CAMMINARSI DENTRO (64): Pensarsi reciprocamente ed infinitamente.

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8 giugno 2009

Nelle vicende sentimentali siamo abituati a chiedere che il sentimento duri per sempre. Di più non possiamo chiedere. Di più non riusciamo a concepire. L’educazione sentimentale che riceviamo ci convince del fatto che il cuore dell’altro possa e debba conservarsi integro nel suo essere rivolto a noi: non si distoglierà mai da noi. All’amore chiediamo che sia eterno. E se non riusciamo a dire quell’eterno, pur sapendo che siamo impastati di tempo, segretamente coltiviamo la speranza che il sentimento a cui teniamo di più abbia a durare. Vogliamo la pienezza della coscienza, una gioia intera, che non sia incrinata dal velo della tristezza, perché non vogliamo collegare quest’ultima alla condizione beata in cui vogliamo chiuderci. Aspiriamo a serrare con lacci invisibili in una fortezza sicura quello che pure avvertiamo esposto all’aperto in cui siamo situati. Cerchiamo l’aperto, ma chiediamo che il cuore dell’altro sia chiuso all’esperienza dell’aperto: vorremmo quasi che altri non esistessero per quel cuore, che nessuna emozione turbasse la sua superficie, distogliendo da noi volizioni e affetti. Seguiamo il corso dei pensieri, i nostri e quelli dell’altro, ma non attribuiamo grande valore ad essi, come se il destino del sentimento si giocasse per intero nel cuore, che pensiamo come organo separato dall’intelletto. I pensieri che riserviamo all’altro sono quasi studio osservazione indagine calcolo dei giorni assetto delle cose. Non pensiamo i nostri pensieri come custodia e scrigno. Non pensiamo i ricordi come memoria del bene ricevuto, per accettare e ringraziare. Piuttosto, ci sforziamo di rammemorare singoli episodi, come se da quello sforzo dovesse derivare una prova di fedeltà superata. Ci perdiamo nel dettaglio del così fu, che contempliamo da lontano come patrimonio acquisito, che vorremmo stampato in una teca indistruttibile, al riparo dall’azione corrosiva del tempo. Non costruiamo trame. Non istituiamo file di continuità. Non curiamo i passaggi. Il corso dei pensieri, che non è semplice flusso spontaneo e indifferenziato, non ci appaga: non affidiamo ad esso il valore della testimonianza principe. Cerchiamo altrove il suggello di fedeltà che dissipa le ombre del dubbio e del sospetto. Non crediamo più da quasi un secolo al valore della parola e disperatamente chiediamo giuramenti e promesse, che vogliamo solenni e pronunciati in circostanze indubitabili e davanti ad altari di pietra. Non abbiamo più fede ma ci affidiamo alla solennità approntata solo per noi.

Non ascoltiamo il pensiero del cuore, il suo erratico immaginare. Abitiamo impazienti la camera della nostra mente, quasi convinti che lì non ci sia cuore, che essa non sia consorte del cuore. Ci riduciamo a pensare le cose, gli attimi, le scadenze, gli uffici. Trascuriamo di curare e sostenere il peso dell’invisibile, l’istante eterno, la pausa che precede i mutamenti, la perplessità dell’anima, l’innocenza ritrovata, l’incanto della bellezza. Noi amiamo ad uno ad uno per odiare a mille a mille e acquistiamo scampoli di felicità, mendicando un sorriso, un conforto, un palpito.

Dovremmo più attentamente abitare la distanza, misurare i passi, custodire il Segreto che salva. Coltivare l’anima, fare anima, dare voce al fondo enigmatico e buio che ci muove è compito. L’indistruttibile non è lì, immobile ad attendere il gesto edificante che renda giustizia della realtà dell’anima. Amore della conoscenza e conoscenza dell’amore dovrebbero renderci degni di essere amati. Ma quale amore verrà, se non sapremo istituire file di continuità nei nostri pensieri, se la nostra libertà non si convertirà nell’abbraccio in cui sciogliersi dai ceppi della Terra, per il canto finale dell’unione con il mistero dell’unione? Eppure, quel mistero riuscirà a consistere presso di noi e a generare altra vita se troveremo la parola che apre e chiude, perché altrettanto misteriosamente la parola dell’altro apra e chiuda delicatamente la nostra anima, come fa la primavera accortamente con i suoi primi germogli.

La creatura è nell’ascolto. Certo. Beante. Certo. Protesa all’attimo ek-statico che solo ci infutura, ma quanto occorre attendere perché si compia il rito tanto atteso dell’anima, che protesa nel suo anelito fuggente non sa da dove né quando, eppure non cessa di sperare?

Se il timore di perdere l’oggetto d’amore sembra comune a tutti gli umani, non sarà segno di viltà volere che l’altro non si allontani da noi, la prova più chiara di quanto poco siamo impegnati a pensare l’altro nella sua libertà senza dolercene? Quale ‘prova’ più grande di un amore che si voglia eterno di questo pensiero che pensa l’altro con i suoi pensieri, non importa se poco rivolti a noi? Sapremo mai quanto i pensieri che vogliamo rivolti a noi siano effettivamente rivolti a noi e quanto grande sia l’intensità di quei pensieri? La questione più vera, tuttavia, non è tanto riuscire a conoscere nei dettagli cosa pensi l’altro quando vorremmo che pensasse solo a noi. Conta, piuttosto, il movimento che noi sapremo imprimere a una relazione nella quale il pensiero dell’altro che è in noi è destinatario di una tacita richiesta di un movimento analogo che sarà sorretto indefinitamente dall’incessante moto del cuore che non è mai disgiunto dal moto del pensiero. Riuscirebbe mai il nostro cuore a pensare compiutamente il cuore dell’altro se non fossimo cuori pensanti? E il nostro sentire, la profondità del nostro sentire sarebbe possibile attivare se non fossimo guidati dalle ‘ragioni’ del cuore? Se il pensiero immaginale non fosse quotidianamente impegnato a pensare come raggiungere il cuore dell’altro, rendendosi ogni volta in umiltà, inchinandosi di fronte all’altezza di quel cuore, per potersi sollevare fino ad esso?

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