PENSARE E SCRIVERE (6): Val più la pratica

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Lunedì, 21 febbraio 2011

LUISA CARRADA, Per il neo-crusc che è in noi

LUISA CARRADA, E alla fine, apporre un sigillo

Sarà anche vero, come dicono in tanti, che l’italiano si sta imbarbarendo, che gli incolti lo inquinano, che l’inglese lo corrompe, che i giornali lo sviliscono e la televisione lo umilia, ma non c’è al mondo esercito più feroce e agguerrito di quello che presidia a colpi di penna rossa la frontiera che separa l’italiano ‘buono’ da quello ‘cattivo’. Se insegnanti intransigenti e maestrini puntigliosi vi hanno ormai convinto che la Grammatica è un affare polveroso, questo libro vi farà cambiare idea una volta per tutte.


«La grammatica può essere anche un oggetto di piacevole lettura, quando il grammatico si diverte ad abbattere i pregiudizi che circolano nelle opinioni correnti; e quando, come Andrea De Benedetti, lo fa con un brio che non intacca mai il rigore dell’argomentazione.» Luca Serianni

«Ditemi pure che sono strano, ma a me da piccolo la grammatica piaceva da morire. Mi piaceva scrivere paginate di coniugazioni verbali, classificare le parole in articoli, avverbi e congiunzioni, come altri bambini più sani di me facevano con le farfalle o i fossili. Poi arrivarono le scuole superiori, un’altra età e un’altra grammatica, tutta analisi logica e prescrizioni spesso incoerenti e immotivate. Mi avevano assicurato che le frasi erano sempre dotate almeno di un soggetto e di un verbo, ma io trovavo in continuazione enunciati orfani di mamma o papà. Mi avevano spiegato che il soggetto ‘fa l’azione’, ma io lo vedevo spesso subire inerme i colpi impietosi di verbi come ‘cadere’, ‘soffrire’ o ‘essere picchiato’. Mi avevano insomma fatto capire che la grammatica aveva una risposta per tutto, ma quando avevo qualcosa da domandarle mi sembrava che lei per prima avesse le idee piuttosto confuse.»

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Indice

Introduzione
– 1. Totem e tabù
– 2. Senza «e» e senza «ma»
– 3. In principio era il soggetto
– 4. Dislocazione fatale
– 5. Ora pro nomi
– 6. (Non) c’è di «che»
– 7. La congiuntura del congiuntivo
– 8. Puntini di vista
– 9. Ripetere, ripetere, ripetere
– 10. Trappole per Trap
– 11. Cose che capitano
– 12. Dove ti porta il predicato
– 13. Il complemento di fine e la fine dei complementi
– 14. Minima immoralia
– Ringraziamenti
– Indice dei nomi
– Indice degli argomenti

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Leggi un brano

Dunque, dove eravamo? Ah, sì: non si possono iniziare i discorsi con «dunque». A meno che «dunque» non chiosi un discorso precedente. A meno che non serva a rimettere in fila le idee e a farle rigare dritto. A meno che per qualche ragione non risulti utile impiegarlo prima di arrivare al dunque. In tutti questi casi, che a questo punto non sono più l’eccezione ma la maggioranza, il «dunque» iniziale è perfettamente lecito.

A proposito di incipit: avete fatto caso che dall’inizio di questo capitolo non ho ancora incominciato una frase col soggetto? Una volta ho esordito con un’interiezione («ah»), tre volte con la congiunzione «a meno che», una con un complemento preposizionale («in tutti questi casi»), una con «a proposito» e una, per puro e semplice spirito di contraddizione, con il famigerato «dunque». Eppure, quando ti spiega come è fatta una frase, il neo-crusc recita: «La frase inizia con il soggetto, poi viene il verbo e infine il complemento oggetto».

Anche i linguisti, per la verità, dicono una cosa del genere, e cioè che l’italiano appartiene alla tipologia SVO (acronimo che indica appunto Soggetto, Verbo e Oggetto), ma così come è formulato dal maestro – ne converrete – il principio imbarca acqua da tutti i commi. Sorvoliamo per il momento sul fatto che non tutti i verbi portano per forza in dote un complemento oggetto. Dimentichiamo per un attimo che il soggetto ha tutto il diritto, se lo ritiene, di sottrarsi al matrimonio con il verbo, soprattutto se questo è un single impenitente come «piovere» o «nevicare». Tralasciamo anche di approfondire la questione se il verbo, fermo restando che è lui in casa a portare i pantaloni, sia così indispensabile nell’economia domestica.

La faccenda, qui, riguarda in primo luogo lo stile. Si racconta di un celebre direttore di giornale che un bel giorno così apostrofò un redattore neo-assunto che aveva osato infrangere l’aurea norma di cui sopra: «Quando scrive un articolo – disse – si ricordi: ogni frase comincia col soggetto, poi viene il predicato verbale, poi vengono i complementi. Punto, e si ricomincia. Se vuole inserire nella frase un aggettivo, venga prima nel mio ufficio e mi chieda il permesso».

Ebbene, provate a scriverlo, un articolo così. Provate a scriverlo e soprattutto provate a rileggerlo: dopo il terzo capoverso non riuscirete più a tenere gli occhi aperti e avrete bisogno di un paio di caffè. Se mi passate il paragone, sarebbe come se in musica non si potesse mai cambiare tema né tempo, come se si proibissero gli accordi dissonanti e i suoni disarmonici, come se si abolissero per decreto il jazz e il reggae.

