La fragilità del bene.




Mercoledì 14 gennaio 2009

CAMMINARSI DENTRO (35): La fragilità del bene

Harlan Sewall

Tu non comprendesti mai, o Sconosciuto,
perché abbia ripagato
la tua devota amicizia e i tuoi delicati servigi
dapprima con ringraziamenti via via più rari,
poi col graduale sottrarmi alla tua presenza
in modo da non dover essere costretto a ringraziarti,
e poi col silenzio che seguì alla nostra
separazione estrema.
Tu avevi curato la mia anima malata. Ma per curarla
conoscesti il mio male, penetrasti il mio segreto,
ed è perciò che fuggii da te.
Perché mentre, riemergendo da un dolore del corpo,
noi baciamo in eterno le vigili mani
che ci han dato l’assenzio, pur rabbrividendo
se pensiamo all’assenzio,
la cura di un’anima è tutt’altra cosa,
perché allora vorremmo cancellar dal ricordo
le parole tenere, gli occhi indaganti,
e restare per sempre dimentichi
non tanto del dolore,
quanto della mano che lo ha risanato.

Da EDGAR LEE MASTERS, Antologia di Spoon River

Sappiamo tutto del Male. Si potrebbe dire che di esso è impastata la nostra vita. Ne facciamo quotidiana esperienza. Ci lamentiamo spesso, e dolorosamente, del fatto che esso entri nella nostra anima con la lettura del giornale al mattino e con i notiziari televisivi, giacché occupa per intero lo spazio della scena: non accade altro. Solo ‘cattive’ notizie.
Quante volte abbiamo dovuto tollerare la stampa locale che ha sbattuto in prima pagina la foto di uno dei nostri ragazzi, in quegli atteggiamenti che apparentano la persona al criminale incallito o riverso nella macchina nella quale avrà conosciuto per l’ultima volta la felicità del piacere solitario?
Ci siamo ribellati all’idea che l’opinione pubblica è morbosa, è attratta dal Male, se ne nutre quasi. E’ soddisfatta di sapere che un tossicomane sia morto. Vuole vederlo con la siringa nel braccio. Deve sapere che questa è la scienza di quella regione dell’essere. Chiede notizie della famiglia. Istituisce rapporti di causa ed effetto tra un padre disoccupato o alcolista e il figlio morto tragicamente. Non ha dubbi sul fatto che la colpa sia della scuola, che non si prese cura di lui. Una fidanzata che lo lasciò è colpevole, se se ne ha notizia. L’antologia del Male è fatta dei mille sentimenti con i quali crocifiggiamo il mondo, condannandolo alla sua debolezza irrimediabile. Nessuna compassione. Nessuna medesimezza umana. Tra noi, gli spettatori, e l’altro c’è un abisso che ci separa.

Allo spettacolo ripetuto infinite volte della cronaca non abbiamo dovuto opporre ogni volta che la realtà è altro, che c’è del buono in noi, che ci accade di fare del bene, che ci sono persone buone al mondo, che la scuola è bella, che esistono i bambini…? Abbiamo enumerato episodi importanti, passando in rassegna le cose che avremmo voluto che facessero cronaca.  Abbiamo concluso sconsolati che il Bene non fa notizia.

In una provincia dell’uomo che provvediamo ad arredare faticosamente di buone azioni si nascondono i piccoli gesti eroici generati dai nostri sacrifici, dalle nostre rinunce, dalla perfezione morale raccomandata dai Vangeli. Passa del tutto inosservato il fatto che i bambini sono innocenti.
Lo sconfinato lavoro paziente che fa la scuola, nel tentativo ininterrotto di insegnare tutto a tutti, è ignorato. La fatica di Sisifo degli insegnanti è sconosciuta ai più. I maestri di bullismo protagonisti assoluti della scena politica non hanno mai di mira l’educazione delle menti dei giovani, il rispetto della loro crescita morale. Il messaggio è sempre lo stesso: qui si gioca a chi sputa più lontano. La cooperazione educativa, l’apprendimento cooperativo, il tutoring debbono essere insegnati da Psicologi esterni, per quanto grande è la devastazione delle coscienze e la corruzione delle professioni, ad opera dell’ideologia dominante. Non è indispensabile il programma del divide et impera dei Dirigenti più malvagi: provvediamo noi a dividerci su tutto. E’ importante che ognuno di noi sospetti delle intenzioni dell’altro, che provveda a nascondere quello che fa di buono, per metterlo al riparo dalle critiche malevole di chi non vede se non difetti nell’operare quotidiano.

Eppure, la scuola vive. La famiglia vive. L’amicizia riscalda la nostra vita. Gli oranti si raccolgono nelle Chiese deserte a volte, per dialogare con il Cielo. Passando nelle vicinanze del tempio, si sente dolcissimo il canto corale che scandisce i riti con i ritmi gioiosi del ringraziamento. I padri si chinano sulle fatiche dei figli distratti, provvedendo alle necessità della vita, senza nulla chiedere per sé. Le madri vegliano da millenni sul sonno agitato dei piccoli. I ragazzi innamorati continuano ad amarsi in piedi. «Ci sono cose / che si nascondono agli occhi della gente / e si odono piangere sommessamente…». Possiamo riprendere a dire “i poveri”, anche se la sociologia non sarà d’accordo.

