CAMMINARSI DENTRO (271): Deliri del terzo tipo

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Domenica 4 settembre 2011

Non sono frivolo. Posso dire di non essere frivolo. Timido, sì. E sensibile alla bellezza femminile. Ma frivolo al punto da mettere in pericolo l’equilibrio generale della mia vita, no.
Mi piace raccontare un apologo inventato da me, e raccontarlo come se fosse vero. Entro in Sala dei Professori. Noto che in fondo al lungo tavolo che campeggia al centro della Sala c’è una collega bellissima intenta a leggere. Mi pongo sempre il quesito: entro, saluto e me ne vado? oppure, entro, saluto, mi siedo intorno al tavolo, a una certa distanza a fare le mie cose? oppure, entro, saluto, mi avvicino alla collega, mi siedo di fronte a lei e dopo aver finto di fare le mie cose mi metto a parlare con lei?
Nel primo caso, decido di andar via perché so che è preferibile così: non mi avventuro con l’immaginazione, spingendomi fino ad intrecciare una relazione sentimentale con la collega, come accade che si ritrovi a fare la mente estatica.
Nel secondo caso, debbo dimostrare a me stesso che posso benissimo stare accanto a lei, a pochi metri da lei, magari fare le mie cose, senza rimpianti dopo essere andato via.
Nel terzo caso, mi accingo senz’altro a inaugurare una condotta di malafede, entrando e andando a sedere vicino a lei: il tavolo è lungo e vuoto, per cui non è indispensabile avvicinarsi a lei. Invece, è proprio quello che io faccio, serenamente convinto di non correre pericoli. Dopo tutto, una bella donna non ha mangiato mai nessuno! Naturalmente, c’è di peggio che essere mangiati… Ad esempio, può darsi che quella austera presenza resti a lungo tale, assorta nei suoi pensieri e presa dalle sue cose. Ma la situazione rivelerà presto tutta la sua carica emotiva quando lei risponderà al rito della chiacchiera di circostanza. Da quel preciso istante sarò io a decidere se di sola chiacchiera di circostanza si tratta oppure no. 
La mia frivolezza potrebbe portarmi a concludere senza costrutto che qualcosa è accaduto: che il suo sguardo, che la sua voce, che le parole… insomma, che quella austera presenza ha cessato di essere austera quando le ho rivolto la parola. E da lì, chi potrebbe impedirmi di mettere in moto la macchina dell’illusione, immaginando scenari di sogno, tutti senza fondamento!? 
Se veramente una presenza austera cessa di essere per noi austera presenza e si apre all’evidenza del nostro apparire e prende a dare senso ad esso, allora dobbiamo sicuramente incominciare a porci il problema delle conseguenze della nostra scelta. Non dovremo sottovalutarne le conseguenze.

Io credo che sia sempre così: che la vita ci venga incontro nei modi più disparati e che poi tocchi a noi decidere se arriva alle nostre orecchie una composizione di Bach o solo una canzone di Cole Porter.
Ci sono segni inequivocabili del Destino che ci appartengono e ad essi ‘ci arrenderemo’, anche senza valutare le conseguenze delle nostre scelte. Questo accade quando, anche nel terzo caso, si tratta solo di una bella canzone d’amore che durerà il tempo di una canzone d’amore: ci risveglieremo presto, magari felici di aver sognato, ma torneremo a fare le nostre cose.
Accade, però, anche quello che non possiamo prevedere e che pure può essere ricavato dai segni che si mostrano inequivocabili allo sguardo: le nostre orecchie avvertiranno il pericolo. La sua voce prometterà cieli nuovi e terre nuove, ma è saggio credere alle promesse? prestar fede a tutte le voci che parlano al nostro cuore, non importa per lasciar intravvedere solo un timido e occasionale spiraglio o una distesa di luce, che non si comprende bene se sia prodotta da quella fonte di luce o se siamo noi la lampada che diffonde luce intorno, con i trucchi di radianza che tanto piacciono al cuore? E’ facile sentirsi inondati di luce in un mattino d’inverno, in una vecchia scuola, in una Sala qualsiasi, intorno a uno dei tanti tavoli di cui sono pieni le Scuole, mentre una austera apparizione ci parla già, prima di iniziare a parlare, di cieli nuovi e terre nuove, del miele dell’acacia e del vento che sbatte alle finestre insistente! Non è forse meglio consistere lì, ora, e sentire improvvisamente il sentore d’eterno che ci vuole per far essere evento un semplice incontro occasionale che si è dato in una Sala qualsiasi, di una Scuola qualsiasi? Era un giorno qualsiasi della nostra vita, ma è proprio questo che non potevamo sopportare a lungo. Ci è sembrato giusto fare di quella austera presenza una vera presenza per noi. Siamo andati oltre il suo mero apparire. Le abbiamo chiesto di consistere per noi oltre l’attimo breve di un’ora e basta. Abbiamo chiesto l’istante eterno che non passa e che è destinato a restare nel nostro cuore, intervallo ampio e divertito stupore. La felicità segreta appena intravista è allegra deriva già e attesa! Il confidente abbandono che concediamo a quel nunc è esattamente ciò che ci salverà o che ci perderà. Tutto dipende dalla nostra frivolezza. Solo il Tempo provvede ad istituire file di continuità per noi, ma perché sia dono occorre un altro sguardo, un altro cuore, un’altra voce.

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