CAMMINARSI DENTRO (123): Ciò che è più proprio.

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Camminarsi dentro è possibile, a condizione che lo spazio in cui dovrebbe darsi movimento sia inteso come dimensione temporale, occasione ripetutamente concessa alla coscienza per parlare a se stessa, occupando posizioni ideali, saggiando le posizioni contrarie, accogliendo in sé le voci del mondo esterno, verificando le idee acquisite, tentando passi in avanti, contemplando l’opportunità di un ritorno sui propri passi…
La condizione ideale per camminarsi dentro è data sicuramente da silenzio e solitudine, pazienza e ascolto.
L’attitudine dominante, tuttavia, è espressiva: inquietudine e irrequietezza, perplessità e rammarico, come tutti i moti dell’anima, richiedono voce, hanno bisogno di ricevere un nome.
Il lavoro interiore, dunque, si traduce immediatamente in scrittura. E’ trascrizione fedele di epoche, fasi, archi, stagioni, istanti eterni. Rinvenimento di sensi nascosti. Scoperta di suoni inauditi e parole sconosciute che finalmente dicono l’incanto dei giorni perduti.
Un filosofo ha scritto più volte – a proposito delle madri che uccidono i loro figli o dei figli che uccidono le madri – che quasi sempre si tratta di persone prive dello spazio interiore indispensabile per elaborare dinieghi e mancanze, assenze e perdite… Se la mancanza di quello spazio può condurre alla follia, è in esso – se impareremo a coltivare la nostra anima, se sapremo fare anima – che incontreremo ciò che è più proprio dell’uomo: ciò che salva, accanto a ciò che perde per sempre. Dalla nostra capacità di raggiungere quel ‘proprio’ dipende la qualità dei nostri progetti come l’incidenza su di essi del nostro destino.

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