Il tempo dell’elaborazione (1)

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Lunedì 10 ottobre 2016

Il tempo dell’elaborazione (1)

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Considerando le età della vita, ad ogni nuova svolta accade di chiedersi quanto abbia influito sul senso di sé che ci accompagna l’educazione ricevuta in famiglia, l’aria che si respirava in casa, il sentimento del tempo, con le paure di ogni genere che segnavano i giorni.
Tutti noi proviamo paura, magari diciamo timore, incertezza, perplessità, dubbio, esitazione, per non dire paura. Preferiamo tacere il sentimento che accompagna l’incertezza, che verte su «ciò che vi è» là fuori, magari prima di uscire di casa. Ogni nuovo incontro, ogni appuntamento importante ci mette agitazione, eccita la nostra fantasia: anticipiamo gran parte di ciò che vorremmo accadesse, ma che puntualmente non avviene. E lo sappiamo bene ogni volta, quando ci disponiamo nell’attesa di un incontro.
I teorici della politica hanno parlato della «piccola paura» che proviamo e che fa bene alla democrazia: è il sentimento del limite, che ci fa temere sanzioni e punizioni.
I rimproveri di mio padre mi hanno accompagnato fino alla sua morte, e su di essi ho scritto dolorosamente contro: posso dire oggi che non sopporto il più piccolo rimprovero.
Le parole che ci venivano riservate erano accompagnate dalla mortificazione: gli adulti ci dicevano che dovevamo abbassare lo sguardo, e non dovevamo ridere durante la cerimonia dei rimproveri. Solo tardi ho compreso che mortificare è dare la morte, volere la morte della parte negativa di una persona, e le intenzioni erano buone, ma forse il bersaglio che veniva colpito non era sempre quello giusto: ne usciva ferita l’anima, mortificato non solo l’orgoglio ma tutto il sentimento di sé. I nostri educatori, i genitori e le maestre, non distinguevano tra la persona e il comportamento. Noi capivamo che dovevamo essere sbagliati noi, se persistevamo negli stessi comportamenti. Non sempre a un rimprovero seguiva un abbraccio. O forse, sì. Rischiamo oggi di pensare che avremmo avuto bisogno di più amore, ma non è vero. Abbiamo avuto tanto amore, solo che era forte la paura di essere picchiati, cosa che accadeva ogni giorno. Forse, abbiamo ricevuto troppi schiaffi, perciò oggi non sopportiamo lo schiaffo del silenzio che uccide. Se ci chiediamo cosa leghi questo nostro presente al più lontano passato della nostra vita, francamente non sappiamo più rispondere. La tentazione di credere che le rinunce e gli abbandoni e le dimissioni di oggi siano il frutto e il riflesso di più antiche ‘offese’ è da respingere. Una piccola parte di noi patisce l’offesa dell’amor proprio ferito. Altre ragioni prevalgono in chi mostra di non conoscere la strada che porta al nostro cuore. Elencarle tutte o dare ragione di quelle che più verosimilmente influiscono sulle scelte altrui è vano esercizio, ché conta solo nell’elaborazione simbolica del ‘lutto’, che andrà condotta fino in fondo, magari ingannando il cuore con qualche bella menzogna che lo aiuti a riprendere il cammino interrotto. La tendenza a ‘sublimare’ è meccanismo di difesa efficace ancora e per qualche aspetto ‘nobile’, giacché riscatta il ‘nemico’, con l’offerta unilaterale dell’onore delle armi. Se poi riesce a prevalere il gioco preferito del riconoscimento realistico della vittoria conseguita dall’altro, abbandonare il campo è operazione poco dolorosa, che non è segnata da alcun rimpianto: alla malinconia del «così fu» segue il sentimento delle cose belle che pure prevalsero in un’avventura comune lunga e feconda.
La dissimulazione onesta prevarrà. Diremo una bugia. Assegneremo all’età raggiunta e alla stanchezza la decisione di andar via, anche se non ci sentiamo né stanchi né vecchi. Chi vuole raccattare gli ultimi pettegolezzi, per vederci chiaro, non avrà soddisfazione. Non abbiamo nulla da imputare alla nostra infanzia, che è stata felice, anche se accompagnata dalla paura; né al comportamento altrui, oggi, che era segnato da tante buone ragioni, se siamo qui a fare i conti con un ultimo distacco. Le parole pronunciate da Kant morente – Es ist gut, Sta bene – ci piacciono, perché indicano accettazione di un compimento; come ci piacciono le parole di Goethe morente – Mehr Licht, Più luce -, perché indicano domanda ulteriore di senso. Non di morte si tratta, certo!, ma che qualcosa si sia esaurito è certo. Krisis vuol dire soprattutto passaggio a un nuovo ordine. Fine di un ordine e transizione verso un nuovo ordine. È tempo di pulizie in casa. Le vecchie carte vengono buttate via, per fare posto a ciò che verrà. Il timore del nuovo è sentimento antico, forte come i rimproveri di un tempo e i silenzi studiati di oggi.

