CAMMINARSI DENTRO (179): Dai fantasmi della notte

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Giovedì, 3 marzo 2011

Occorre una buona dose di infelicità, per poter scrivere. Non è indispensabile dichiararla a chiare lettere, né indicarla, sforzandosi di darle un nome. Il mio professore di Greco negli anni di Liceo ci diceva che l’arte nasce dal dolore. Noi non siamo artisti, ma siamo portati oggi ad esprimerci, anche pubblicamente, nelle forme più diverse; per lo più, modestamente, mostrando una parte di noi che pensiamo vera: come se mettessimo a nudo il nostro cuore. Come se tutto quello che scriviamo fosse importante. Giustamente, grandi scrittori come Pessoa hanno dichiarato solennemente di aver compreso con un’illuminazione definitiva di non essere nessuno.

Gli infelici pochi di cui parlava Elsa Morante nella sua poesia hanno qualcosa da dire. Ai felici molti?

L’insidia quotidiana all’esistenza che esiste proviene dalla stupidità criminale che non si riesce a contenere in nessun modo. Ci vorrebbe un amico, come diceva la canzone, non solo per poterti dimenticare. Ci vorrebbe aria fresca, per tornare a vivere paghi del buon vivere.

Pietro Verri nella sua opera, giustamente ignorata dagli Italiani, il Saggio sopra l’origine del piacere e del dolore, afferma che i dolori innominati sono la sorgente di tutte le arti. Non i dolori ineffabili, inesprimibili. Ho sempre pensato che volesse riferirsi proprio a quel fondo della nostra anima in cui si celano le cose più vere, che non possiamo squadernare qui, perché sono come il porto sepolto di Ungaretti: occorre un lavoro di scandaglio anche rischioso, per giungere fino al midollo delle cose, ma soprattutto occorre saper risalire in superficie, restituendo i resti di quel nulla.

Dare voce all’abisso da cui proveniamo non è facile. Soprattutto se non siamo scrittori veri. Nominare la cosa è compito arduo. Alludo agli indecidibili di cui pure è costellata la nostra esistenza. Se diamo ad essi un nome, li facciamo esistere.

Noi siamo lì, all’incrocio di due vie del cuore, incerti se proseguire o abbandonare la strada, attratti come siamo dall’indistinto brulichio della selva sottostante, dove la superficie ovattata delle cose si mantiene sempre uguale. La loro vita è scandita dal tepore del consueto battito quotidiano delle ore. E’ stordimento e per niente estasi questo incerto trascorrere lungo la luce opaca dei giorni. Senza gloria né barlumi di verità. Senza ethos alcuno che riscaldi l’anima, infondendole fiducia e speranza. Si accampano sulla scena solo i mediocri vincitori di una guerra che non ci è mai stato concesso di combattere.

Conosco bene il rimedio: in tutte le cose occorrerebbe ispirarsi a principi, a valori condivisi. Solo così avremmo tutti la sensazione di esistere veramente e non di sognare il sogno del vincitore, come è tipico di tutte le forme di fascismo, non importa quanto cruente.

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