Usciremo sicuramente impoveriti moralmente dalla crisi finanziaria che distrugge economia e società: i teppisti che controllano il mondo non molleranno la presa. E’ sempre valido il motto: “i poveri la pagheranno cara”. I sindaci del nostro misero Paese decretano che i barboni non hanno il diritto di dormire nelle stazioni ferroviarie. La ferocia con la quale i teppisti che governano si accaniscono contro i poveri supera gli orrori della guerra e gli stermini di massa. Ogni giorno bisognerebbe dire: un altro clochard è stato sterminato, perché c’è chi va quotidianamente alla guerra contro i poveri.

Ma siamo partiti con l’intenzione di parlare del Bene! Perché siamo sospinti sempre di nuovo a dire il Male? Da Platone a Edward Moore è stata proclamata l’ineffabilità del Bene, certo. Eppure, la vita buona è voluta dall’uomo. Nelle organizzazioni e nelle istituzioni, come nelle relazioni informali, passano principi costruttivi che contribuiscono a edificare e a conservare la vita!

Tutti i nostri dilemmi si spiegano forse con il paradosso più grande dell’esperienza: la fragilità del Bene. Ho sentito usare la prima volta queste parole dalla filosofa comunitarista americana Martha Nussbaum, che nel 1986 dedicò all’argomento un’opera di 856 pagine: “La fragilità del bene. Fortuna ed etica nella tragedia e nella filosofia greca”. La Casa editrice Il Mulino, che la pubblicò nel 2004, presenta così il suo contenuto:

Fin dal V secolo avanti Cristo i greci furono consapevoli del fatto che non è sufficiente, per l’uomo, proporsi un ideale di vita “buona”, fissare una tavola di valori immutabili, precisare l’idea di bene o virtù: valori e ideali devono infatti venire a patti con la “fortuna”, ossia con ciò che non è nostro, che non abbiamo deciso noi. E’ a questa commistione tra ciò che ci appartiene e ciò di cui è proprietario il mondo, tra ambizione virtuosa e vulnerabilità alla sorte, che guarda Nussbaum, rileggendo la tradizione tragica (Sofocle, Eschilo, Euripide) e filosofica (Platone, Aristotele). Sulla scia di Aristotele, l’autrice suggerisce che ciò che rischia di contaminare la purezza della virtù e della ragione – impulsi inconsci, passioni incontrollabili – è anche ciò che costituisce la specificità della sfera umana: l’importante è limitare i rischi e arginare il potere della fortuna. Contributo tra i più affascinanti apparsi negli ultimi anni nel campo degli studi classici, questo volume va oltre i confini dell’antichistica, per inserirsi con forza nel dibattito filosofico contemporaneo sull’azione etica e politica.

Il libro è suddiviso in tre parti. Nella prima viene esaminata la rappresentazione che del ruolo irriducibile della fortuna nella sfera dell’eccellenza umana diedero i grandi tragediografi; nella seconda, attraverso la lettura e l’interpretazione di alcuni dialoghi, viene rielaborato il progetto platonico di sottrarre l’uomo alla volubilità dei propri appetiti e alla precarietà della contingenza; nella terza parte, infine, si analizza il recupero da parte di Aristotele dei beni umani come componenti indispensabili di una vita buona.

Gli sforzi che noi facciamo per affermare il Bene, dunque, sono affidati agli altri. Di essi dispongono gli altri, che possono decidere se accogliere o no, se riconoscere o no, se rispettare o no, se valorizzare o no.
La lezione che ne deriva è grande. Essa ci riconduce inevitabilmente all’idea aristotelica della virtù che è premio a se stessa. Noi possiamo solo sperare e continuare a resistere ai colpi della fortuna. All’insensatezza del mondo opporremo la domanda insistente di felicità, che faremo derivare sempre dalla virtù, più che dal successo e dal consenso dei malvagi.

Harlan Sewall ci svela il senso di un altro paradosso dell’esperienza: l’ingratitudine apparente di chi ha ricevuto aiuto, eppure fugge la mano che si protese verso di lui. Le persone impegnate nelle ‘professioni d’aiuto’ sanno cosa sia ciò di cui parla Harlan. Segretamente costituisce un cruccio per loro. Talvolta si lamentano della durezza di un compito che non trova compenso alcuno nei beneficiari dell’intervento d’aiuto. Si spingono fino a parlare di vera e propria ingratitudine. Vorrebbero una qualche forma di riconoscimento. E’ come a scuola, dove l’insegnante si sente dire sempre dai suoi Colleghi che non bisogna aspettarsi risultati immediati: i ragazzi torneranno a ‘ringraziare’ a distanza di anni, quando si saranno resi conto del bene ricevuto…

Al termine di un importante incontro con i suoi Educatori, alcuni anni fa, don Antonio Mazzi disse accoratamente: «Insegnate ai ragazzi la gratitudine!»
Non ho mai smesso di pensare a quelle parole enigmatiche, per me ancora oscure. Mi chiedo ancora se si debba pensare che l’azione educativa è necessariamente segnata dal silenzio di chi si allontana e ‘ci lascia soli’ a ricordare quanto abbiamo fatto – postulando inutilmente una gratitudine che non viene, per le ragioni illustrate dal testo poetico di Edgar Lee Masters – o se si debba più in generale pensare che ogni azione che contraddistingua la vita buona è segnata dalla fragilità del bene, cioè è interamente affidata ai capricci della fortuna – che rende fragile ogni nostra azione, perché imprevedibile e imperscrutabile nei suoi ‘disegni’.

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