CAMMINARSI DENTRO (38): Il diritto di morire.

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Herman Altman

Ho io seguito la Verità dovunque guidasse,
e affrontato il mondo intiero per una causa,
e difeso il debole contro il forte?
Se lo feci, vorrei essere ricordato fra gli uomini
com’ero conosciuto in vita fra la gente,
e come ero odiato e amato in terra.
Perciò non erigetemi monumenti,
non scolpitemi busti,
ché, pur non diventando un semidio,
la realtà della mia anima non vada perduta,
e i ladri e i bugiardi,
che mi furono nemici e mi sconfissero,
e i figli dei ladri e dei bugiardi
non mi rivendichino affermando davanti al mio busto
che mi erano stati vicini nei giorni della sconfitta.
Non costruitemi monumenti,
che la mia memoria non venga alterata
da menzogna e oppressione.
Non mi si tolga a chi mi amò e ai figli di questi;
io vorrei essere per sempre l’immacolato possesso
di coloro per i quali vissi.

EDGAR LEE MASTERS, Antologia di Spoon River


E’ bello pensare che morrò. Che la mia vita non durerà per sempre, una volta che siano consumate le forze fisiche e mentali, assieme alle ragioni per durare ancora. Io non aspiro all’immortalità. Tutt’al più, ad essere ricordato, ma solo dalle persone dotate di buona memoria, cioè dai soggetti morali che abbiano compreso il senso della mia esistenza: i veri laici, cioè coloro che riconoscono agli altri il diritto di pensare cose diverse da quelle che pensano loro. L’irriducibilità dell’esistenza personale ad ogni ingiunzione ideologica è tutto per me.
Mio padre, che era cattolicissimo, nella sua semplicità, quando ormai poteva solo sopravvivere biologicamente, perché impedito nella maggior parte delle sue funzioni, mi disse un giorno sommessamente: «A che serve, ormai?»  – Si esprimeva dolorosamente e c’era nella sua voce un senso di stanchezza, di noia e di rassegnazione; non di ira contro la vita, che non scopriva ingiusta con lui. Lo diceva a me. Non perché volesse separarsi da me e da tutti coloro che lo amavano e che lui amava. Semplicemente, si era ritrovato a pensare che poteva anche morire, che forse era tempo di morire, che non aveva senso chiedere altro tempo per sé. Non intendeva certo rinunciare a vivere, ma  ormai non aveva più senso la sua vita. Probabilmente, non si sarebbe opposto ad infinite cure, per timore, ma si stava ritrovando di fronte alla fine della sua vita. Egli lo sentiva.

A me accade oggi di pensare – mentre sono ancora in uno stato di salute accettabile – che alcune cose stanno morendo lentamente in me. Non si muore del tutto in un  solo giorno. Non muore tutto in una volta in noi. Si muore lentamente. Lo scorrere del tempo non è senza conseguenze sul funzionamento dell’organismo. Il nostro corpo è certo altra cosa. Come la nostra anima mortale. L’irreversibilità del tempo, tuttavia, è irreversibilità di tutti i processi vitali. Nessuna scienza riporterà mai indietro i nostri orologi interni, né ristabilirà equilibri spezzati per sempre.
Con un ossimoro efficace, tempo fa una grande organizzazione sociale amava rappresentarsi così: declinare crescendo. Questa espressione può essere applicata alla (mia) vita, per significare una crescita morale che prosegue, accompagnata però dal venir meno delle cose più belle. Non starò ad elencarne nessuna, perché non risuoni nelle mie parole l’eco del rimpianto: sono pago. Ho avuto molto dalla vita, fin qui. Non posso indugiare né attardarmi in epoche della vita stessa che abbandonano me: non sono io che abbandono loro!
Al gruppo degli alcolisti di Pontecorvo, che frequento da giugno con mio fratello, uno dei suoi fratelli di sventura ha detto un giorno: «Non sono io che ho abbandonato la sostanza. E’ la sostanza che ha abbandonato me». Parole misteriose ma vere. Nel bene come nel male, è la vita che ci abbandona. Ciò che resta è altra vita, vita da vivere ancora, nei modi possibili, con la dignità che è possibile esibire ancora. Fino a quando ci sarà dignità, cioè fino a quando la vita sia degna di essere vissuta.
Esiste anche una noia della vita. Arrivati a un certo punto, immagino che si provi un senso di stanchezza della vita stessa. Umberto Galimberti scrisse anni fa che l’espressione La vita si è allungata è veramente strana e incomprensibile: si è forse allungata la giovinezza? Si è allungata la virilità? l’età matura? In realtà, si è allungata la vecchiaia! E’ desiderabile una lunga vecchiaia? Non è più saggio pensare che, raggiunta la soglia della vecchiaia, la vita sia in gran parte alle nostre spalle? Cosa c’è da attendere se non un sereno compimento della vita, laddove ‘sereno’ non significa di necessità senza dolori e senza malattie?
Io voglio che nessuno si occupi della mia morte. Le ragioni per parlare così sono tante, molte delle quali di natura politica e religiosa: è nei due ambiti del politico e del religioso che si consumano le violenze più grandi a danno dei singoli. E’ opportuno e doveroso praticare un’uscita di sicurezza, mettendosi al riparo per tempo dall’odio per la libertà personale che avanza implacabile sotto gli stendardi di coloro che uccidono lentamente ogni nostra speranza, in nome di Dio e della propria parte politica.

