Onorare, custodire e ricordare con il canto.

Alla fine della Messa celebrata in onore di Pina De Marco, nella Chiesa Massimiliano Kolbe di Jesi, oggi pomeriggio è risuonata la voce di suo marito Piero, che ha intonato da solo una canzone dolcissima per lei. La sua voce è stata ferma fino alla fine, mai incrinata dalla commozione. Dolce e serena, come si addice a un amore che si afferma oltre ogni prova.

In tanti anni di vita ho visto e sentito tanto sull’amore, ma non avevo mai sentito un uomo cantare di fronte alla bara della sua donna. La commozione più grande è quella che tutti abbiamo provato a sentire lui. Si aggiunge una ‘definizione’, se così si può dire, a quelle che conoscevamo già: amore è cantare la propria canzone d’amore alla propria donna, dopo che sia morta, con l’afflato e l’abbandono con cui si cantò insieme. Viene in mente che il sentimento di Piero è un sentimento adulto, fatto com’è non solo di maschile dedizione e attaccamento.

La cerimonia degli addii può essere celebrata con il pianto e  con la preghiera, con il silenzio e con il coro della Chiesa, con la musica dell’organo e con le voci dei presbiteri e dei fedeli che si alternano alle letture dal pulpito, con i fiori e con l’incenso, ma nessuno forse aveva pensato prima di Piero che si potesse salutare anche con una bella canzone d’amore, certo di tono religioso, ma canto d’amore alla propria donna.

Se l’esperienza del dolore, dalla quale abbiamo appreso ad affrontare la vita e a tentare il governo dei sentimenti, resta la via obbligata per non arretrare e per non soccombere votandosi all’inautenticità, occorre trovare anche la via per dare voce ai sentimenti animici che aspirano a dire ciò che vale per noi oltre la legge del tempo, oltre la condizione mortale, oltre finitudine e angoscia.

Il dialogo dei sopravvissuti con i cari che non ci sono più può efficacemente esprimersi con il canto. Prima della cerimonia funebre, Piero era vicino all’organo a provare la sua canzone con un ragazzo che suonava per lui. Solo dopo abbiamo capito che si stava esercitando per cantare bene alla sua donna. Se la virtù è stata definita da Salvatore Natoli a partire dalla facilità con cui raggiunge il risultato, cioè fa il bene, chi sia allenato a farlo, chi scopre quanto sia facile fare il bene; per arrivare a tanto «ci vuole abilità. In effetti questo è il significato originario della parola areté: virtù. Virtuoso è in primo luogo colui che è dotato di agilità, che sa trarsi fuori dalle difficoltà». Allo stesso modo, diremo che Piero è arrivato a cantare la sua canzone facilmente, giacché l’aveva cantata spesso, si era esercitato ad innalzare il suo canto di ringraziamento al cielo, perché giungesse fino alla sua donna. Già Edgar Lee Masters aveva scritto: Io vorrei dire a questa generazione: / imparate a memoria qualche verso di verità o di bellezza. / Potrebbe servirvi nella vita. Anche noi, forse, dovremmo imparare dal canto a dare voce ai nostri sentimenti più veri, per non ritrovarci impreparati un giorno, quando volessimo esprimere nella maniera più alta il significato che ha avuto per noi chi non c’è più.

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