Contributi a una cultura dell’Ascolto CAMMINARSI DENTRO (276): L’entrata inaugurale della morte nella vita

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Lunedì 12 settembre 2011

Affermare che si debba imparare a morire risulta sempre un paradosso agli occhi di chi non abbia ancora pensato il compito e non si sia posto il ‘dovere’ di dedicarsi a questo esercizio spirituale. L’espressione suona a volte sinistra e suscita sentimenti angosciosi alle orecchie di chi sarà portato subito a pensare che si stia parlando addirittura di suicidio, di procurarsi la morte in qualche modo, o di augurarsela, o di mettersi in attesa dell’evento!
A me piace ricordare che il carme foscoliano Dei Sepolcri, definito sempre dalla critica letteraria meditatio mortis – una meditazione sulla morte -, è stato subito dopo definito dalla stessa più chiaramente meditatio vitae – meditazione sulla vita.
Negli anni della Scuola elementare la vecchia maestra che avevamo ci ricordava che dovevamo pensare alla morte almeno nove volte al giorno! In quel tempo e a lungo poi, abbiamo riso sguaiatamente di quella prescrizione morale. E’ arrivato molto più tardi il tempo della comprensione.
L’esperienza della malinconia d’amore negli anni dell’adolescenza non è stata vissuta bene: ognuno di noi avvertiva come destino ingrato il ripetersi ossessivo di vicissitudini della coscienza dolorose e incomprensibili. Ogni volta di nuovo, il timore di perdere lei, l’angoscia dell’abbandono, lo strazio della lontananza, il sentimento acuto dell’assenza…
Nessuno si è mai occupato di noi, sedendo magari accanto a noi, sul nostro letto – come nei film americani – per spiegarci che è sempre così, che è sempre stato così, che non può non essere così, per ognuno di noi: la sensazione più volte provata della morte nell’anima come esperienza della separazione; il dolore conseguente al venir meno, anche solo per un po’, delle persone per le quali l’attaccamento è più forte; la distinzione tra lutto e malinconia

L’ingresso della morte nella vita è stato inaugurato per noi dall’esperienza che tutti abbiamo fatto da bambini, quando la nostra madre si è allontanata da noi, per lasciarci momentaneamente soli, magari spostandosi in un’altra stanza e per poco. Abbiamo vissuto quell’assenza come lontananza, mancanza, abbandono, perdita. Al timore di averla perduta per sempre, che potesse essere morta, si associava il terrore della solitudine, della nostra morte. Senza di lei ci siamo sentiti perduti.

E ogni volta è così, sempre di nuovo: quando si allontanano da noi le persone che ci sono care, avvertiamo la mancanza, soffriamo la lontananza, fino al sentimento dell’abbandono e della perdita.

L’Irreparabile rappresentato dalla morte fisica è solo l’esempio più forte ed emblematico di una condizione per la quale dobbiamo riconoscere che la morte non è solo il decesso, il venir meno della vita, il punto terminale della vita stessa, come se cadesse al di fuori di essa: la morte è già dentro la nostra vita. Perché cos’altro è se non un morire quello che proviamo quando siamo lasciati soli, privi del calore della vita che promana dalle esistenze altre, alle quali chiediamo sommessamente ad ogni piè sospinto di accorgersi di noi, di volgere lo sguardo benevolo verso di noi, di parlarci, di dire sì, magari di accarezzarci, di abbracciarci, di consolarci, quando è necessario?

Degli affetti naturali come di tutti i nostri amori elettivi facciamo esperienza in forme contraddittorie e a volte oscure: l’esperienza del riconoscimento e dell’accettazione ci esalta; il silenzio, l’assenza, il diniego ci abbattono. Non potremo mai andare alla guerra di tutto ciò che è parte della vita stessa, dunque non ci resta che educare la nostra sensibilità alla comprensione della vita tutta, delle sue luci e delle sue ombre. Recalcitrare contro quello che è ‘destino’ comune e interrogare all’infinito i silenzi e le assenze, come se avessimo ricevuto un torto grave e ci fosse stato tolto quello che pure ci era stato promesso, è segno di grave insecuritas. Chiedere sempre ragione del dolore equivale a non ricordare il bene ricevuto e quindi a non sperare che lo riceveremo ancora.

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Quando noi parliamo di imparare a morire, intendiamo riferirci agli esercizi spirituali come pratica di libertà. Coltivare l’anima, autoeducarsi, crescere, realizzarsi, individuarsi è possibile a condizione che si pratichino i necessari esercizi per dare senso e dignità alla propria vita.

LEGGERE Sigmund Freud, Jacques Lacan, Marie–France Balta, Jacques Sédat, Moustapha Safouan, Il gioco del Fort / Da. L’entrata inaugurale della morte nella vita (si tratta di una raccolta di saggi in formato PDF – Il file è protetto: può essere stampato dopo essersi iscritti al sito)
MORENO MANGHI, Introduzione al gioco del Fort/Da, pag.3
SIGMUND FREUD, Il gioco del Fort/Da, pag.14
Thesaurus Lacan: Il gioco del Fort/Da (Jacques Lacan), pag.19
MARIE-FRANCE BALTA, Il “gioco del Fort/Da” tra Freud e Lacan, pag.33
JACQUES SEDAT, La “pulsione di appropriazione” nel gioco del Fort/Da, pag.41
MOUSTAPHA SAFOUAN, L’amore come pulsione di morte, pag.4Appendice – Oggetto transizionale, pag.64 

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