Bellezza

Pulchritudo

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Trovare la Bellezza non solo nelle cose ma nella trama di ombre, luce e buio che le cose proiettano.

TANIZAKI JUN’ICHIRO

Per definire la natura della Bellezza – attraverso il necessario confronto con la Bellezza presso gli antichi – partiremo da qui, cioè dall’idea che l’enigma della Bellezza, il suo eclissarsi nel Moderno, dipenda dallo sguardo stesso.

Non semplicemente la luce radente che ferisce la vista, né la cosa stessa situata lì, davanti a noi. Non la forma, la perfezione delle forme. Non equilibrio e armonia, analogia e simmetria concorreranno da sole a fare testo: altre metafore, oltre la luce, serviranno allo scopo. Solo l’armonia eraclitea ci guiderà.

L’armonia pitagorica, intesa come superamento dei contrasti, non può guidare l’uomo moderno sulla via che conduce alla Bellezza. Occorre attraversare la foresta dei simboli della nostra cultura con l’ascia affilata della ragione, senza farsi distrarre da alcunché. Ciò che ci si mostrerà sarà il proprio della cosa stessa, la sua verità. Non l’evidente apparenza delle cose, ma il ‘nascondersi’, il loro ritrarsi come il più proprio. Solo così e solo allora l’anima attingerà il perfettamente semplice, che non apparirà come il mero risultato del venir meno di tutto il resto, scarnificata la cosa stessa delle sue caduche apparizioni. La semplicità dello sguardo, non la semplicità della cosa si darà alla vista. In questi ultimi trent’anni ci siamo chiesti, con Massimo Cacciari: simplex sigillum veri? Oggi possiamo rispondere di sì, a condizione che quel semplice non sia inteso come un modo di darsi della cosa: il semplice è un risultato; è il punto di arrivo dell’itinerario della mente in rem; è il riconoscimento della natura della cosa stessa, del suo mostrarsi… E dell’oggetto del desiderio non eserciteremo mai un vero possesso, giacché non si tratta mai di un mero oggetto, cosa tra le cose: spesso, è di un soggetto che aspiriamo ad impadronirci, per non dovercene separare mai. Ma questa è la più grande illusione!

E’ sempre lecito chiedersi cosa nasconda uno sguardo, cosa vedano quegli occhi. Su cosa si posi la luce di quella vista. Quali delicati affanni turbino i giorni. Se sia sconvolta l’esistenza dagli assedi di amanti impazienti… Se di una vergine si tratti oppure no. Il mistero che accompagna l’immagine non è senza risposta. Solo l’immagine ci autorizza a pensare tutto ciò che precede. Il mistero di una donna non sarebbe altrettanto oscuro, né irredimibile il tempo dell’attesa. Senza farci irretire dalla natura bidimensionale dell’immagine stessa, non spingeremo le nostre supposizioni molto lontano. Eppure, la sinuosa fluenza delle forme, molli e delicate, costringe ad immaginare lunghi indugi e silenzi sovrumani. Il colore degli occhi e dei capelli attira su di sé l’attenzione quasi per intero. Si dimentica il pallore del viso, il biancore della pelle, il colore tenue delle vesti. Gli emblemi della vanità femminile sono concentrati in quel nero denso come fumo, impalpabile quanto nitido e fermo. Come resistere al fascino della bocca e del naso? I capelli lisci, che cadono raccolti su una sola spalla, indicano una volontà spontanea di seduzione, con quel tanto di illecebre che si addice all’età giovane. Di una fanciulla si tratta. I sogni e le speranze, le fresche certezze sono lì, tutte dipinte nello sguardo apparentemente dimesso, in realtà consapevole del nostro sguardo… La leggera torsione della testa verso di noi e gli occhi bassi indicano un moto di risposta al nostro sguardo, l’offerta di sé propria di chi cade sotto lo sguardo altrui. Compunzione appena accennata e raccoglimento si indovinano nei muscoli interamente rilassati del volto: nessuna tensione interiore sembra trasparire. Non fastidio né disappunto. Il compiacimento che rivela la bocca stretta e gli occhi appena ridenti ci appartengono. Quella bellezza non è stata colta in un momento di distrazione. Lei sa di noi. Eppure, non è turbata. Appena si avverte un moto di quel pudore che attende di essere interrotto e scosso dalla voce che dice la bellezza e le dà un nome!

