Il nostro compito

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Martedì 24 gennaio 2012

CAMMINARSI DENTRO (338): Il nostro compito

Che si trat- tasse di mani capaci di sol- levarci al di sopra dell’im- mortale volga- rità umana non c’era al- cun dubbio.
Che quelle mani, poi, fossero più leggere di ali d’angelo era nei nostri voti.
Che addirittura l’anima, librata in volo, potesse riposare finalmente pacificata nella più eterea e impalpabile regione del cielo ci era stato annunciato da viandanti esperti di quelle regioni.
Resta solo il dubbio che si tratti del crepuscolo della sera o del crepuscolo del mattino. Provvederanno, in ogni caso, le ali fornite da tutti coloro che ci amano a lenire il dolore dei nostri dubbi. Abbiamo imparato a non interrogare più il cielo e a sfidarlo con la nostra incredulità. A quelle mani soltanto occorre dire finalmente sì. L’attesa è finita.

Si potrebbe anche dire che per quanto dolorosa sia l’esperienza dell’abbandono va vissuta con dignità, con un sentimento adulto delle cose: non costituisce soltanto una prova di ciò che chiamo ‘esatto sentire’ – cioè della ‘necessità’ di corrispondere con strumenti adeguati alla sfida della realtà – l’accettazione del mero dato di fatto, senza ulteriori tentativi di rilanciare l’illusione che possa esserci concessa un’altra chance. L’elaborazione della nuova condizione non richiede il lavoro della memoria o la cura dei contenuti di pensiero, per intervenire sulle emozioni e trasformarle in altra cosa da quello che sono. Lo stesso sentimento non può essere manipolato a proprio piacimento, dopo aver sentito, cioè percepito le qualità di valore positive di una persona per qualche decennio. Ciò che ha avuto ai nostri occhi pregio non può essere trasformato nel suo contrario, per non soffrire!

Il bello è proprio questo: se prima abbiamo sofferto per non essere stati a lungo ricambiati, ora bisogna soffrire per vivere con dignità e fierezza l’abbandono! Altro non è dato fare. In mancanza di riconoscimenti, non disponiamo di un interlocutore disposto a sostenere ancora la parvenza di dialogo che non c’è più.
Il conflitto permanente e la litigiosità, infatti, non sono la migliore riprova del fatto che nessuna intesa è più possibile? E se ci troviamo di fronte a una intransitabile utopia, perché immaginare che di altro di tratti?
Il beneficio d’inventare non ha più efficacia sull’altro. Metafora e allegoria non funzionano più. Resta lo spirito di litote a sostenere il compito eroico di trasformare la ferita d’amore in punto di innesto per nuove ali, giacché si tratta proprio qui di sollevarsi al di sopra del quotidiano affanno e del vano sproloquiare insieme su ciò che poteva esser fatto e non è stato più fatto da anni. Al culmine dell’incomprensione, niente corrisponde più a ciò che abbiamo vissuto.
In presenza della rinuncia alla metafora, la dura realtà delle cose – quando siamo stati privati della nostra trascendenza nella percezione che l’altro ha di noi – ci vede cosa tra le cose, non più presenza, vera presenza. Nessuna ek-stasis è più possibile.

Il linguaggio deve attenersi scrupolosamente alle mutate condizioni della comunicazione. Se ancora di più occorre inchinarsi di fronte alla realtà, sarà ora per ringraziare del bene ricevuto e fare del lungo addio da consumare un’occasione per non trasformare la gratitudine e la riconoscenza in vuoto rito esteriore: meglio assentarsi allora, abbandonare la scena frettolosamente, per nascondere sentimenti che siano diversi da quelli che vado descrivendo. Perché il sentimento in noi che resta privo del suo ‘oggetto’ non arrivi a misconoscere la realtà del soggetto che vi corrisponde è importante che ‘non tremi il cuore’, che la voce sia ferma, da nulla appannata.

Il turbamento che pure interviene a segnare il venir meno delle file di continuità che ci hanno resi felici può far ondeggiare la nostra mente.
La sensazione – efficacemente descritta da Kafka – di ‘mal di mare in terra ferma’ è ineliminabile. Durerà fin quando è destino che duri.
L’ordine del cuore è scosso dal declino della luce.
La tonalità fondamentale del nostro umore è orientata ormai verso la tetraggine. E non è più la bella malinconia d’amore dei tempi dell’innamoramento e del tempo lungo dell’amore.
Di epicedio si tratta. Non preludio o interludio, ormai! La presenza residuale sulla scena fa parte di quel tipo di eventi che bisogna correttamente interpretare. Mentre ci inchiniamo, dobbiamo indietreggiare, come fa accortamente l’attore sulla scena, che ripetutamente si affaccia a ringraziare, per guadagnare ogni volta l’uscita di scena all’indietro. Con passi misurati e aggraziati, come si addice a chi lungamente ha occupato la scena stessa.
Resta l’eco degli applausi a frastornare ancora un po’ l’interprete, fino a che anche quell’eco si sarà spenta e le luci gli indicheranno invano la platea ormai vuota.


 

Devi saperti immergere, devi imparare,
un giorno è gioia e un altro giorno obbrobrio,
non desistere, andartene non puoi
quando è mancata all’ora la sua luce.

Durare, aspettare, ora giù a fondo,
ora sommerso ed ora ammutolito,
strana legge, non sono faville,
non soltanto – guardati attorno:

la natura vuol fare le sue ciliegie
anche con pochi bocci in aprile
le sue merci di frutta le conserva
tacitamente fino agli anni buoni.

Nessuno sa dove si nutrono le gemme,
nessuno sa se mai la corolla fiorisca –
durare, aspettare, concedersi,
oscurarsi, invecchiare, aprèslude.

GOTTFRIED BENN


 

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