Elogio del conflitto

MIGUEL BENASAYAG, ANGELIQUE DEL REY, Elogio del conflitto, FELTRINELLI

Introduzione

Eredi di un’epoca che ha creduto per lungo tempo nella possibilità di porre fine, un giorno, a ogni forma di conflitto, per questa stessa ragione oggi temiamo profondamente tutto ciò che minaccia le nostre vite e le nostre società. Abbiamo l’impressione, ben nota ai marinai, di navigare con carte ormai inservibili. Pensavamo di procedere a grandi passi verso territori pacificati, ed eccoci di fronte a un ritorno di conflittualità, vistoso tanto a livello individuale quanto sociale. Conflittualità dalle forme sinistre, addirittura barbare. Non c’è dubbio che abbiamo pensato troppo a lungo il conflitto nella sola prospettiva del suo superamento, della sua soluzione: un mezzo in vista di un fine, un momento difficile che si tratta di oltrepassare. Per questo ci troviamo disarmati di fronte alla necessità di ripensare l’insieme delle nostre pratiche sociali – sanità, urbanistica, educazione, politica – senza rinunciare alla ricerca di soluzioni ma anche senza negare un quadro d’insieme segnato da tensioni irriducibili.
La questione di fondo che ci troviamo ad affrontare potrebbe essere formulata in questi termini: come pensare il conflitto altrimenti che nella prospettiva del suo superamento? Come pensare la permanenza del conflitto stesso? Non è semplice, per noi, riflettere sulla possibilità di un impegno in una causa concreta e per una causa concreta, nel momento in cui torna in primo piano la realtà della guerra e della violenza, dell’ingiustizia, dell’oppressione, della minaccia ambientale, quasi fosse l’orizzonte inaggirabile dell’umanità. Tutto, nella nostra cultura e nella nostra educazione, aspira alla cancellazione del conflitto, o almeno alla sua attenuazione. Motivo per cui il persistere di conflitti via via più complessi, nel momento stesso in cui viene interpretato come segno di una “barbarie” che si tratterebbe di sradicare una volta per tutte, acuisce il nostro senso di impotenza e induce a pratiche sociali ancora più inquietanti. All’impasse della missione della civiltà – la cui definizione coincide in genere con il progetto stesso dell’eliminazione della barbarie – corrisponde infatti l’affermarsi nelle nostre società di strategie securitarie e neoigieniste, di forme di biopotere e di guerra che vorrebbero esportare ai quattro angoli della terra il nostro modello di “civiltà”. È una nuova barbarie che nasce dalla volontà stessa di porre fine alla barbarie. Nulla di nuovo, in tutto questo. Sappiamo bene che non si può chiudere la partita con l’antropofagia mangiandosi gli antropofagi. Come scriveva Claude Lévi-Strauss, “barbaro è anzitutto l’uomo che crede nella barbarie”: l’uomo che non vede l’altro come altro uomo, ma come un’anomalia che si tratta di eliminare.
In una civiltà che non tollera i conflitti se non a condizione di riportarli nel quadro della norma, questa nuova barbarie prende di mira figure dell'”altro” molto diverse tra loro. Lo straniero che minaccia le nostre società, l’integralista che mette a repentaglio l’ordine dello Stato, ma anche il salariato o il funzionario che si oppongono alla disciplina e alla “messa in forma” che la cosiddetta “gestione delle risorse umane” impone a tutti noi. O, ancora, l’handicappato, l’individuo in qualsiasi modo “deviante”, il contestatore che rifiuta di costringere la propria denuncia entro le forme di protesta consentite dal potere. Insomma, tutti coloro i quali sembrano minacciare, con il loro comportamento, la loro stessa salute o la salute dei loro simili. Tutti coloro i quali si presentano, in una parola, come possibile fonte di caos, dunque di pericolo per l’ordine sociale istituito.
Tradizionalmente, il barbaro è lo straniero che minaccia una civiltà attestandosi sui suoi confini. Allo stesso tempo, è l’elemento estraneo che consente alla civiltà di autodefinirsi come tale. Nel nostro mondo, ormai unificato dall’egemonia dello “stesso”, quei confini sono invece sempre meno confini esterni, e sempre più confini interni. Mondo unico e ormai dominante che si va risolvendo via via in un insieme di fortezze in cui vivono gli “inclusi”, asserragliati nel cuore della no man’s land degli “esclusi” in cui prende corpo la paura securitaria dei primi. La minaccia è diffusa, insondabile, dunque interna. Se i paesi del nord del mondo sono altrettante piccole fortezze, all’interno di ciascuna di esse esistono regioni simili a fortezze ancor più piccole, circondate da ancor più piccole no man’s lands, e ogni uomo e ogni donna tendono a viversi come microfortezze immerse in inquietanti e microscopiche no man’s lands. Infine, ciascuno di noi è portato a pensarsi come un territorio in cui nuclei di razionalità e di saggezza vivono l’assedio di pulsioni e passioni non civilizzate. La nostra è l’epoca della diffidenza.
Accettare o rifiutare la barbarie: questa appare in genere come la sola alternativa possibile. Alternativa rassicurante, tanto scontata è la risposta a cui conduce. Ma la vera sfida è altrove, almeno ai nostri occhi. Si tratta di imparare a convivere con tutto ciò che abbiamo rimosso e abbandonato come un’anomalia inammissibile. Si tratta di capire in che modo l’essere umano, l’essere umano così com’è, l’essere umano con il suo fondo di costitutiva oscurità, possa costruire le condizioni di un vivere comune malgrado il conflitto e anzi attraverso il conflitto, mettendo fine al sogno o all’incubo di chi vorrebbe eliminare tutto ciò che vi è, in lui, di ingovernabile. L’ingovernabile è parte essenziale della realtà dell’uomo: ogni tentativo di negarlo o di assoggettarlo violentemente a una forma – di formattarlo, come potremmo dire d’ora in poi – è destinato a produrre un ritorno del rimosso, o nel peggiore dei casi un’esplosione di barbarie. “Come nascondersi,” chiedeva Eraclito, “da ciò che non tramonta?” Le società contemporanee non fanno eccezione alla regola. Per questo la rimozione del conflitto può portarle alla barbarie. Per questo imparare a pensare insieme il conflitto e la civiltà è decisivo. Nel solco di Eraclito, la nostra ipotesi sarà che “Polemos, il conflitto, è padre di tutte le cose”.
Questo libro muove da un primo giro d’orizzonte sui “conflitti”, vissuti o riconosciuti come tali dai nostri contemporanei (prima parte), per poi svolgere l’idea di una realtà ontologica del conflitto stesso (seconda parte), e per trarre infine alcuni corollari circa la natura dell’impegno e dell’azione richiesti dalle peculiarità dell’epoca a cui apparteniamo (terza parte).

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