Un’austera morale laica guida la mia vita almeno da trentaquattro anni, cioè da quando in risposta ad una mia domanda il filosofo marxista Umberto Cerroni – al termine di una conferenza sull’amore da lui tenuta nella mia città – mi indicò, appunto, in un’austera morale laica la risposta ai mali del tempo.
Di fronte alle derive del tempo e alle trasformazioni del costume, sempre più orientato al ‘divertimento’ dalle più autentiche ragioni dell’Esserci, come consistere qui ed ora se non seguendo il proprio demone, mantenendosi nei propri limiti, inchinandosi sempre di fronte alla Realtà umana?
Dell’amore Cerroni proponeva una visione che si ispirasse a quella morale: mi disse che occorre rendersi degni di essere amati. Io l’ho ‘fatto’, non so con quali risultati. Ho parlato a bassa voce, aspettando sulla dura porta, come Emily Dickinson chiama il luogo dell’attesa. Ho gridato quando l’amore non sentiva. Ho taciuto, mentre la vita scivolava via senza che potessi afferrarla. Ho visto nascere e morire creature lungamente amate. Ho ascoltato l’esistenza spezzata, invocando le potenze della terra perché venissero in suo aiuto. Ho imparato a piangere e a contenere il pianto, per proteggere l’anima dall’assalto dell’immortale volgarità umana. E so bene che tutto questo svanirà, «come lacrime nella pioggia». Spero soltanto di poter dire nell’ora che non ha sorelle: Es ist gut, a coronamento di una semplice esistenza, sempre protesa nell’attimo ek-statico, impegnata a cogliere l’impercettibile brusio della vita, che non smetterò mai di ringraziare per il vento e la pioggia, i sorrisi e le carezze ricevute.

Viviamo, Porfirio mio, e confortiamoci insieme: non ricusiamo di portare quella parte che il destino ci ha stabilita dei mali della nostra specie. Sì bene attendiamo a tenerci compagnia l’un l’altro; e andiamoci incoraggiando, e dando mano e soccorso scambievolmente; per compiere nel miglior modo questa fatica della vita. La quale senza alcun fallo sarà breve. E quando la morte verrà, allora non ci dorremo: e anche in questo ultimo tempo gli amici e i compagni  ci conforteranno: e ci rallegrerà il pensiero che, poi che saremo spenti, essi molte volte ci ricorderanno, e ci ameranno ancora. GIACOMO LEOPARDI, Dialogo di Plotino e di Porfirio.

E’ bello sapere che morrò, almeno per una ragione: so bene che non dispererò di me; non chiederò altro tempo per me: sarò impegnato a ringraziare per il bene ricevuto, dunque a sperare ancora.

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