CAMMINARSI DENTRO (286): Mancare a un appuntamento

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Domenica 9 ottobre 2011

L’attesa del 16 settembre è durata almeno sei mesi, forse sette. La notizia di un Seminario sull’Ascolto in Exodus era partita in gennaio. Allora, settembre sembrava incredibilmente lontano. Sono portato a pensare che le cose importanti, soprattutto quelle che attendono da sempre, debbano esser fatte subito. Mi sono disposto nell’attesa, immaginando che sarebbe stato piacevole raccontare l’esperienza accumulata in ventidue anni di ascolto. Ho saputo che avrei avuto dieci minuti per intervenire. Il Seminario era stato concepito così: al mattino, interventi importanti di ospiti esterni; il pomeriggio riservato agli Educatori dei Centri di ascolto di Exodus.

Ho trascorso i sei o sette mesi che mi separavano da quel giorno immaginando prima, cercando di raccogliere in una sintesi poi quello che poteva entrare in dieci minuti. Ho sempre considerato la sintesi un’abilità da curare, a cui addestrarsi, addirittura una competenza da tenere in esercizio, come se la mente dovesse ogni volta sottoporsi a una fatica di tipo diverso, radicalmente diverso rispetto all’ordinario, tutte le volte che è chiamata a produrre sintesi.

Quando ero insegnante di Italiano, inserivo nel mio Progetto didattico all’inizio dell’anno riferimenti espliciti ai metodi e ai criteri della valutazione, per ogni aspetto dell’attività didattica, dai principi ideali a quelli estetici ai principi didattici. Tra i materiali allegati al documento di programmazione, la scheda che segue sull’attività di Sintesi, che interessa direttamente la scrittura ma che vale anche per il parlato, un po’ per tutte le discipline. All’inizio dell’anno, nella quinta classe del Liceo scientifico in cui insegnavo, ho sempre proposto la Sintesi come criterio regolatore di tutte le attività, a partire dalla circostanza offerta dal Colloquio d’esame, che dura mediamente sessanta minuti. Considerando il numero delle Materie coinvolte nel Colloquio e le incombenze da sbrigare prima e dopo il Colloquio, il Commissario di una delle Materie d’Esame non aveva a disposizione per sé di più di dieci minuti. Si richiedeva da una parte e dall’altra il ricorso alla Sintesi. Durante l’anno i ragazzi dovevano dedicarsi sistematicamente al lavoro di analisi e successivamente dovevano riferire i contenuti disciplinari in tre o quattro minuti.

L’esercizio di scrittura deve mirare, tra l’altro, alla produzione di testi sintetici. Brevità e concisione, essenzialità e chiarezza, esausti- vità e ricchezza di collegamenti sono alcuni degli aspetti, delle caratteristiche di un testo sintetico.

La sintesi è il risultato della riorganizzazione delle conoscenze, la loro utilizzazione in contesti nuovi, con il ricorso sempre diverso a categorie unificanti. La sintesi presuppone l’analisi, la classificazione e la gerarchiz- zazione delle conoscenze. Si avvale delle tecniche di scrittura che prediligono l’ipo- tassi (subordinazione sintattica) e il ricorso a un lessico specialistico (terminologia settoria- le, cluster), il riassunto e l’argomentazione, diagrammi, schemi e mappe concettuali. I metodi propri dell’apprendimento cooperativo (brainstorming, scrittura collaborativa, iper- testualità, ipermedia) sviluppano le abilità di sintesi. Sintesi è uno degli elementi della tassonomia degli obiettivi cognitivi di Bloom.

APPROFONDIMENTI TEORICI: La sintesi è un obiettivo di trasfert, cioè si riferisce a un universo non circoscritto che non può essere del tutto noto. La sintesi tende a trasferire i comportamenti appresi da un contesto all’altro estraendo gli elementi delle espe- rienze anteriori (analisi) per ricombinarli (sintesi) nella nuova situazione.

Insomma, prima di partire per Milano, ero consapevole della sfida: si trattava di dire le cose più importanti per me, come Educatore, in non più di dieci minuti.
Ho elencato per me otto direzioni di ricerca, perché mi premeva solo indicare le questioni aperte:

  1. la relazione d’aiuto (che tipo di rela- zione è la relazione d’aiuto?);
  2. il colloquio di motivazione come ter- reno elettivo dell’incontro con l’altro (che cos’è un colloquio?);
  3. le emozioni degli operatori implicate nella relazione d’aiuto (quali emozio- ni intervengono a favorire/ostaco- lare il ‘progresso’ della relazione?);
  4. il tempo della coscienza nell’opera- tore (nei processi empatici che si attivano come è operante il senti- mento del tempo?);
  5. la voce umana: quale ruolo svolge nella relazione?
  6. le parole, i discorsi, il linguaggio: quale ruolo svolgono nella relazione d’aiuto?
  7. la vita dell’altro: come si fa esi- stenza sotto i nostri occhi?
  8. per quali vie il frammento si fa racconto, grazie al nostro inter- vento?

Le risposte parziali di cui dispongo sono le seguenti:

  1. la relazione d’aiuto è relazione sociale;
  2. nel colloquio con se stessi e con l’altro, la verità è il tono di un incontro;
  3. le emozioni implicate nella relazione sono tutte relative al tempo vissuto; il dinamismo etico da imprimere al ritmo della vita personale dell’altro è ‘veicolato’ da un’idea dell’esperienza come ‘cammino’ e non come ‘vissuto’; ‘camminare’ è possibile, a condizione che il tempo della coscienza sia ‘curato’;
  4. il tempo con i suoi ritmi è scandito da resistenze e ambivalenze, angustia della mente e apatia dei sensi, quando non anche aridità del cuore; il tempo debito atteso non è la giusta distanza ma la qualità dell’accordo;
  5. la voce è la via d’accesso all’invisibile dell’esperienza personale;
  6. la dimensione linguistica è operante nel colloquio di motivazione per il ricorso che facciamo a metafore e paradossi, allegorie e simboli; l’accesso al simbolico è indicato come obiettivo da conseguire;
  7. l’esistenza-progetto è descritta e suggerita come meta dell’azione, da conseguire con lunghi esercizi spirituali; l’equilibrio interiore e la pace non sono semplici ‘prodotti’ di una guarigione o di un generico cammino comunitario;
  8. il nostro parlato è costruito come continuum dell’esperienza comune, e poi come file di continuità che si suggeriscono nella vita dell’altro.

Fin qui lo schema. Sia le domande che le risposte avrebbero dovuto dare l’idea della grandezza delle questioni che proponevo. Dire poi che sono questioni destinate a rimanere aperte significa che le mie risposte non sono le uniche possibili e che i progressi delle conoscenze e dell’esperienza ci aiuteranno sicuramente a definirle meglio e a rispondere in modo sempre più accurato.

Quando è arrivato il mio turno, pressato da emozioni di varia natura e provenienza generate dalle cose importanti ascoltate e vissute durante la giornata, invece di correre alla lettura delle otto questioni, mi sono imbarcato in un’inutile introduzione, a causa della quale a un certo punto mi è stato fatto notare che erano passati già undici minuti! A quel punto, senza capire cosa stesse accadendo, ho continuato a parlare di corsa, riducendomi a leggere le questioni, senza poter dire nulla a chiarimento delle cose più ardue che vi erano contenute. Il treno ormai era passato, come si dice comunemente.

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