CAMMINARSI DENTRO (206): «La vera casa dell’uomo non è una casa, è la strada. La vita stessa è un viaggio da fare a piedi»

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Domenica 10 luglio 2011

Venerdì sera ci siamo ritrovati in tanti a Sora, nel Parco Valente (una volta, Campo Boario), intorno a Ester e alla sua famiglia per ricordare Benedetto, a trenta giorni dalla sua morte. L’8 luglio sarebbe stato il giorno del suo trentunesimo compleanno.

 

Sono state lette poesie di amici comuni. Hanno parlato gli adulti e alla fine Ernesto, forse l’amico più importante. Sono cresciuti insieme dai 14 anni circa in poi, senza separarsi mai. La durata della loro amicizia è andata oltre l’abbandono della ‘strada’ da parte di Ernesto, che si chiedeva perché Benedetto, che pure aveva alle spalle una famiglia che lo amava, si fosse ritrovato spesso per strada. Abbiamo concluso un po’ tutti con lui che egli amava la strada, con le sue asprezze e con il fascino dell’avventura e dell’imprevedibile.

Viene ricordato il suo amore di writer per il disegno. Nella vecchia casa del centro in cui si ritrovarono per un po’ Benedetto ‘affrescò’ un’intera parete a lume di candela – non avevano corrente elettrica – per tutta una notte.

Più di tutto, secondo Ernesto, segnò la vita di Benedetto la vicenda del cane Bacco, che gli fu sottratto dalle autorità olandesi durante un viaggio in quel Paese, con l’accusa di maltrattamenti, quando Bacco era malato. Benedetto volle portarlo con sé, provvedendo sempre a lui. Non si separava mai da Bacco. Seguirono complesse vicende giudiziarie e il tentativo di riavere il cane senza successo. Ernesto è convinto del fatto che la vita di Benedetto subì un ‘arresto’ in coincidenza di quella storia infelice: Bacco era come un fratello per lui. A tutte le cose che abbiamo tentato di dire per ricostruire l’immagine di Benedetto Ernesto ha aggiunto il suo amore per gli animali.

La madre si ripropone di aprire una Fondazione che porterà il suo nome. Sicuramente, essa si occuperà di bambini, di detenuti, di animali, di writer. Di giovani.

Al mattino, al Cimitero, presso la cappella gentilizia dei Pontone Gravaldi, ho discusso con Ester proprio di questo, del suo amore per i viaggi. Lei ha riferito che un ragazzo che lo conosceva bene le ha espresso quest’idea: Benedetto non aveva paura di andare da solo. Ci siamo guardati un po’ in faccia e abbiamo subito concluso che in realtà non di paura si trattava. Piuttosto, Benedetto stava bene con se stesso. Portava con sé tutta la vita quando partiva.

Altre storie ci sono state raccontate. Coincidenze misteriose e felici. Persone che dopo decenni ricompaiono per andare a trovarlo nel campo del dolore.

La cosa più curiosa è stata riferita da sua madre nei giorni successivi alla morte: su un filo della luce che corre da una cappella all’altra ogni giorno Ester ha trovato una rondine che sembrava aspettarla. Dopo l’apertura della cappella, la rondine entra e fa un volo rapido per uscire subito dopo. Il giorno di venerdì è stato allietato da due rondini che sono entrate nella cappella mentre io ed Ester eravamo lì a rievocare cose belle. Si sono trattenute più del solito ed hanno cantato a lungo. Questo ed altri segni sono motivo di conforto perché aiutano a pensare a questa morte in modo diverso.

A proposito di viaggi e di viandanti, ho segnalato ad Ester l’opera di Bruce Chatwin . Abbiamo parlato di irrequietezza, ma anche con Chatwin di quello che egli esprime attraverso il risvolto di copertina del celebre Anatomia dell’irrequietezza:

Tutte le nostre attività sono legate all’idea del viaggio. E a me piace pen- sare che il nostro cervello abbia un sistema informativo che ci dà ordini per il cammino, e che qui stia la molla della nostra irrequietezza. L’uomo ha scoperto per tempo di poter spillare tutta questa informazione d’un colpo, manomettendo la chimica del cervello. Di poter volare via in un viaggio illusorio o in un’ascesa immaginaria. Di conseguenza gli stan- ziali hanno ingenuamente identificato Dio con il vino, con l’hashish o con un fungo allucinatorio; ma di rado i veri vagabondi sono caduti in preda a questa illusione. Le droghe sono veicoli per gente che ha dimenticato come si cammina.