Lo sguardo che si posa su di lei non è di chi seduce bensì di chi subisce la seduzione di quella epifania. In omaggio al principio di illusione, siamo presi nella macchina del piacere: prevediamo un tempo felice, il godimento anticipato del piacere immaginato, il guadagno da spendere prima di aver incassato il premio, l’assunzione come reale di tutto ciò che è anticipato dalla fantasia e previsto lungo l’asse del tempo, per l’immediato come per il futuro più lontano. Noi vogliamo che quella bellezza sia bellezza per noi, destinata a renderci felici. Da lei facciamo dipendere le mosse ulteriori che faremo. Siamo presi dal sogno dell’incontro con lei. Si tratta ora di farla uscire dalla sua realtà bidimensionale. Deve diventare vera. Vera per noi. Cos’altro è la bellezza se non l’incontro con la nostra sensibilità viva? Noi non vogliamo solo contemplare un’icona statica e immobile. Aspiriamo al piacere dinamico. Vogliamo che lei si muova. Che venga perso di noi. Che parli a noi.

Quando TANIZAKI JUN’ICHIRO scrive «Trovare la Bellezza non solo nelle cose ma nella trama di ombre, luce e buio che le cose proiettano» allude alle costellazioni di senso che si configurano dinanzi a noi in presenza delle cose. Non è certo la loro semplice-presenza che interessa qui; piuttosto, il profilo superficiale della cosa stessa che rinvia a quanto di nascosto è in essa. La cosa data non è un ’semplice’, ma un composto, la somma degli elementi visibili e di quelli invisibili che si danno nell’esperienza diretta delle cose. Lo scrittore giapponese ci invita a seguire il profilo apparente delle cose per andare al cuore delle cose stesse, dentro le regioni inferiori dell’essere, là dove si annida l’Ombra, pensata in tutte le sue forme. Letteralmente, si tratterà dell’ombra proiettata dalle cose, la loro parte in ombra, ma anche la parte bassa, nascosta, innominabile e innominata, taciuta, velata: le nostre parole non dicono l’inconfessabile, l’indecidibile, il rimosso, il denegato… L’Ombra è anche il male che è in noi, nelle cose. L’arte e la letteratura del Novecento ci hanno restituito essenzialmente l’esperienza del negativo, senza farne un oggetto di condanna né un’occasione di ripulsa: hanno attraversato l’inferno e gli hanno dato un nome. La grandezza della letteratura moderna è proprio nell’esperienza del male che lo scrittore restituisce con l’opera. La ‘morte’ dell’arte dovrà essere intesa anche così; la perdita d’aureola dell’artista, la fine dei suoi privilegi risiedono nell’assunzione di responsabilità di fronte al negativo che è nella storia. Quel dato negativo è conservato e rappresentato, illuminato finalmente perché sia riconoscibile e pensabile e nominabile. Anche la bellezza femminile non è più rappresentata come puro ideale, occasione di purificazione ed elevazione spirituale per l’uomo. La donna ormai è creatura della terra, essa stessa impegnata ad esprimere con la parola femminile gli universi di senso che solo la voce femminile può restituire: il desiderio femminile, ad esempio, si incontrerà solo nella scrittura femminile o in una scrittura capace di mimarne le movenze, le pieghe interne, i ritmi (Ne è un esempio eccellente l’ultimo Magris, che con il suo Lei dunque capirà presta la sua penna ad una voce narrante femminile impegnata a riferire il venir meno di un amore, pur grande, al quale lei mette fine per ragioni tutte da scoprire)… E’ la differenza che prevale nella concezione eraclitea dell’armonia: gli opposti coesistono e contribuiscono a dare senso reciprocamente alle epifanie mondane di cui facciamo esperienza. Nadia Fusini scriveva nel 1995 (Uomini e donne. Una fratellanza inquieta): «Di un essere che definiamo un uomo, una donna, dovremmo poi dire il come: come è donna quella donna? E come è uomo quell’uomo? Troveremo che siamo tutti sempre spostati, sempre obliqui, sempre almeno in parte eccentrici rispetto a quel significante, alla sua legge. Questa è la condizione della donna e dell’uomo moderni». E più avanti: «Come sono donna, mi chiedo, io che sono una donna? Quanto incarno di quel significante nel reale? La verità che scopro interrogandomi è una penosa distanza, un fondamentale smarrimento rispetto a quel nome comune di “donna”; ed è l’avventura in questo smarrimento, o errore, che mi definisce in modo assolutamente decentrato rispetto al punto nodale di quella mia domanda a me stessa. E questo accade non solo a me, che sono una donna, ma scopro lo stesso gioco di complicità, e di estraneità insieme, in ogni maschio che si interroghi riguardo alla legge che lo vuole identificare. Che non si abbandoni incosciente al privilegio della sua identità – pur sempre parziale, quand’anche si aggiudichi pretese universali. Perché, prima o poi, viene per tutti il giorno in cui dovremo dare conto di chi siamo a qualcuno che veramente lo chiede; e allora quella anonima maschera di genere non servirà. L’identità sessuale oggi più che mai è un miraggio, e qualora si dia come compiuta, essa è effetto di un fondamentale misconoscimento. Perché, in verità, non ci sono che esperienze in eccesso o in difetto rispetto al polo maschile o femminile dell’identità. Mogli obbedienti, madri perfette, padri severi, mariti autoritari, maschi aggressivi, femmine passive – chi crede più a queste maschere? […] Ciò che scopro, insomma, se osservo con attenzione il mondo che mi circonda, è che il sapere della differenza sessuale, il taglio, cioè, che l’appartenenza all’uno o all’altro sesso scava nel corpo umano, coincide con ciò che nell’esperienza veniamo a conoscere della nostra radicale, disperata distanza da una sicura identità basata sul sesso. […] Non è da lì che possiamo trarre, uomini e donne moderni, un orientamento o un destino. Neppure l’indicazione di un compito. […] Non siamo animali; e, a differenza di loro, che hanno la propria immagine dentro, a noi l’immagine viene da fuori, è un riflesso. E’ specchiandoci l’uno nell’altra che ci riconosciamo. Se siamo maschi e femmine, lo sapremo dall’altro. E ciò che potremo fare e essere a partire da questo si inscrive oggi nell’orizzonte della nostra libertà». (pp.8-10)

