Curiamo le nostre ferite

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Lunedì 18 febbraio 2013

UNA GIORNATA AL CENTRO DI ASCOLTO (4): Curiamo le nostre ferite

Solo a momenti l’uomo fa esperienza di una pienezza divina, dopo la vita è sogno di essi Friedrich Hölderlin

C’è un territorio della coscienza da esplorare per ogni persona che entri nel raggio della nostra azione: l’esperienza del tempo, con la percezione più o meno chiara delle epoche della vita trascorse, con il sentimento del tempo che accompagna lo sguardo dell’utente. Chiamiamo ‘sentimento del tempo’ il modo personale di sentirsi uomini, cioè abitatori del tempo. Tutta la nostra esistenza è ‘tempo’.
Nel ‘vissuto’ personale non conta il tempo effettivamente trascorso e le stagioni della vita. Non ha molta importanza dire, in prima istanza, infanzia, adolescenza, maturità…, come se ogni stagione dovesse portare ad ognuno di noi gli stessi doni!
Abbiamo fatto tesoro di racconti che hanno modificato sensibilmente lo sguardo sul tossicomane e i suoi destini. Il resoconto più drammatico è stato quello di una ragazza non più tale che si batteva da due anni per riconquistare la fiducia del Giudice che le aveva tolto la bambina appena nata. Al termine della sua testimonianza, gridò: «Ma dove sono stata io negli ultimi trentadue anni?»
La percezione di questo dolore è difficile per noi che, magari, abbiamo messo in colonna gli anni uno dopo l’altro, per interi decenni, assegnando ad ogni anno un chiaro significato nell’evoluzione della nostra vita, contribuendo con le nostre energie spirituali a dare senso ai tempi dell’esistenza. Dovremo procedere con cautela e con pazienza, senza forzare i tempi della coscienza: non si tratta di ‘sistemare’ quel lungo intervallo di tempo, come se competesse solo alla memoria provvedere ad esso! Non basta e non giova assegnare un significato, come se fosse questione di chiarezza! La stessa attribuzione di senso a quell’epoca trascorsa dipende da altri fattori decisivi, come il lavoro, la vita dei sentimenti, il senso di sé…
Ce la caviamo dicendo ‘vuoto’, per definire quei trentadue anni: lei stessa ha confessato di ‘non esserci stata’ in quegli anni, di non avere ricordi, perché fuori di sé, in uno stato di coscienza alterato, che, una volta passato, porta via con sé tutto il tempo ‘occupato’ emotivamente da altro.
Resta da capire, anzi, da comprendere cosa significhi portare il peso di quegli anni ‘vuoti’, quale senso dare ai giorni ora, in questo tempo della coscienza in cui affiorano solo ricordi ‘negativi’: il male fatto agli altri e a se stessi, lo strascico dei mancati giorni. C’è chi si aspettava risposte che non sono mai arrivate. C’è chi ha pianto, si è disperato, si è inaridito, ha smesso di credere. Come rimediare a tutto ciò?
Solitamente, chi fa esperienza di quel ‘vuoto’ giudica irredimibile il tempo inesorabilmente trascorso. È un tempo perduto, che non tornerà in nessun modo, non redimibile, che non è possibile riscattare. I filosofi hanno parlato di malinconia del così fu, per significare la caduta in uno stato di stagnazione del desiderio a cui si condanna chi è convinto di non poter essere perdonato, di non poter ‘redimere’ il passato concordando con gli altri, con tutti gli altri, un nuovo senso per esso: il velo della compassione deve calare necessariamente su di esso, per poter poi riuscire a perdonare se stessi. Se non è possibile condividere con nessuno il bisogno di perdono, il ‘peso’ di quegli anni resta intatto.
‘Dissodare il terreno’ delle relazioni personali, in un programma terapeutico, vuol dire tentare di ‘ricucire’ rapporti cercando le persone una per una: è importante verificare fin dove sia possibile. Naturalmente, sarà l’interessato a cercare il rimedio, a tentare la riconciliazione, a ‘raccogliere’ il perdono che spesso arriva inatteso.
L’aiuto che possiamo dare a chi si ritrovi a fare i conti con i propri ‘pesi’ è sempre lo stesso: possiamo curare gli altri solo con le nostre ferite. Ci guiderà il ricordo sempre vivo dei torti fatti agli altri, non importa quanto grandi. Io so, ad esempio, che alcuni gravi fraintendimenti che si sono verificati negli anni in cui ho insegnato hanno determinato rotture irreparabili con alcuni genitori influenti nella città, che a distanza di venti anni e più mi stanno facendo pagare le scelte fatte: il tempo non ha curato le ferite; il distacco si è fatto definitivo; intere zone della realtà sono ostruite per me, cioè non posso contare su persone di cui avrei bisogno. Questo è un ‘peso’ grande. E non è il solo!
Con le mie ferite vado all’incontro con le ferite di quella ragazza e con quelle di tutti gli utenti che si ritrovino a fare i conti con il loro passato.
Noi ci affanniamo sempre a dire, nelle nostre conversazioni: espiare, perdonare, perdonarsi, redimere il tempo ‘perduto’, ma non è sempre possibile. Ci sono pesi che ci accompagneranno per tutta la vita, che opprimeranno la nostra coscienza nei momenti di malinconia, che costituiranno sempre un problema per noi, una questione aperta che vorremmo chiudere per trovare pace.
Possiamo curare gli altri solo con le nostre ferite. L’esperienza del dolore, a cui non ci siamo mai sottratti, cioè l’esperienza della libertà, è il campo dell’esperienza in cui si dà possibilità di incontro. Il senso della medesimezza umana rende possibili i complessi processi empatici, che mettono capo non all’occasione propizia e non si riducono a giusta distanza: ciò che conta è la qualità degli accordi. Curando le ferite degli altri, curiamo le nostre ferite.