A chi resta piace pensare che Benedetto sta proseguendo il suo viaggio. Ora è libero di camminare per le strade del mondo senza rischi.

Il giornalista di Repub- blica Antonio Gnoli conobbe Bruce Chatwin nel 1982, contempora- neamente all’uscita di In Patagonia. Non essendo conosciuto ancora Chatwin, non ottenne la pubblica- zione integrale dell’in- tervista. Nel 2000 essa comparve in fondo al volumetto: La nostalgia dello spazio. In essa, tra le altre cose, Chatwin si esprimeva così:

Ai miei occhi la Patagonia era il posto più remoto della terra dove l’uomo era arrivato e dove giunsero anche gli inglesi. L’uomo ha avuto origine in Africa, a piedi ha attraversato l’Asia, lo stretto di Bering e poi è disceso fino alla punta estrema dell’America meridionale. Quello che io ho fatto è stato di innalzare la Patagonia a simbolo dell’irrequietezza umana e provare a scrivere un libro che fosse una specie di metafora della nostalgia dello spazio.

Trova che ci sia differenza tra “irrequietezza” e “inquietudine”?

Può darsi che la lingua ci ponga di fronte a delle semplici sfumature. Ma una differenza di fondo credo esista. Penso che l’inquietudine si leghi al disagio provocato da una certa nostra inadeguatezza al senso del fare e dell’essere. L’inquietudine insomma spezza il rapporto con la nostra identità. Ha a che vedere con l’anima e con il tempo, in particolare con il modo in cui ne facciamo esperienza. L’irrequietezza, viceversa, comincia dal cervello e mina il nostro rapporto con lo spazio, distrugge le certezze che noi abbiamo di esso: improvvisamente la misura che ci lega a un luogo, la distanza che ci è familiare, diventa asfissiante. Un mistico o un poeta possono coltivare la loro inquietudine. L’irrequietezza appartiene ai bambini o ai viaggiatori.

Ho notato che lei all’inizio del libro ha posto una frase di Blaise Cendrars: “Non c’è più che la Patagonia, la Patagonia che si addica alla mia immensa tristezza”. E’ un’affermazione che suona assoluta e che rende omaggio a una terra che ci indica i limiti e i guasti dell’Occidente.

Per me era soprattutto la fantasia con cui da bambino immaginavo il mio paese. Ma oggi potrei dirle che non è così. Si evade sempre per poi tornare. Sia meno sibillino. Tornare dove? Forse alle proprie origini. Tornare equivale a cercare ciò che di più importante hai perso o lasciato. E non necessariamente è l’ultima casa in cui hai abitato. […]

La consola pensare che l’irrequietezza sia vista come una sorta di esilio?

Non credo esista nulla che consoli la propria irrequietezza. E poi, la Patagonia è una terra desolante e desolata. […] In fondo, tutti quelli che finivano lì erano in qualche modo colpiti dal destino. Da una necessità segreta e misteriosa. Magari non sai il perché, ma la Patagonia è il posto ideale per voler tornare a riscoprire il mondo.

E’ curioso che lei insista sull’idea del “tornare”.

Il ritorno offre una pienezza di senso che l’andata da sola non ha. Il ritorno è la risposta che troviamo alla nostra irrequietezza. Ma non sempre si ha voglia di tornare. In Patagonia nasce un particolare tipo di pianta che ha un frutto piccolo e nero che gli abitanti del luogo vogliono farti mangiare. Perché, dicono, se tu prendi quel frutto allora certamente tornerai in Patagonia. Personalmente ho evitato di mangiarlo.

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