L’immagine di fanciulla qui proposta non è la kore dei Greci: in questa donna non si assomma nessuna perfezione. La sua umanità è tutta da scoprire. Essa deve uscire dalla natura bidimensionale dell’immagine, farsi carne per noi, incarnare un respiro; esprimere a sua volta l’affanno dei giorni, i patimenti della carne, la mancanza che è propria del desiderio; assumere un’identità per noi che contempliamo stupiti la sua bellezza e che ci interroghiamo rispetto ad essa: che ne è di noi, di fronte ad essa? Rispondere a questa domanda equivale a chiedersi cosa sia la Bellezza oggi, dopo Auschwitz; se ci sia ancora bellezza; se è possibile credere ancora che la bellezza salverà il mondo o se, per caso, essa non si stia inabissando con il mondo stesso, con la prosa della tecnica, che modifica la bellezza, sovrapponendosi alla bellezza naturale delle cose. Cosa cerchiamo, infine, nella Bellezza? il paradiso perduto? l’armonia perduta? o, forse, una ragione al di là delle cose che ci salvi dal mondo, nostalgicamente presi dal sentimento della patria perduta? Se abbiamo appreso che Itaca non è alle nostre spalle, a cosa aspiriamo a tornare, se di ritorno si tratta? A quale pace aspiriamo, ancora? Dove troveremo il nostro ubi consistam, oggi, alla fine di tutte le illusioni, compresa l’illusione della Bellezza serenatrice?

*

La beauté

Sono bella, o mortali: una chimera

di pietra! Tutti il mio seno ha estenuato,

ma al poeta un amore ha ispirato

tacito, eterno come la materia.

Ho il trono nell’azzurro, sfinge oscura,

ho il cuor di neve, del cigno il biancore,

odio il gesto che le linee scompone,

al riso e al pianto estranea è la mia natura.