Due studenti avevano frequentato per molti anni un vecchio maestro molto saggio. Un giorno il maestro disse loro: «Ragazzi, è venuto il tempo che andiate per il mondo. La vostra vita sarà felice se sarete in grado di trovare in essa tutte le cose splendenti».
Gli studenti si accomiatarono dal maestro con un misto di tristezza ed eccitazione e presero due strade diverse. Molti anni dopo si ritrovarono per caso. Erano felici di rivedersi e ognuno era molto curioso di sapere come l’altro se l’era cavata nella vita.
Il primo disse malinconicamente al secondo: «Ho imparato a vedere molte cose splendenti in questo mondo, ma purtroppo sono ancora infelice. Perché ho anche visto molte cose spiacevoli e tristi, e ho la sensazione di non aver prestato la dovuta attenzione agli insegnamenti del maestro. Forse non mi colmerò mai di gioia e di felicità, semplicemente perché sono incapace di vedere splendere tutte le cose».
Il secondo allora, raggiante di felicità, disse al primo: «Non tutte le cose sono splendenti, ma tutte le cose splendenti sono».

L’Epilogo di
Hubert Dreyfus e Sean Dorrance Kelly, Ogni cosa risplende. I classici e il senso dell’esistenza, Einaudi 2012, pag.210

La saggezza di questo Epilogo è ciò che sostiene ogni relazione di aiuto: dalla parte dell’Educatore, la consapevolezza che «la realtà è piena», come ci ha insegnato la grande psicoanalisi, costituisce un’autentica certezza. Anche in un piccolo paese di provincia, al di là dei beni strumentali e dell’offerta dell’industria del tempo libero, non manca la possibilità di relazioni umane significative, come è tipico di ogni comunità umana. Se consideriamo, poi, la natura ‘relazionale’ della mente, che si istituisce e si consolida a partire dai processi di attaccamento successivi alla nascita, è facile concludere che la relazione di aiuto andrà costruita intorno alla realtà, più che alla figura dell’Educatore o dell’utente. Quest’ultimo sarà posto al centro, alla maniera di Rogers, ma il movimento che si imprimerà all’azione sarà orientato interamente verso un sano rapporto con la realtà.
L’esperienza dell’incontro con la realtà umana dell’altro è il criterio di verità: dalla qualità delle nostre relazioni umane dipende il senso che diamo alla nostra esistenza. L’azione quotidiana dei soggetti che noi siamo è volta ad instaurare o a ripristinare o a ‘curare’ tutte le nostre relazioni. La manutenzione degli affetti è lo sfondo su cui si colloca l’efficacia dei nostri atti liberi.

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