CAMMINARSI DENTRO (53): “E’ lui che ha salvato me!”

Quando, al termine del mio primo mese di insegnamento – nell’autunno del 1973 -, mi rigirai tra le mani il primo stipendio, fui preso da una gioia incontenibile e da grande stupore. Se il compenso mi sembrava dovuto, nello stesso tempo mi ritrovai a pensare che in qualche modo ero già stato remunerato. “Non solo mi diverto, ma mi pagano pure!” – pensai. Lo stipendio mi sembrava quasi un secondo compenso. Mi sentivo riempito, arricchito, rasserenato, eccitato per il da farsi. Felice. Da lì, ho incominciato a comprendere la dimensione maggiore di quello che sapevo già: nel dare si riceve; quando ci mettiamo al servizio degli altri, siamo noi che riceviamo un guadagno dal servizio! E’ stato chiamato amore quel disporsi nell’ascolto degli altri, quell’interpretarne i bisogni in modo disinteressato, quel trovare soluzioni ai singoli bisogni, soprattutto ai bisogni dei singoli. Compresi anche che le persone si aiutano una alla volta, una per una.

L’avvio dell’esperienza di volontariato – nel 1989 – veniva dopo esperienze altrettanto disinteressate – Azione Cattolica, Partito, Sindacato – che, però, non avevano dato i frutti sperati: avevo bisogno d’altro. Solo la Scuola e l’Ascolto mi hanno salvato.
Più dello stipendio mensile – che servì per poter vivere – contribuì a dare senso alla mia esistenza la ‘fatica di Sisifo’ dell’Educazione, lo sforzo sempre rinnovato di ‘salvare’ i ragazzi indicando loro la meta della conoscenza.
Come scoprii in seguito, «la meta della conoscenza giace fuori della conoscenza» (Hermann Broch). E cosa indicare come fine, scopo, meta, se non la salvezza personale? E da che cosa dovrebbe salvarsi il singolo, se non dall’ignoranza, che è la peggiore delle schiavitù? A cosa mirare se non all’autonomia linguistica, intellettuale, morale dei ragazzi – come ho scritto ogni anno in cima al mio Progetto didattico?

La vera libertà, la liberazione personale, andrà ricercata nei processi di emancipazione collettiva e personale.
Accanto ai processi di apprendimento centrati sulle discipline scolastiche – ma dentro le stesse discipline, nel tessuto della Didattica
– è possibile prescindere dall’Educazione della mente, dallo sviluppo delle personali capacità di analizzare la realtà e di giudicarla? Ed è vera Scuola quella che non rispetti le idee dei ragazzi, incoraggiandoli sempre a cercare nuova conoscenza?
– è possibile prescindere dall’Educazione sentimentale, favorendo l’affinamento della sensibilità personale, soprattutto attraverso l’esperienza del dolore?
– è possibile prescindere dall’Educazione di genere, per favorire i processi di individuazione e la crescita della consapevolezza della propria natura e il sentimento delle diversità esistenti tra i generi?
– è possibile prescindere dal dialogo come strumento per aprirsi e non per chiudersi, come via – la sola via – che conduce all’altro e alla sua radicale e irriducible alterità?
– è possibile prescindere dalla parola, cioè dalla capacità di esprimere idee, sentimenti, aspirazioni, rinunciando a coltivare nei ragazzi la loro anima?

Se tutto questo avremo fatto – e i ragazzi avranno imparato anche a leggere la poesia latina e greca metricamente, a comprendere la sconvolgente profondità di Dante Leopardi e Montale, a interpretare testi (scritti) e discorsi (orali)… -, i ragazzi conosceranno le parole dell’amicizia e dell’amore, del dolore e della morte; sapranno onorare il vecchio padre e rispettare le donne. Non ci sarà inimicizia tra maschi e femmine.
Non sarà stato indispensabile creare un agone basato sul profitto e sulla competizione: i miei alunni sapevano bene che c’è posto per tutti nella scuola pubblica. Tutti possono migliorare le posizioni personali e crescere moralmente e sentirsi promossi ogni giorno culturalmente e moralmente. Ognuno può stare accanto all’altro e aiutarlo se è in difficoltà, senza uscirne diminuito o perdente. Al contrario, cooperare al fine di crescere insieme aiuta a moltiplicare il senso di sé, delle proprie capacità. Aiuta a sentirsi utili. Se dare senso alla (propria) vita è un compito – il compito di tutte le persone che crescono -, solo spendendo la vita stessa per gli altri ci salveremo.