Vedendomi in atteggiamenti fieri

ispirati a scultorei monumenti,

i poeti si danno a studi austeri.

Per stregare così docili amanti

ho, specchi dove il bello si discerne,

gli occhi, i miei occhi dalle luci eterne.

CHARLES BAUDELAIRE, I fiori del male (traduzione di ANTONIO PRETE)

*

Inno alla bellezza

Dall’azzurro profondo tu vieni, o dall’abisso,

Bellezza! Il tuo sguardo infernale e divino

versa confusamente il crimine e il benessere,

e in questo ti si può paragonare al vino.

Il tramonto e l’aurora sono dentro i tuoi occhi.

Come sera piovosa il tuo profumo effondi.

Sono un filtro i tuoi baci, è un’anfora la bocca,

che affatica l’eroe e al bimbo forza infonde.

Sorgi dal nero abisso o discendi dagli astri?

Il Destino incantato segue la tua sottana

come un cane, e dispensa sia gioie che disastri:

non rispondi di nulla, di tutto sei sovrana.

Bellezza, tu cammini su morti che beffeggi,

tra i tuoi tanti gioielli affascina l’Orrore;

l’Assassinio, tra i ciondoli che più tu privilegi,

sul tuo orgoglioso ventre balzella con amore.

L’effimera precipita nel tuo lume, abbagliata,

crepita, brucia e dice: questa fiamma è una brezza!

L’amante che s’affanna sul corpo dell’amata

somiglia a un moribondo che la tomba accarezza.

Che appartenga all’inferno o al cielo, che importa,

Bellezza, mostro enorme, terribile, incantato,

se con gli occhi ridenti e col piede le porte

schiudi d’un Infinito che amo e fin qui vietato?

Che tu sia Sirena o Angelo, diabolica o divina,

che importa, se tu, fata dagli occhi di velluto,

ritmo, profumo, lampo, mia unica regina,

fai il mondo meno laido, più leggero il minuto?

CHARLES BAUDELAIRE, I fiori del male (traduzione di ANTONIO PRETE)

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Canto d’autunno

I.

Ecco, affondiamo nelle fredde tenebre.

Addio, bagliori delle brevi estati.

Sento che cade con dei tonfi funebri

la legna nei cortili, sui selciati.

L’inverno tutto mi penetra: orrore,

odio, brividi, lavoro forzato.

Come il sole nel suo inferno polare

un blocco rosso è il mio cuore, ghiacciato.

Fremendo ascolto il ciocco che ora piomba:

ha l’eco del martello sulla forca.

L’anima mia è torre che soccombe

colpita dall’ariete che la forza.

A sentire insistenti i colpi ancora

par che s’inchiodi una bara d’urgenza.

Per chi? Ieri era estate, è l’autunno ora.

C’è un suono oscuro, come di partenza.

II.

Dei tuoi lunghi occhi amo la luce verde,

dolce beltà, ma ogni cosa oggi è amara:

alcova, amore, intimità che si perdono

dinanzi al sole che ora incendia il mare.

Ma tu, amami, con una tenerezza

materna, pur se sono ingrato. Amante

o sorella, sii l’effimera dolcezza

dell’alto autunno o del sole morente.

Presto la tomba, avida, si spalanca.

Fa’ che la fronte sul tuo grembo io appoggi

e gusti, rimpiangendo l’estate bianca,

della mezza stagione il giallo raggio.

CHARLES BAUDELAIRE, I fiori del male (traduzione di ANTONIO PRETE)

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A una passante

La strada era assordante, urlava tutt’intorno.

Esile ed alta, in lutto, regina dolorosa

una donna passò, con la mano fastosa

sollevando il vestito, di trine e balze adorno.

Leggera, nelle gambe una scultorea grazia.

Negli occhi suoi, cielo ove s’annuncia l’uragano,

bevevo, come quello che è fatto ossesso e strano,

la dolcezza che incanta, il piacere che strazia.

Un lampo… poi la notte! Bellezza fuggitiva,

che con un solo sguardo la vita m’hai ridato,

non ti rivedrò più dunque che nell’eterna riva?

