Camminarsi dentro (11): Lasciami andare, madre!

angelo

Ieri sono tornato da mia madre. Mi sono ritrovato per errore nel Cimitero della mia città: dovevo portare l’ultimo saluto ad una vecchia signora, nonna di una ragazza tossicomane, ma sono andato a cercarla nel Cimitero della città vicina. Solo dopo un inutile peregrinare da una Chiesa all’altra, mi sono ritrovato lì, davanti alla sua tomba. I miei fratelli hanno voluto realizzare davanti alla sua lapide un piccolo giardino, con terra e scaglie colorate e una piccola staccionata: un luogo poco cimiteriale, insomma. La foto la ritrae, purtroppo, con lineamenti segnati non so bene da cosa, addirittura dalla sofferenza. Io la conoscevo bene. Quella foto mi ha procurato un dolore che non credevo potessi provare ancora. E’ stato come se mi trovassi di nuovo di fronte alle sue malattie, agli acciacchi, al dolore muto che non comunicò mai a nessuno. Mi sono risentito facilmente figlio, legato a lei dal legame indistruttibile che nemmeno la morte ha saputo sciogliere. Come altro chiamare se non amore la commozione incontenibile che mi ha assalito e che dura ancora mentre scrivo? Chi era quella donna che si è impossessata del mio cuore delicatamente e che non mi lascia andare? non che io voglia sciogliermi da lei, anzi è dolce rinnovare ogni volta l’antico dolore che ci legava! Io e lei ci incontravamo sempre sulla sponda del fiume, come ragazzi che lasciano penzolare le gambe nel vuoto e si lasciano andare ai ricordi. Ci lasciavamo cullare dalla voce del fiume, consapevoli entrambi che la sua legge era quello scorrere. Non abbiamo cercato mai di fermare le acque della vita che lambivano i nostri piedi e che spesso ci hanno travolto. Siamo andati a fondo delle cose, visitando gli anfratti e le svolte rischiose delle pareti scoscese dei monti. Abbiamo solcato cieli e mari, in cerca di approdi sicuri, non solo per noi. Insieme pensavamo agli altri, ai segreti affanni dei figli scontenti e delusi, alle inutili contese che nascevano e morivano senza una ragione chiara, cercando il bandolo della matassa invano, ché i capricci e gli astratti furori avevano la meglio sul nostro retto conversare. Le nostre voci erano sopravanzate dal grido risentito e dal lamento. Ci siamo amati in piedi, di fronte alla vita  in fiamme che sconvolgeva le povere case che erano state arrangiate al riparo dall’immensurabile. Noi sapevamo che consistere è questo: cercare di dare un nome alle cose, anche disperatamente, per essere finalmente ascoltati e seguiti, oltre l’ansito affannato della vita, nella pace della sera. Io e lei ci siamo incontrati sempre a sera, nella sua pace. Quello che so di me proviene dal dialogo muto che ho intrecciato instancabilmente con lei, che non si stancava di amare chiunque sostasse presso di lei. La sua mente ospitale non respinse mai nessuno. Riusciva a riportare alla vita ogni pianta prossima a morire. Faceva durare le sue piante per decenni. La sua casa era adorna di vita in ogni stagione. Quando se n’è andata, non so chi abbia preso con sé le sue piante e se abbia saputo fare poi bene come lei. Perché il segreto delle cose è tutto lì, nella capacità di far durare la vita oltre se stessa e la sua apparente finitezza.

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