CAMMINARSI DENTRO (154): La mia solitudine

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Queste parole mi sono venute in mente dopo aver letto quello che Duccio Demetrio dice delle solitudini maschili. Mentre prosegue lo studio della sua opera, mi domando di cosa sia fatta la mia solitudine e fino a che punto io possa parlare di essa. Sicuramente, nessuno conoscerà mai il Segreto, l’Inconfessabile per eccellenza di tutta la mia vita. Nemmeno dirò i segreti che tormentano la mia coscienza, l’Irreparabile, l’Imperdonabile, l’Irredimibile che si è accampato nella coscienza e non accenna a volersene andare. La memoria dell’offesa arrecata ad altri non può essere ‘curata’ chiedendo ‘semplicemente’ perdono. Soprattutto quando si tratti dei morti. Essi non perdonano! Il lungo cammino di ‘espiazione’ non conosce, per questo, approdi. Senza la possibilità di risarcire gli altri, ciò che non si può dire deve rimanere sepolto in fondo al cuore e lì giacere per sempre, monito perenne e voce della colpa immemoriale, ormai.

Ho scoperto la grandezza della mia solitudine dieci anni fa, durante l’esperienza dell’infarto e di quello che ne seguì. Compresi allora quanto siamo soli durante una lunga malattia. Da quest’ultima arrivai a comprendere meglio le altre solitudini che costellavano ormai la mia vita: l’assenza del calore dell’amicizia, l’incolmabile distanza tra uomini e donne nell’amore, la debole reciprocità in tutte le forme d’amore, l’impossibilità di sperimentare la fraternità tra gli Educatori, l’isolamento a cui sono condannate le persone oneste, la viltà dei Colleghi di lavoro e non solo di essi di fronte al potere…

Non ho mai avuto paura di essa, però. Un vecchio Collega amava ripetermi negli anni di scuola: «Beata solitudo, sola beatitudo» (Beata solitudine, la sola beatitudine). Beatitudo significa anche felicità. E questo mi portava spesso a chiedermi, in passato, se non dovessi ricavare dalla necessaria solitudine che ricevevo in dono dalla sorte motivo di contentezza, addirittura di felicità. Se quella solitudine era la condizione in cui si ritrovava chi avesse scelto una vita virtuosa, cos’altro assegnare alla vita buona se non il riconoscimento che il premio della virtù era la virtù stessa e che questo solo era felicità?

Mentre imparavo a morire, avevo già imparato a vivere, grazie ad esercizi spirituali che praticavo da sempre: dentro lo spazio della coscienza, camminavo e camminando camminai, cioè mi resi conto di essere in cammino. In realtà, la mia vita non è stata altro. Ho sempre temuto il silenzio della stasi spirituale. Perennemente in esodo dalle mie ragioni private, ho cercato di adeguare il ritmo della mia vita individuale al ritmo della vita universale. A questo avevo già dato il nome di felicità. Sentirmi uomo e non semplicemente individuo, maschio, cittadino… Ho imparato con Agamben a dire singolo. Oggi dico solo persona.

Mi accade ancora di sentirmi dire – ad esempio, nel Centro di ascolto in cui mi accade di parlare alle famiglie il mercoledì – che gli altri non capiscono quello che dico! Mi viene in mente un’espressione tragica di Cacciari che nel 1974 scriveva che certe cose potevano essere comprese solo da chi le aveva pensate già. E poi, in un’opera ardua di quegli anni aggiungeva che gli risultava oscuro quanto dicevano coloro i quali lo accusavano di oscurità.

Wolfgang Goethe era convinto del fatto che quello che un adulto sa di meglio non può dirlo ai suoi alunni! Io, invece, ho detto ai miei alunni tutto quello che sapevo della vita.

Ciò che resta è calma e silenzio. Segno evidente di una coscienza pacificata, a dispetto dei segreti che ognuno di noi ha da custodire gelosamente, per impedire gli assalti dell’immortale volgarità umana. La beatitudine più grande è quella che deriva dal fatto di sapere che l’anima non ha finestre. Eppure, essa, come la lettera rubata, sta lì spalancata inutilmente davanti agli occhi di tutti.

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