Altrove, in lontananza, e tardi, o forse mai!

Non so dove tu fuggi, tu non sai dove vado,

io t’avrei certo amato, e tu certo lo sai!

CHARLES BAUDELAIRE, I fiori del male (traduzione di ANTONIO PRETE)

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BELLEZZA (e conoscenza). Quelli che dicono con Broch che la conoscenza è la sola morale del romanzo sono traditi dall’aura metallica della parola “conoscenza”, troppo compromessa dai suoi legami con le scienze. Bisogna dunque aggiungere: tutti gli aspetti dell’esistenza scoperti dal romanzo sono scoperti come bellezza. I primi romanzieri scoprirono l’avventura. Dobbiamo ringraziare loro se troviamo bella l’avventura in quanto tale e ne siamo innamorati. Kafka ha descritto la situazione dell’uomo tragicamente intrappolato. Un tempo i kafkologi si dilungavano a discutere se il loro autore ci accordava o no una speranza. No, nessuna speranza. Dell’altro. Anche questa situazione invivibile, Kafka la scopre come una strana, nera bellezza. Bellezza, l’ultima vittoria possibile dell’uomo che non ha più speranza. Bellezza nell’arte: luce improvvisamente accesa del mai detto. Questa luce che irradia dai grandi romanzi non può venir attenuata dal tempo perché, essendo l’esistenza umana continuamente dimenticata dall’uomo, le scoperte dei romanzieri, per vecchie che siano, non potranno finire mai di stupirci.

MILAN KUNDERA, Sessantacinque parole, contenuto ne L’arte del romanzo, ADELPHI 1988, pag.173

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I sei nomi della bellezza

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Indice

I. Beauty. Inglese, l’oggetto del desiderio.

II. Yapha. Ebraico, splendore, fioritura.

III. Sundara. Sanscrito, santità.

IV. Tò kalòn. Greco, idea, ideale.

V. Wabi-sabi. Giapponese, umiltà, imperfezione.

VI. Hozho. Navajo, salute, armonia.

Crispin Sartwell riprende la domanda. E azzarda una risposta. Bellezza, egli dice, è l’oggetto del desiderio. Ma siccome tutto può essere oggetto del desiderio, ovunque può esservi bellezza. A questo punto si tratta di vedere a quali condizioni se ne faccia esperienza. E prima ancora che cosa accade quando la si incontra. Spesso non ci sono neppure le parole per dirlo. Allora bisogna forzare il linguaggio. Guardare in alto e in basso, nella luce e nell’oscurità. Esplorare tutte le vie della bellezza, sia la bellezza alta e perfetta sia la bellezza tormentata o magari ripugnante. Cercare altrove. In altri mondi, in altre culture. Dove scopriremo che la nozione di bellezza è stata declinata di volta in volta in forme differenti. Cosí, per esempio, in Grecia essa ha a che fare con il potere sovrano dell’ideale, nella Bibbia viene associata a ciò che splende, fiorisce, profuma, in sanscrito si dice della santità e in giapponese dell’umiltà. Ne trarremo dunque la conclusione che la bellezza non esiste e solo erroneamente noi attribuiamo allo stesso concetto cose diversissime? Secondo l’autore è vero il contrario. Bisogna lavorare di traduzione, se si vuole capire com’è che esperienze lontane e apparentemente contraddittorie si riferiscono in realtà a un comune orizzonte di senso.

SERGIO GIVONE

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Certe cose ci puntano il dito e ridono.

Certe cose

si nascondono agli occhi della gente

e si odono piangere sommessamente.

Certe cose cadono dal cielo:

cose nere informi, mostri

della notte e terrore

dei giorni.

Certe cose sembrano essere state predisposte

da Dio e dal Diavolo.

Certe cose sono come le aquile.

Vivono in alto

possono benissimo dimenticare la valle.

Certe cose sono come il terremoto:

utilizzano tutte le nostre paure.

Certe cose sono come la Bellezza che è morta da tempo:

solo l’acqua profonda del pozzo può lavarle e destarle.