Ma la questione, oltre che stilistica, è soprattutto pragmatica. Tra parentesi, ma neanche tanto tra parentesi, quando si dice pragmatica, in linguistica, si intende in senso tecnico tutto ciò che riguarda i rapporti tra il contenuto dell’enunciato e le intenzioni del parlante. Che cosa vuol dire? Vuol dire che se un meteorologo, annunciando le previsioni del tempo, dice «c’è molto caldo», è assai probabile che stia facendo una semplice constatazione, ma se a pronunciare la stessa frase è il passeggero di un treno seduto lontano dal finestrino, quello che vuole è che qualcuno glielo apra. Il contenuto dell’enunciato rimane lo stesso, l’intenzione – e quindi il significato – cambia. Intesi? Chiusa parentesi.

E che cosa c’entra tutto questo con soggetto, verbo e complemento? C’entra, c’entra. Provate per esempio a capovolgere l’ordine degli elementi di questo brano tratto dalla rubrica quotidiana di Michele Serra su «Repubblica»: Vedendo al cinema Gomorra mi ha colpito la complessiva bruttezza fisica dei protagonisti, nonché la bruttura ambientale che fa loro da cornice.

Se dovessimo attenerci all’ordine prescritto dal direttore del giornale e risistemare di conseguenza le tessere del puzzle ne uscirebbe una cosa di questo tipo:

La (complessiva) bruttezza (fisica) dei protagonisti, nonché la bruttura (ambientale) che fa loro da cornice, mi ha (hanno?) colpito vedendo al cinema Gomorra.

Ho messo tra parentesi gli aggettivi tanto invisi al direttore, casomai il sant’uomo decidesse di concederci una deroga. E tuttavia, anche lasciandoli al loro posto, resta l’impressione di una casa messa a soqquadro, come se ci fossero appena passati i ladri e avessero rovistato tra i cassetti.

Risultato della rapina, una frase in cui l’argomento principale – il film Gomorra – viene messo in coda, privando il lettore delle coordinate contestuali che lo aiuterebbero subito a capire di che cosa si sta parlando. Non solo: rimescolando gli ingredienti, resta coperto il sapore speziato del giudizio personale, mentre spicca quello, più scipito, dei due sintagmi iniziali («la bruttezza dei protagonisti» e «la bruttura che fa loro da cornice»), che a quel punto vengono serviti quasi come dati intrinseci e oggettivi, in sostanza capovolgendo il senso del messaggio.

Un linguista avrebbe forse da eccepire sulla forma di quello che ho appena detto, non certo sulla sostanza: a reclamare la prima posizione nella frase, spiegherebbe, non è il soggetto come tale, ma – cosa ben diversa – il tema, che qualcuno chiama anche topic, e che con il soggetto non necessariamente coincide.

E il famoso SVO – obietterete – dove lo mettiamo? Non avevamo appena finito di dire che anche i linguisti erano d’accordo sul fatto di dare la precedenza al soggetto? Sì, ma con qualche però. Questo è il primo della serie.

Per il momento facciamo un passo alla volta. Supponiamo che siate al ristorante con un gruppo di amici. Avete appena terminato il dessert e state aspettando il conto: facendo violenza alla vostra celebre taccagneria e occultandola sotto uno strato di spavalda e affettata generosità, sfoderate la vostra carta di credito ed esclamate: «Pago io!». Ovvero: io, e nessun altro. Gli amici ringraziano, commossi e increduli di fronte a cotanto gesto, e non importa se nel pronunciare la vostra offerta vi auguravate che qualcun altro si facesse avanti per rilanciare.

E tuttavia, se invece di «pago io» aveste dichiarato «io pago», adesso non sareste lì a calcolare mentalmente l’entità dei danni arrecati al vostro conto corrente da quell’atto così audace. Dire «io pago» non avrebbe escluso che potessero pagare anche gli altri. Anzi, le implicazioni pragmatiche sottese sarebbero state quasi antitetiche:

a. «io pago» (nel senso che pago la mia parte, voi fate pure come volete);

b. «io pago» (anche se potrei perfettamente non farlo e lasciarvi tutto il conto da saldare).

Ecco cosa capita a cambiare di posto al soggetto: si dicono cose diverse. Non un po’ diverse: molto diverse. In questo caso, se aveste lasciato il soggetto all’inizio dell’enunciato vi sareste risparmiati i soldi di una cena. Posponendolo, vi siete presi un impegno. L’italiano, insomma, non funziona come la matematica, dove si insegna che il risultato non cambia invertendo l’ordine degli addendi. Qui il risultato cambia eccome, e cambia perché il significato di una frase non sempre corrisponde alla somma degli elementi che la compongono. Al contrario, dire «pago io» al ristorante somiglia piuttosto a una sottrazione, nella misura in cui quell’«io» posposto esclude tutti gli altri soggetti che potrebbero venire assegnati alla stessa azione. Un po’ come proclamare «sono stato io» dinanzi a un magistrato, il cui effetto – salvo nel caso di un’autocalunnia – è quello di scagionare automaticamente tutti gli altri possibili indiziati.

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