Quando un ex alunno si rifà vivo, anche dopo venti anni, e mi ringrazia per quello che ho fatto per lui – per farlo crescere -, non posso fare a meno di pensare, ogni volta, che in realtà è lui che ha fatto crescere me.

Un episodio spiacevole punteggiò l’inizio dell’esperienza nel Centro di ascolto: un collega prete affermò che chi sentiva il bisogno di aiutare gli altri – come ci accingevamo a fare noi – in realtà aveva problemi personali acui cercava di dare una risposta. Era un po’ come dire che eravamo malati e ci curavamo a spese degli ‘assistiti’. Non si trattava di una scelta ‘pulita’, moralmente accettabile: non eravamo buoni cristiani, ché non avevamo le carte in regola. Forse, il prete era arrivato a quella conclusione perché avvertiva che quello che facevamo noi era molto concreto: si trattava di un aiuto reale alle persone, che per lui doveva costituire probabilmente un’oscura minaccia. Come se fossi mo in competizione con lui! E con la sua Chiesa! In realtà, quel Centro nasceva con l’aiuto e la protezione del Vescovo della città. Dunque, non eravamo reprobi o eretici che invadevano il campo del sacro e del religioso con le scarpe sporche…
Serenamente, rispondemmo dentro di noi con le ragioni che poi accampavamo in pubblico quando, anche non richiesti, spiegavamo le ragioni del nostro operato.
Non starò a ripercorrere le infinite strade percorse dentro la nostra anima, per trovare le parole. Non starò a dire quanto costò in quegli anni stare tutti i giorni di fronte all’esistenza spezzata. Non furono grandi sacrifici interiori, perché ne uscimmo tutti arricchiti. Il solo sacrificio che ci veniva chiesto dalle circostanze fu quello del tempo, ma ogni impresa umana disinteressata è dono del tempo. Il tempo è la moneta con cui paghiamo coloro che serviamo.
Per questo, quando qualcuno ci chiede – dopo i primi contatti – se c’è qualcosa da pagare e si stupisce quando apprende che non c’è niente da pagare, di nuovo ci accade di interrogarci. Ogni volta di nuovo bisogna dire perché siamo proprio lì e non su un’amaca all’ombra di un tiglio profumato a godere del venticello che spira tiepido nelle giornate primaverili…
Ci sono persone che sono fatte per donare la speranza. Esse hanno bisogno di farlo. Non da una mancanza nasce l’impulso ad agire, ma da ragioni morali. C’è qualcuno là fuori che aspetta. E’ importante stare in attesa di quella chiamata. E’ importante poi corrispondere all’attesa dell’altro. E’ importante stare accanto al dolore altrui, poter trovare le parole, condividere le emozioni, trovare la sponda a cui aggrapparsi insieme. La dimensione del futuro è la sfida ardua che ci attende. L’esistenza spezzata tornerà a farsi esistenza autentica quando avrà ritrovato le ragioni per pensare il futuro, per proiettarsi in esso.

Quando don Antonio Mazzi – uno dei miei Maestri – racconta la storia del primo ragazzo che gli si parò davanti per favorire la scelta che lo portò in seguito a fondare Exodus, conclude sempre dicendo che era andato per salvare lui, ma infine era stato quel ragazzo che aveva salvato lui.

E’ con questi sentimenti che mi appresto ad affrontare le ultime cose. E’ per questo che non ho paura.

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