Emanuel Carnevali

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Caducità

Non molto tempo fa, in compagnia di un amico silenzioso e di un poeta già famoso nonostante la sua giovane età, feci una passeggiata in una contrada estiva in piena fioritura. Il poeta ammirava la bellezza della natura intorno a noi ma non ne traeva gioia. Lo turbava il pensiero che tutta quella bellezza era destinata a perire, che col sopraggiungere dell’inverno sarebbe scomparsa: come del resto ogni bellezza umana, come tutto ciò che di bello e nobile gli uomini hanno creato o potranno creare. Tutto ciò che egli avrebbe altrimenti amato e ammirato gli sembrava svilito dalla caducità cui era destinato.

Da un simile precipitare nella transitorietà di tutto ciò che è bello e perfetto sappiamo che possono derivare due diversi moti dell’animo. L’uno porta al tedio universale del giovane poeta, l’altro alla rivolta contro il presunto dato di fatto.

No! è impossibile che tutte queste meraviglie della natura e dell’arte, che le delizie della nostra sensibilità e del mondo esterno debbano veramente finire nel nulla. Crederlo sarebbe troppo insensato e troppo nefando. In un modo o nell’altro devono riuscire a perdurare, sottraendosi a ogni forza distruttiva.

Ma questa esigenza di eternità è troppo chiaramente un risultato del nostro desiderio per poter pretendere a un valore di realtà: ciò che è doloroso può pur essere vero. Io non sapevo decidermi a contestare la caducità del tutto e nemmeno a strappare un’eccezione per ciò che è bello e perfetto. Contestai però al poeta pessimista che la caducità del bello implichi un suo svilimento.

Al contrario, ne aumenta il valore! Il valore della caducità è un valore di rarità nel tempo. La limitazione della possibilità di godimento aumenta il suo pregio. Era incomprensibile, dissi, che il pensiero della caducità del bello dovesse turbare la nostra gioia al riguardo. Quanto alla bellezza della natura, essa ritorna, dopo la distruzione dell’inverno, nell’anno nuovo, e questo ritorno, in rapporto alla durata della nostra vita, lo si può dire un ritorno eterno. Nel corso della nostra esistenza vediamo svanire per sempre la bellezza del corpo e del volto umano, ma questa breve durata aggiunge a tali attrattive un nuovo incanto. Se un fiore fiorisce una sola notte, non per ciò la sua fioritura ci appare meno splendida. E così pure non riuscivo a vedere come la bellezza e la perfezione dell’opera d’arte o della creazione intellettuale dovessero essere svilite dalla loro limitazione temporale. Potrà venire un tempo in cui i quadri e le statue che oggi ammiriamo saranno caduti in pezzi, o una razza umana dopo di noi che non comprenderà più le opere dei nostri poeti e dei nostri pensatori, o addirittura un’epoca geologica in cui ogni forma di vita sulla terra sarà scomparsa: il valore di tutta questa bellezza e perfezione è determinato soltanto dal suo significato per la nostra sensibilità viva, non ha bisogno di sopravviverle e per questo è indipendente dalla durata temporale assoluta.

Mi pareva che queste considerazioni fossero incontestabili, ma mi accorsi che non avevo fatto alcuna impressione né sul poeta né sull’amico. Questo insuccesso mi portò a ritenere che un forte fattore affettivo intervenisse a turbare il loro giudizio; e più tardi credetti di aver individuato questo fattore. Doveva essere stata la ribellione psichica contro il lutto a svilire ai loro occhi il godimento del bello. L’idea che tutta quella bellezza fosse effimera faceva presentire a queste due anime sensibili il lutto per la sua fine; e, poiché l’animo umano rifugge istintivamente da tutto ciò che è doloroso, essi avvertivano nel loro godimento del bello l’interferenza perturbatrice del pensiero della caducità.

