CAMMINARSI DENTRO (160): Arredare la provincia dell’uomo (1): è il soggetto amoroso che parla

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Quando si tratta di dire cosa sia più giusto e corretto in materia d’amore, siamo pronti a dire che conta amare, non essere amati; conta aver amato, non essere stati amati; amare, non l’amore; prendersi cura dell’altro, non provare ‘semplicemente’ un sentimento; ‘patire’ la relazione, non sentirsi soltanto soggetto amoroso; essere in relazione, non ingaggiare improbabili lotte per il primato… Come se tutto questo fosse ‘semplice’! Sembra che sia tutto chiaro, che non ci resti altro da fare se non agire, patire, sentire, rispettare la realtà dell’altro…

Quante volte, poi, ci siamo lasciati pietrificare da una risposta inattesa, che ha fermato il tempo, complicando terribilmente ogni cosa! Non ci sono dubbi: eravamo in un momento particolare – e lo abbiamo proclamato a chiare lettere! – in cui una sola risposta chiedevamo, un po’ di attenzione e di riguardo, magari una concessione alle nostre debolezze, una tregua, una complicità… Cose tutte che non sono venute e che hanno reso problematico un rapporto che fino a poco fa non lo era!

Pretendiamo simmetria. Giustizia! Che ci venga restituito almeno in parte – non in piccole dosi! – quanto pure abbiamo dato. Misuriamo in giorni, mesi ed anni l’entità del dono: abbiamo dato tanto! perché ora non riceviamo una piccola risposta che valga a calmare l’ansia e a lenire il dolore della mente? L’insistente domandare ha mai dato frutti? Raramente, temo!

Più conveniente alla nostra condizione appare un ‘prendersi cura’ che non sia solo dichiarato, che non si fermi alla disposizione e basta, alle buone intenzioni che non fanno storia. Dobbiamo congedarci dall’etica delle intenzioni, per quanto doloroso sia. La serietà delle intenzioni – come ha chiamato una sezione del suo Trattato delle virtù Vladimir Jankélélevitch – non sembra più di moda (eppure, ha un suo inequivocabile fondamento nella vita della coscienza!): mezzo secolo fa poteva andar bene ancora. Si dava credito al corteggiatore che con il tempo avesse dato buona prova di sé. Ogni errore ed inciampo – i piccoli ‘tradimenti’, la sconfessione di sé… – veniva sempre ricondotto ad una natura che si era rivelata buona e che non poteva essere irrimediabilmente contraddetta e negata da questo o quell’accadimento.

Oggi è come se ogni equivoco ed errore si facesse subito imperdonabile, rendendo irredimibile il tempo della coscienza, imprescrittibile la ‘colpa’. E’ molto difficile perdonare. Pretendiamo assoluta sincerità, per non dover revocare in dubbio la veridicità delle parole fino a negare autenticità alla persona.

Eppure, basterebbe praticare la trasparenza della coscienza, combattendo in sé ogni forma di vischiosità della coscienza stessa! Le condotte di malafede – la falsa coscienza – generano disordine morale, sospetto, disincanto.

Che ne sarà della creatura, se non ci inchiniamo fino a raggiungere e toccare la sua umana fragilità, contemplando le debolezze e le viltà nel numero delle cose ‘da perdonare’? Può un amore sopravvivere al rifiuto di contemplare l’errore e l’equivoco in cui probabilmente cadremo? Quanto durerà una relazione sentimentale in cui sarà annullata la distanza e in cui non c’è spazio per il Segreto? Che cosa finalmente ci ritroveremo ad amare, se ciò che cade sotto il nostro sguardo non è mai un ‘semplice’? Negare l’Ombra – in sé e nell’altro – può portare lontano?

C’è da contemplare la vita che si erge fiera davanti a noi, per amarla così com’è. John Donne ha scritto: tu così viva che pensarti basta a fare veri i sogni e le favole storia. Tu così viva, non tu così vera… Ma quello che inseguiamo è forse sempre proprio la verità. Anche dell’amore che tanto chiediamo vogliamo che siamo vero, assoluto, unico, irripetibile in ogni suo gesto. Quello che non riusciamo ad ottenere da Dio pretendiamo che ci sia dato dagli umani.

Per molto tempo, lungo tutta l’età matura, mi sono chiesto come si possa amare una donna che si prostituisce, anzi, una prostituta vera e propria. Ad una sola condizione: che si riesca a tenere insieme il bene e il male, che si riconosca statuto di realtà alla luce e alla tenebra che sono mescolate in noi fino a confondersi spesso.

Prendersi cura dell’altro significa arredare una provincia dell’anima. La regione della realtà ‘occupata’ dall’altro con la sua esistenza è lo spazio esistenziale, il piano di realtà temporale dentro il quale soltanto si dà relazione. Astrarre dal tempo è operazione folle: significa negarsi la possibilità di fare storia, istituendo file di continuità in cui soltanto si mostra il ‘significato’ di una persona.

Arredare, abbellire, rendere spazio il tempo, fare spazio dentro di sé, accogliere, farsi mente ospitale, impegnarsi a raccontare all’altro la sua favola mondana. Riconoscere la realtà della sua anima. Fare anima. Coltivare lo spazio del racconto. Dare voce all’incanto.

E’ quasi impossibile separare dal nostro spirito quello che non c’è. Che cosa dunque saremmo, senza l’aiuto di ciò che non esiste? Ben poca cosa, e i nostri spiriti disoccupati languirebbero, se le favole, i fraintendimenti, le astrazioni, le credenze e i mostri, le ipotesi e i sedicenti problemi della metafisica non popolassero di esseri e di immagini senza oggetti i nostri abissi e le nostre tenebre naturali. I miti sono le anime delle nostre azioni e dei nostri amori. Non possiamo agire che movendo verso un fantasma. Non possiamo amare che quello che creiamo.

PAUL VALÉRY, Cattivi pensieri

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