Leggere Murakami Aruki, L’uccello che girava le viti del mondo, Einaudi 2007

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Lunedì 14 novembre 2011

Ci sono libri che è difficile ‘recensire’. (D’altra parte, io qui mi limito a riferire la mia esperienza di lettura). La tecnica narrativa adottata dall’Autore non consente di ‘rivelare’ l’esito del racconto, soprattutto quando, come nel nostro caso, l’intero récit poggia sulla suspence: sarebbe importante per la chiarezza dell’analisi critica soffermarsi sullo scioglimento finale, perché magari contiene la chiave interpretativa di tutta l’opera, ma è preferibile non farlo, per non togliere ai lettori il gusto della scoperta progressiva di ciò che il protagonista, nonché voce narrante, comprende di ciò che gli si para davanti.

Se le prime ottocento pagine si mantengono in uno spazio di tipo onirico e si danno transizioni tra diversi piani di realtà, solo in fondo al volume si ‘comprende’ finalmente la natura delle peripezie del personaggio protagonista. Solo dopo aver risolto i problemi che si erano aperti per lui egli si ritrova appieno nella realtà.
L’emozione che aveva accompagnato la prima lettura dell’opera non è più chiara, o meglio, appare chiaro sono alla fine che si era all’interno di una dimensione sospesa. La felicità dell’opera è proprio in questa condizione in cui si trova il lettore, interamente preso dal gioco della narrazione. Alla fine della prima lettura si prova la sensazione di non voler abbandonare il mondo che era stato creato per noi:  a noi, i lettori non resta che valorizzare quel sostare nella lettura stessa, il piacere di stare in quell’intervallo che la vita ci concede, lo stato di grazia dell’emozione estetica che è poi il dono incomparabile della vera letteratura.

Nell’impossibilità di restituire l’intero contenuto dell’opera, occorre concentrarsi sulla scrittura, che è poi ciò che conta: l’invenzione della lingua con le sue peculiari connotazioni fa l’autore. Murakami indugia su particolari anche insignificanti, ma non si tratta di un elemento debole della scrittura stessa. In realtà, l’indagine personale mira a districarsi nella selva delle circostanze occasionali e non che rendono enigmatica la parte di esistenza da cui il racconto prende le mosse. Eventi di scarso rilievo sono assunti come termini di uno spazio misterioso e sfuggente. Quell’indugio non rientra nel già noto rinvio, nello spostamento in avanti di fatti e di eventi chiarificatori. Ogni passo, una nuova sospensione, come se la realtà, fin nei suoi minuti dettagli, fosse tutta pervasa di mistero. Le circostanze dell’esistenza del protagonista sono sicuramente segnate dal carattere dell’indecifrabilità, almeno apparente. Lo stallo a cui egli è consegnato è ciò che imprime ritmo alla macchina narrativa. La sapienza della scrittura è nel gioco continuo di rimandi, che non consente mai di concludere con un giudizio definito su questo o quel personaggio: la vita, con le sue ambigue risonanze e con le ambivalenti risposte che ci dà, è qui interpellata in tutta la sua potenza evocativa. Siamo sempre chiamati altrove. Il senso delle cose non è mai dato una volta per tutte. Bisogna cercare, per sciogliere tutti gli enigmi in cui ci troviamo avviluppati.

Il non detto prevale ad ogni piè sospinto: la vera identità dei personaggi, il vero significato di eventi che restano sospesi nell’aria perché il loro corso è stato interrotto da altri eventi non meno importanti per noi, il passato con i suoi enigmi, la storia che ritorna attraverso i racconti di conoscenti che la vissero in prima persona. Diciamo che la realtà si dispiega davanti a noi lentamente, per spostamenti progressivi dello sguardo, che si muove sulle cose non potendo contare su un terreno solido. Frammenti di senso riposano su frammenti estesi della narrazione. Essi non trovano in se stessi il senso che manca a una prima osservazione attenta. Solo le scoperte successive svelano allo sguardo il senso di ciò che poco fa stava davanti agli occhi del personaggio.

La lingua non è fatta di schegge di saggezza sparse qua e là. Ciò che viene restituito è l’umile splendore della vita quotidiana, il vivere comune immerso negli oggetti noti da sempre. L’effetto straniante di un abbandono si avverte dal modo di ‘apparire’ degli oggetti stessi: il significato di un guardaroba femminile, ad esempio, è tutto da decidere, dopo che la donna se ne sia andata…
La voce narrante ci guida per mano. Pagina dopo pagina non dobbiamo fare nessuna fatica ad attingere il senso generale del racconto, salvo ritrovarsi più volte immessi in realtà insospettate, con i pochi elementi in mano che abbiamo di cui servirsi fino alla fine. Tutto acquista senso in fondo al testo, ma non si prova alcun rammarico per la conclusione ormai ‘raggiunta’: il cuore della scrittura non andrà cercato nello sbocco assegnato al racconto.
E’ come se ci trovassimo di fronte a unità testuali e di senso più ampie della pagina e del capitolo. Bisogna ‘conservare’ ogni grumo delle esistenze incontrate. Sembra che non ci sia posto per il personaggio maggiore a cui contrapporre il simmetrico personaggio minore: veramente, come direbbe Kundera, ogni individuo ha il diritto di esistere. Anche il più spregevole di tutti concorre a far ‘reggere’ la struttura del récit.
La narrazione dopo tutto restituisce il ritmo della vita. Non è forse vero che il concreto sia ciò che dura, e ciò che dura non è forse il ripetersi sempre uguale della vita che si ostina a fare dono di sé nelle forme più disparate, ingannandoci ora con l’apparente ripetitività delle cose ora con lo sbadiglio che ci assale quando non si direbbe che le cose stesse meritino di precipitare nella noia e nell’impermanenza?

Da una prima lettura si può dire solo bene di Murakami. Mentre mi inoltro nella lettura di 1Q84, appena uscito, penso già di tornare sull’Uccello che girava le viti del mondo, perché le giornate trascorse con quel Murakami erano rallegrate da una bella continuità istituita dalla consuetudine di vivere con lui: sicuramente, la prossima volta che lo leggerò sarà diverso. Mi accorgerò che mi era sfuggito un dettaglio non marginale che mi aiuterà ad allontanarmi dalla mia realtà con più costrutto.

Avevo bisogno di una scrittura onirica e visionaria, come si dice ormai di Murakami, per integrare nella coscienza spazi di realtà che premono. E’ tempo di tornare a sognare una vita meno schiacciata sul presente. Allontanarsi un po’ non è tradire. D’altra parte, non è più tempo di engagement. Il lettore poi è un allegro parassita che si nutre dei piatti più impensati. A cosa non sarebbe disposto, pur di ottenere l’allegria della mente?

Uscire da questa lettura non è facile, perché essa costringe a chiedersi quale posto si debba assegnare al sogno e alla visione e se meriti credito il regime delle coincidenze e delle circostanze fortuite che pure fanno storia.

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Come esercizio di lettura, Murakami con tutta la sua opera andrà riguardato soprattutto come testo: suggerisco il piacere del testo, perché emerga l’universo di senso che è proprio di questa scrittura.
Distinguere l’Autore dal Testo, dalla Scrittura.

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