Il lutto per la perdita di qualcosa che abbiamo amato o ammirato sembra talmente naturale che il profano non esita a dichiararlo ovvio. Per lo psicologo invece il lutto è un grande enigma, uno di quei fenomeni che non si possono spiegare ma ai quali si riconducono altre cose oscure. Noi reputiamo di possedere una certa quantità di capacità di amare che chiamiamo libido la quale agli inizi del nostro sviluppo è rivolta al nostro stesso Io. In seguito, ma in realtà molto presto, la libido si distoglie dall’Io per dirigersi sugli oggetti, che noi in tal modo accogliamo per così dire nel nostro Io. Se gli oggetti sono distrutti o vanno perduti per noi, la nostra capacità di amare (la libido) torna ad essere libera. Può prendersi altri oggetti come sostituti o tornare provvisoriamente all’Io. Ma perché questo distacco della libido dai suoi oggetti debba essere un processo così doloroso resta per noi un mistero sul quale per il momento non siamo in grado di formulare alcuna ipotesi. Noi vediamo unicamente che la libido si aggrappa ai suoi oggetti e non vuole rinunciare a quelli perduti, neppure quando il loro sostituto è già pronto. Questo è dunque il lutto.

La mia conversazione col poeta era avvenuta nell’estate prima della guerra. Un anno dopo la guerra scoppiò e depredò il mondo delle sue bellezze. E non distrusse soltanto la bellezza dei luoghi in cui passò e le opere d’arte che incontrò sul suo cammino; infranse anche il nostro orgoglio per le conquiste della nostra civiltà, il nostro rispetto per moltissimi pensatori ed artisti, le nostre speranze in un definitivo superamento delle differenze tra popoli e razze. Insozzò la sublime imparzialità della nostra scienza, mise brutalmente a nudo la nostra vita pulsionale, scatenò gli spiriti malvagi che albergano in noi e che credevamo di aver debellato per sempre, grazie all’educazione che i nostri spiriti più eletti ci hanno impartito nel corso dei secoli. Rifece piccola la nostra patria e di nuovo lontano e remoto il resto della terra. Ci depredò di tante cose che avevamo amate e ci mostrò quanto siano effimere molte altre cose che consideravamo durevoli.

Non c’è da stupire se la nostra libido, così impoverita di oggetti, ha investito con intensità tanto maggiore ciò che ci è rimasto; se l’amor di patria, la tenera sollecitudine per il nostro prossimo e la fierezza per ciò che ci accomuna sono diventati d’improvviso più forti. Ma quali altri beni, ora perduti, hanno perso davvero per noi il loro valore, perché si sono dimostrati così precari e incapaci di resistere? A molti di noi sembra così, ma anche qui, ritengo, a torto. Io credo che coloro che la pensano così e sembrano preparati a una rinuncia definitiva perché ciò che è prezioso si è dimostrato perituro, si trovano soltanto in uno stato di lutto per ciò che hanno perduto. Noi sappiamo che il lutto, per doloroso che sia, si estingue spontaneamente. Se ha rinunciato a tutto ciò che è perduto, ciò significa che esso stesso si è consunto e allora la nostra libido è di nuovo libera (nella misura in cui siamo ancora giovani e vitali) di rimpiazzare gli oggetti perduti con nuovi oggetti, se possibile altrettanto o più preziosi ancora. C’è da sperare che le cose non vadano diversamente per le perdite provocate da questa guerra. Una volta superato il lutto si scoprità che la nostra alta considerazione dei beni della civiltà non hanno sofferto per l’esperienza della loro precarietà. Torneremo a ricostruire tutto ciò che la guerra ha distrutto, forse su un fondamento più solido e duraturo di prima.

1915

(da SIGMUND FREUD, Opere. 1915-1917 – Volume 8°, BORINGHIERI 1976)

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149. Il lento dardo della bellezza. La più nobile specie di bellezza è quella che non trascina a un tratto, che non scatena assalti tempestosi e inebrianti (una tale bellezza suscita facilmente nausea), ma che si insinua lentamente, che quasi inavvertitamente ci si porta via con sé e che un giorno ci si ritrova davanti in sogno, ma che alla fine, dopo aver a lungo giaciuto con modestia nel nostro cuore, si impossessa completamente di noi e ci riempie gli occhi di lacrime e il cuore di nostalgia. Di che abbiamo nostalgia alla vista della bellezza? Dell’essere belli: ci immaginiamo che molta felicità debba andare a ciò congiunta. Ma questo è un errore.

FRIEDRICH NIETZSCHE, Umano, troppo umano

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