Comunità di destino

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Sabato 3 novembre 2012

Contributi a una cultura dell’ascolto
CAMMINARSI DENTRO (436): Una comunità di destino

Giorno d’autunno

Signore: è tempo. Grande era l’arsura.
Deponi le ombre sulle meridiane,
libera il vento sopra la pianura.

Fa che sia colmo ancora il frutto estremo;
concedi ancora un giorno di tepore,
che il frutto giunga a maturare, e spremi
nel grave vino l’ultimo sapore.

Chi non ha casa adesso non l’avrà.
Chi è solo a lungo solo dovrà stare,
leggere nelle veglie, e lunghi fogli
scrivere, e incerto sulle vie tornare
dove nell’aria fluttuano le foglie.

Rainer Maria Rilke, Il libro delle immagini 

Dall’ultimo capitolo dell’opera: La comunità di destino, pp.195-200

«Il goethiano filo rosso, che visibile e invisibile scorre lungo queste pagine, è quello della comunità di destino: una immagine, una metafora, che vorrei ora dilatare nei suoi possibili significati. Nel cominciare a lavorare, giungendo dalla Clinica delle malattie nervose e mentali dell’Università di Milano nell’Ospedale psichiatrico di Novara, nei suoi reparti femminili, mi sono incontrato con pazienti, giovani e anziane, nelle quali si nascondevano segrete inclinazioni ad essere ascoltate, e a chiedere aiuto, nel silenzio delle parole divorate dal dolore. Nel dolore lampeggiava un’aurora muta di speranza, che si è aperta alla speranza solo quando si è delineata una comunità inespressa di volti, e di destini, che ha creato fragili ponti fra chi curava e chi era curata; facendo di monadi dalle porte chiuse monadi dalle porte spalancate: di mondi chiusi nel dolore, e negati alla speranza, mondi dai quali sgorgava la stella filante della speranza. […]

[…] La comunità di destino non si forma se non nella misura in cui si entra in sintonia con la frequenza d’onda del cuore di chi sta male: un cuore pascaliano, un cuore della intuizione, il mio cuore e il cuore dell’altro, un cuore che, trasformando noi stessi, ci aiuta a trasformare gli altri, un cuore che riapre, e incrina, la solitudine creata dal dolore. Un cuore sensibile a un sorriso, che aggiunge un filo alla tela brevissima della vita, o ad una lacrima che cambia la nostra anima. […]
Solo costruendo inedite, impensate, inimmaginate e inimmaginabili comunità di destino, ci è possibile avanzare nella conoscenza dell’anima, dell’anima che grida nel silenzio, e creare associazioni, e legami invisibili, fra il mio cuore e il cuore dell’altro: di chi è lacerato dal dolore, e dall’agonia della speranza.
Ma non nasce comunità di destino se, nel cuore di chi ne partecipa, non ci sia la presaga intuizione delle grandi speranze che ci sono nel cuore degli uomini.
Ci sono infiniti modi di creare comunità di destino ma anche infiniti modi di inaridirle, e di spegnerle, se non c’è in noi la agostiniana passione dell’interiorità: come, e non solo in psichiatria, avveniva, e crudelmente continua ad avvenire.
Ma ogni comunità è sospesa fra abisso e destino, fra salvezza e pericolo, fra speranza e disperazione, fra comunione e solitudine, ed è immensamente fragile: esposta ai venti dell’indifferenza e della noncuranza, dell’impazienza e della leopardiana follia della ragione.
Ogni comunità di cura è alla ricerca del destino che le dia una dimensione ancora più profonda, ancora più aperta alle intermittenze del cuore, e che conduca le anime ferite dal dolore alla soglia dell’attesa e della speranza.

In ogni comunità di cura, ma ancora di più in ogni comunità di destino, rinascono improvvisi orizzonti conoscitivi che, immersi nelle ragioni profonde del cuore, ci avvicinano alla ricerca di senso nel dolore e nella malattia: nella follia.
Ma ogni comunità di destino è influenzata, e ferita, da dolori, cadute, silenzi, speranze infrante, tristezze, delusioni, e si incrina allora il legame invisibile e indicibile che le sta a fondamento.
Certo, una comunità di destino nasce dall’incontro di due soggettività, di due interiorità, di comuni storie personali, che si intrecciano l’una all’altra: senza confondersi.

Il destino originario dell’essere umano è quello di vivere insieme agli altri. Noi siamo gettati nel mondo, e solo se nasce un’alleanza, una comunicazione, uno scambio di esperienze, fra noi e gli altri da noi, riscopriamo quello che noi siamo, e quello che sono gli altri, nella nostra e nella loro dimensione interiore. Questo mettere le cose in comune ci trasforma. Certo, se non insistiamo nel lavoro che, ogni giorno, dovremmo fare su noi stessi, mettendo in discussione ogni nostra pretesa certezza, nulla conosceremmo non solo di noi, ma nemmeno degli altri: nulla di ciò che ci distingue, e nulla di ciò che ci accomuna.
Non si entra in una comunità di destino, o almeno non si accoglie un altro in una comunità di destino, se non si ha pazienza, se non si ha desiderio, se non si ha speranza, e se non si ha la forza di sfuggire al richiamo istantaneo dei nostri sensi, dei nostri occhi, della nostra volontà.
[…]”. 

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