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α  Si devono al pediatra e psicoanalista inglese Donald Winnicott le nozioni di “oggetto transizionale” e “area transizionale”. L’oggetto transizionale (la pluricitata coperta di Linus) è quell’oggetto che consente al bambino la graduale separazione dalla madre, che dà luogo alla paradossale esperienza di sperimentare l’assenza pur mantenendo un senso di continuità. La sua funzione è quella di unire e separare al contempo il bambino e la madre, offrendo un contenimento ai vissuti angosciosi e depressivi che il processo di separazione porta con sé. L’area transizionale è un’area intermedia tra l’individuo e la realtà: non è nel soggetto, ma non coincide nemmeno con la realtà esterna. L’area transizionale, nella sua dimensione illusoria e creativa di simbolizzazione, si configura come spazio del gioco e dell’esperienza culturale.
Proprio a partire dall’analogia tra esperienza ludica ed esperienza formativa, entrambe caratterizzate da una dialettica di finzione e di realtà, Riccardo Massa ha riconosciuto una funzione di natura transizionale all’educazione. Dove per dimensione transizionale “si intende che l’educazione viene a istituire una regione intermedia e mediativa, di contatto e di passaggio tra mondo esterno e vita soggettiva, richieste cognitive e biso­gni affettivi, cose reali e immaginario infantile, attraverso modalità di sostituzione simbolica e di sperimentazione operativa” (Massa, 1987).
Il concetto di spazio transizionale (nella declinazione di area potenziale) è stato quindi utilizzato come pertinente descrittore dell’area dove ha luogo l’evento formativo a qual­siasi età (Mattana, 1993). Uno “spazio tempo di esitazione”, distinto ma contiguo allo spazio-tempo non formativo. In esso ha luogo una potente trasformazione, ma al suo interno tale trasformazione è protetta e può quindi essere elaborata.
Risulta evidente quanto tale interpretazione dello spazio educativo sia feconda per tentare di illuminare la complessa relazione tra educazione e vita. Non solo, essa si rivela ancor più preziosa laddove l’intervento educativo abbia a che fare con situazioni di crisi e di disagio, in cui la trasformazione necessita l’elaborazione di vissuti angosciosi e terribili, connessi al sentimento della separazione e della perdita.
Oggi il concetto di elaborazione si è esteso fino a comprendere l’attività psichica nel suo complesso. Essa indica la fatica di assimilazione interna della carica affettiva di un evento o di una rappresentazione in contrapposizione a una risposta di tipo reattivo ed evacuativo verso l’esterno. In questo senso la capacità di pensare i propri pensieri e un’attività riflessiva emotivamente situata sono entrambe esempi di elaborazione. Fare dell’elaborazione il concetto-chiave in educazione per indicare l’appropriazione soggettiva (significazione) dell’esperienza vuol dire sottolineare alcune caratteristiche già presenti nell’accezione freudiana di Verarbeitung. Innanzitutto l’elaborazione implica una fatica (labor) cognitiva e affettiva che il soggetto deve compiere in proprio. In questo senso un modello di elaborazione pedagogica dell’esperienza trova senza dubbio la sua più naturale rispondenza operativa in un approccio di tipo laboratoriale, che invita il soggetto ad attivarsi in prima persona. In secondo luogo, l’elaborazione implica la possibilità di differimento dell’azione. Tradotto in chiave educativa, ciò significa che piuttosto che “far fare delle cose” l’obiettivo deve essere quello di inaugurare tempi e spazi di riflessività sulle cose che si fanno. L’elaborazione ha quindi a che fare con la funzione della memoria e della narrazione ai fini di una presa di coscienza sui propri processi interni. L’elaborazione non può essere ridotta a un’operazione intellettualistica, ma ha a che fare con l’esperienza vissuta. Più che capire si tratta di comprendere, un’azione che coinvolge il soggetto nella sua interezza. Di qui il valore profondamente trasformativo del processo elaborativo e, quindi, le resistenze al cambiamento che esso attiva. Ecco perché, benché l’elaborazione non possa essere compiuta da altri fuorché dal soggetto stesso, essa abbisogna di una mediazione relazionale e di uno spazio protetto in cui avere luogo. (da MARIO MAPELLI, Il dolore che trasforma. Attraversare l’esperienza della perdita e del lutto, Franco Angeli Editore, pp.33-34)

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