Oggi

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Filosofia significa ancora ricerca della verità. Il cammino della ricerca, che è cammino verso il linguaggio, non è più solo teoria, contemplazione di essenze, padronanza di concetti, costellazioni di idee. Già il mondo antico esprimeva con le Scuole filosofiche un’attitudine alla Filosofia fatta di momenti diversi di esercizio delle facoltà fisiche e spirituali, in cui spiccavano l’astinenza (sessuale e alimentare), l’esame, l’attenzione al nascere e al morire, all’ascolto e al dialogo, alle pratiche ‘terapeutiche’ orientate alla cura e alla trasformazione di sé. Gli esercizi spirituali, infatti, corrispondono a una trasformazione della visione del mondo e a una metamorfosi della personalità. La conversione verso l’interiorità rende l’esercizio come un esercizio morale. La Filosofia si afferma come modo di vivere.

Fare filosofia significa “lavorare i concetti”, arrivare a produrli, partendo da idee e intuizioni; da semplici impressioni e da altri concetti, servendosi anche — a scopo didattico — della modellizzazione dell’esperienza, cioè di rappresentazioni ‘grafiche’ della conoscenza: script, mappe, diagrammi, semplici liste di idee; da testi scientifici e letterari intrisi di pensiero; da testimonianze, scritture di sé, altri testi filosofici sui quali esercitarsi ad argomentare a favore o contro una tesi.

Fare filosofia significa servirsi di concetti per costruire un discorso filosofico che si avvalga degli strumenti dell’argomentazione — induzione, deduzione, abduzione — a sostegno di una tesi: ad esempio, “Senza vergogna non c’è dialogo”, se consideriamo la scoperta recente della presenza di vergogna, pentimento, pudore nel Simposio di Platone. Sapevamo già del mito, come possa stare accanto al discorso filosofico, anzi essere contemplato al suo interno, per sostenere la natura di un sentimento morale o di un principio supremo, come il Bello o il Bene. Di notevole portata appare oggi il riconoscimento della ‘presenza’ di emozioni nel tessuto del dialogo, addirittura di sentimenti che acquisterebbero il valore di momenti fondanti, senza i quali sarebbe difficile immaginare tesi a confronto, riconoscimento dell’errore, accettazione delle ragioni dell’altro.

Fare filosofia significa sollevarsi al di sopra dei propri stati di coscienza, situandosi oltre interessi e fini particolari, per edificare una visione del mondo che restituisca i discorsi attraverso i quali prende corpo una teoria generale, un programma politico e morale, un insieme di principi a cui ispirarsi.

Fare filosofia è possibile, oggi, a condizione che si assuma la crisi che stiamo vivendo come punto da cui partire, in cerca di senso, del senso nuovo da dare alle cose, perché al vecchio ordine subentri un nuovo ordine nel quale il rapporto con la natura e con l’umano non sia più segnato dalla übris, dalla tracotanza di secoli, che ci ha gettati nella condizione di dubitare del futuro del pianeta, della vita sulla Terra, dei destini della maggioranza dei suoi abitanti: smarrito il senso del limite, si tratta di ritrovare le radici dell’umano, che valga a darci un Oriente verso cui guardare, limitando la distruttività che prevale in ogni campo.

Fare filosofia, per noi, equivale a fare Esercizio, a dedicarsi alla pratica filosofica del riconoscimento delle ragioni del corpo, dell’altro, della sacralità della vita. Il primo Esercizio spirituale a cui dedicarsi è quello della Meraviglia, accompagnato dall’amare senza invidia, per diventare capaci di generare altri sentimenti senza invidia e restituire, così, all’umano credibilità e senso del limite.

Fare filosofia, per noi, significa intendere il filosofare come modo di vivere, esercizio di trasformazione di sé, per imparare a curare il proprio desiderio: solo per questa via si impara a non danneggiare il desiderio dell’altro e a incamminarsi insieme sui sentieri del reciproco riconoscimento.

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[Penultima versione del sito]

L’espressione ai confini dello sguardo, oggi, coincide con una svolta, con un’ulteriore individuazione. Mi lascio alle spalle, perché ‘psicologistica’, un’epoca che coincide quasi per intero con la vita trascorsa, giacché in essa prevalse l’interesse quasi esclusivo per l’amore, che fu studiato, vissuto, patito al di fuori delle ragioni morali che sempre dovrebbero accompagnare le vicissitudini della nostra coscienza; ma, al di là dell’educazione sentimentale cattolica, che era sostanzialmente ‘asessuata’, cosa abbiamo disegnato poi se non un quadro fatto di palpiti, passioni travolgenti, incantamenti, seduzioni, ma senza visione, come si direbbe oggi, cioè senza responsabilità né capacità di dire No dopo aver detto infiniti Sì! Ogni relazione avviata era un lungo viaggio di sola andata: non si riusciva ad interrompere la corsa di un treno che viaggiava senza freni! Le relazioni sentimentali erano destinate a durare per sempre, più per inerzia che per intima convinzione: i miti d’amore, da una parte e dall’altra, pesavano più di tutto. Di qui l’impossibilità di uscire da relazioni nelle quali entravamo per ragioni spesso poco chiare. Scoprire, strada facendo, di aver imboccato la strada sbagliata non era mai sufficiente per condurre poi le cose sul giusto binario che avrebbe portato alla loro pietosa sepoltura.

La percezione di qualità di valore, infatti, che accompagna il sentimento statu nascenti, dovrebbe renderci avvertiti sulla natura dell’oggetto delle nostre attenzioni, prima che diventi consuetudine e legame affettivo, magari senza essere mai passati attraverso un giudizio di valore, che sarebbe richiesto per poter dire se le prime impressioni e tutto ciò che ne derivò abbiano consistenza morale.

Si potrebbe dire che so tutto dell’amore, fin dalla sua ‘declinazione’ filosofica. L’ultimo guadagno è dato, senz’altro, dall’idea presa in prestito dal fenomenologo Guido Cusinato dell’amore come esercizio che dovrebbe educarci ad amare senza invidia, e dall’idea presa in prestito dall’ultimo Lacan dell’amore come rinnovata domanda che il desiderio dell’altro esprime ogni giorno, ripetendo ancora di volere ciò che dice di volere.

Ai confini dello sguardo, dunque, per dire sempre di nuovo: nel momento dell’incontro e dello scambio di risorse, sì, nella comunicazione emozionale, nella comunicazione aperta, che riusciamo a tenere sempre aperta, per esprimere il linguaggio dell’accettazione. 

Ai confini dello sguardo, tuttavia, nel contatto con la realtà umana dell’altro incontriamo un’esistenza che esiste, un’esistenza che, con l’esercizio, dobbiamo imparare a percepire come quello che è, situandoci all’altezza dei modi di consistere dell’altro, rispettando i suoi gradi di individuazione, di consapevolezza di sé, di capacità di nascere del tutto.

Diremo, senz’altro, che dialogo è possibile con chi sappia sollevarsi al di sopra dei propri stati mentali, per emergere alla consapevolezza come persona. Soltanto la presenza in noi e nell’altro dei sentimenti morali consente, ad esempio, di affrontare le asprezze del dialogo, quando la situazione dialogica ci metta di fronte all’errore e al compito di riconoscerlo, di accettarlo, di provarne vergogna, di pentirsi, di chiudersi nel necessario pudore, per riconsiderare le nostre conoscenze sbagliate e da lì ripartire per procedere verso nuova conoscenza.