Tutto ciò che è raccontato prende vita

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Mercoledì, 23 febbraio 2011

CAMMINARSI DENTRO (178): Tutto ciò che è raccontato prende vita.

Ho impiegato qualche decennio a capirlo ma ci sono arrivato. Delle cose che ci diciamo sulla vita, sul suo significato e sul modo più giusto di viverla, tra necessità di farsi guidare da principi ed esercizio della virtù, è altro che mi appare ora decisivo: se vogliamo che file di continuità si istituiscano nella vita delle nostre relazioni, con qualcuno in particolare, è nella vita della coscienza che bisogna cercare.

Ai miei alunni ho sempre raccomandato di aprirsi al mondo, mostrando attraverso narrazioni le vicissitudini della coscienza. Finalmente, cos’altro dovrebbe accadere in una relazione sentimentale degna di questo nome se non raccontare l’assenza?

Istituire file di continuità vuol dire mettere insieme, tenere insieme ciò che altrimenti andrebbe disperso, continuerebbe a mantenere i caratteri dell’infranto, resterebbe inespresso.

Quando esco di casa, anche per poche ore, rientrando sento il dovere di dire cosa ho fatto fuori di casa. La vita intima, l’insorgere delle emozioni, ogni più piccolo moto dell’anima poi possono diventare oggetto di piccoli racconti. Le epoche più lontane della mia vita, con il paesaggio affettivo che ospitava ogni minimo turbamento, pure meritano una restituzione nella forma della mera rievocazione o della confessione.

Tuttavia l’analisi di situazioni personali e familiari, di fatti giudicati significativi, di incontri mancati o di errori dolorosi produce materiali che richiedono una ‘sistemazione’, che si assegni loro un posto sulla linea del tempo. Il pensiero corre più volte alle cose trascorse; si convince della bontà del suo procedere, quando a distanza di anni e di decenni esse conservano lo stesso significato: non ricordi di copertura, edulcorazioni della realtà o altre astuzie della ragione varranno a fissare il valore di causa di un evento lontano nel tempo.

E’ stato detto che il sogno più grande è finalmente sapere che qualcuno racconterà di noi. Gli psicoterapeuti di tutte le scuole vanno convincendosi del fatto che la cura è costruzione di racconti. Io credo che l’amore sia nel tempo, alla fine dei tempi, quando tutti gli astratti furori si siano consumati, raccontare all’amata la sua favola, dopo averla creata dal fondo di tutte le cose che ci sono più care. Prendersi cura dei suoi pensieri. Custodire il ricordo del bene ricevuto.

Io ricordo ancora con commozione l’attesa di mio padre, che mi chiamava sempre con lo stesso pretesto, per avermi accanto a sé, forse perché sapeva bene che mi sarei fermato a lungo a raccontare. Gli portavo la vita. Senza i miei racconti la sua vita si impoveriva ogni giorno di più: egli non trovava ragioni sufficienti per continuare, senza il calore dei nostri racconti. Quelle file di continuità hanno reso indistruttibile il nostro rapporto. Oltre la sua stessa morte, non ho mai smesso di raccontargli la mia favola, perché la sua esistenza non scivolasse nella dimenticanza, superata la soglia del tempo.

L’insensatezza del mondo e l’esperienza del vuoto che generano il fascino della dissolvenza – il gorgo muto in cui si perdono i nostri ragazzi -, possono essere vinte solo dalle nostre narrazioni. Solo uscendo dal silenzio del cuore riusciremo a dare senso alle loro narrazioni. Se temiamo che si allontanino dalla vita, fino a sfidarla e smarrirne il senso, dobbiamo coltivare la speranza che tutto ciò che è raccontato prende vita.

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