CAMMINARSI DENTRO (147): La grana del ricordo.

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Ci accade di pensare, negli istanti supremi in cui la vita cambia all’improvviso, che andrebbe fermato il tempo, per riuscire a fermare con esso i nostri palpiti. Ci accade sempre di pensare che se non scriveremo in quegli istanti, non ci riusciremo più: non riusciremo, in seguito, a dare voce ai fatti e ai volti, ma soprattutto alle voci che si levarono a dire un’istanza del cuore, un sussulto, un ansito breve. Nel ricordo di persone che abbiamo lungamente amato non confluiscono mille ricordi: non ci accade di ricordare mille cose. E’ come se ci fosse concesso di conservare un solo esempio, solo qualche scarso  frammento di esistenze con cui abbiamo convissuto anche per decenni! Resta la voce.

Ed io ricordo bene la voce di mio padre. E ricordo la voce di mia madre. Di questo sono fatti tutti i ricordi possibili, oggi.


Stamattina, mentre facevo una lunga fila all’Ufficio delle Poste, tenevo aperto Dove lei non è, il diario scritto da Roland Barthes a partire dal giorno della morte di sua madre. Mi ha colpito subito quanto gli accadeva di pensare a proposito della voce di lei.

29 ottobre [il giorno dopo la morte di sua madre] – Cosa bizzarra, la sua voce che conoscevo così bene, di cui si dice che è la grana stessa del ricordo (“la cara inflessione…”), non riesco a sentirla. Come una sordità localizzata… – ROLAND BARTHES, Dove lei non è

Nel 1981 le Éditions du Seuil pubblicano La grain de la voix (La grana della voce, Einaudi 1986) che contiene tutte le interviste rilasciate da Roland Barthes nel corso del tempo. Se manca un’intervista sulla natura dell’intervista, l’Autore non rinuncia ad analizzare il passaggio dalla parola detta alla parola trascritta, per consentire al lettore di valutare meglio ciò che lega e separa, “dallo stiletto di questa scrittura”, la grana di quella voce.

In primo luogo perdiamo, è evidente, un’innocenza. Non che il parlato sia di per sé fresco, naturale, spontaneo, veridico, espressivo di una sorta di interiorità pura; tutt’altro, il nostro parlato (soprattutto in pubblico) è immediatamente teatrale, deriva i suoi giri e i suoi tiri (nel senso stilistico e ludico dei termini) da tutto un insieme di codici culturali e oratori: il parlato è sempre tattico; ma passando allo scritto cancelliamo proprio l’innocenza di questa tattica, percepibile a chi sa ascoltare come altri sanno leggere; l’innocenza è sempre esposta; riscrivendo quello che abbiamo detto, ci proteggiamo, ci sorvegliamo, ci censuriamo, depenniamo le nostre sciocchezze, le nostre sufficienze (o insufficienze), le nostre esitazioni, le nostre ignoranze, i nostri compiacimenti, a volte perfino le nostre pannes (perché, parlando, non dovremmo avere il diritto, su un dato argomento proposto dal nostro partner, di restare a secco?), insomma, tutta la marezzatura del nostro immaginario, il gioco personale del nostro io; il parlato è pericoloso perché è immediato e non si può riprendere (salvo non si supplementi di una ripresa esplicita); la scrizione, invece, ha tempo davanti a sé; ha proprio quel tempo che occorre per girare sette volte la lingua in bocca (mai consiglio proverbiale è stato più illusorio); scrivendo ciò che abbiamo detto, perdiamo (o conserviamo) tutto ciò che divide l’isteria dalla paranoia. […] – pp.3-4

Quello che mi ritrovo a custodire ancora e che risuona sempre dentro di me, a dispetto del tempo trascorso, è proprio la voce di mia madre e, non meno cara a me, la voce di mio padre.

Il mio piccolo cuore tremava sempre al suono della loro voce, anche quando ormai ero adulto e vivevo lontano da loro. Delle cose che nessuno ci potrà strappare mai e che ci salvano dall’immortale volgarità umana è, forse, proprio quello che Barthes chiama «grana della voce», la «grana del ricordo». Egli non poteva trovare termine più appropriato per indicare, tra i tanti invisibilia, quello che più di tutti è palpabile, che riusciamo quasi a toccare. Questa ‘presenza’ dentro di me, che concorre a fare la mia forza di adulto, appartiene alla schiera di quelle che sono state chiamate «vere presenze» (G.Steiner): con i fantasmi che ci accompagnano è sempre aperto il dialogo muto. Non smettiamo mai di parlare loro, per non rinunciare mai al privilegio di sentire ancora la loro voce.

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