, magari ‘la stessa cosa’ che avevamo ‘afferrato’? Perché poi ‘la cosa’ ci sfugge?

Non è forse vero che non ci accontentiamo di quella fugace apparizione, quell’istante estatico, che troppo poco risulta se paragonato al nostro chiedere insistente?

Anche il volto cade sotto la scure del desiderio! Vorremmo appropriarci di un oggetto che oggetto non è, anche se le nostre mani corrono a disegnare la faccia che abbiamo di fronte! Quante volte le dita sapienti hanno percorso gli anfratti e si sono fermati sulle pianure facendosi lieve carezza? Ma le nostre mani conservano forse traccia del ‘possesso’ realizzato? Le nostre mani sono condannate a restare vuote!

E che dire degli occhi, che pure vorrebbero bere insaziati la luce che traspare ogni giorno, a ricordarci un’oltranza che non attingeremo mai? Non vogliamo noi forse sostare per sempre a guardare, perché sappiamo già che quando distoglieremo lo sguardo la cosa non sarà più? Questo è già più umano, più consapevole e umile saggezza di vita.

Quando impareremo a riconoscere che le cose belle, che pure sono per noi – non ci sono negate! -, non ci appartengono per sempre? Più doloroso ancora ammettere che non ci appartengono nemmeno per un giorno, per un’ora!

Cos’è allora il nostro consistere qui e ora, di fronte alla luce, se non un inesausto trascorrere da presenza ad assenza, da apparire a scomparire delle cose? Ciò che si staglia davanti a noi non è mera luce, di cui l’ombra sarebbe solo la ‘negazione’! Siamo impastati di luce e di tenebra. Il nostro apparire è in uno ritrarsi immediato. Siamo l’oscillante presenza che vive solo di memoria e oblio.

La malinconia non è altro che trascinarsi dimentichi della bellezza che pure ci sorrise poco fa. E che cos’è memoria se non la presenza a noi della lunga traccia delle cose, di un profumo che resta nell’aria, di fattezze e di ombre, di schegge vibranti e di tenue penombra, quando non il tuono che sconquassa la superficie e ci spaventa e ci abbatte? e sta lì a ricordarci che non di astratte simmetrie e armonie nascoste e proporzione e misura è fatta la cosa?

E se la cosa è persona, vivente persona, che si avvicina a noi per allontanarsi subito dopo, cosa ci sarà concesso se non che quella presenza si fermi per noi ancora un po’, magari che si installi presso di noi, nella nostra casa, nel nostro cuore, per rendere meno doloroso il tempo della necessaria lontananza, dell’assenza, della mancanza, quando non del distacco o della perdita?

Cosa vive della vivente presenza dell’altro presso di noi oltre alla viva presenza se non avremo imparato a far durare l’incanto dei giorni nei simulacri della nostra mente e nei fantasmi del nostro cuore? se non sentiremo più risuonare una voce, apparire l’immagine viva della creatura, trascorrere davanti a noi file di continuità che valgano a ingannare la Morte e a far durare per sempre un Volto, finalmente?

Cos’è volto, in fondo, se non il mito vivente che ci costruiamo giorno dopo giorno, facendo di una faccia un volto e di un giorno una serie di giorni e dei volti e dei giorni una storia, una biografia, che potremo scrivere solo noi?

A chi chiederemo compassione e conforto per i nostri giorni vuoti, se non avremo creato dal fondo di tutte le cose che ci sono più care luce e ombra, perché è di quest’ultima che vive nascostamente ciò che appare a noi e che non appare mai invano?

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