Il tempo dell’elaborazione (4) – Il tempo dell’amore

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Lunedì 17 ottobre 2016

Il tempo dell’amore

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Il potere della memoria non risiede nella sua capacità di far risorgere una situazione o un sentimento effettivamente esistiti, ma in un atto costitutivo della mente legato al proprio presente e orientato verso il futuro della propria elaborazione – Jacques Dérrida

Angelo smemorato

Continuare a scrivere sull’elaborazione è segno del carattere residuale dei discorsi attuali: ciò che resta è un resto, il sopravvivere di ciò che vorremmo inerte, non più vivo, né operante in noi. Il riconoscimento di un peso che avrebbero ancora le cose significa, poi, che il desiderio deve essere interpretato ancora, nonostante i ripetuti addii e le rotture e la distanza e il tempo trascorso. Catalogare e ‘archiviare’ il passato è possibile a condizione che sia tutto chiaro. Il lavoro della memoria, tuttavia, comprende il presente, per il quale si procede nell’elaborazione dell’esperienza vissuta, e il futuro che viene preparato dal modo di consistere oggi qui. Il carattere simbolico dell’elaborazione implica una ricomposizione di sé su altri piani di realtà che non sono dati, non sono già dati.

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Siamo abituati a concepire l’elaborazione – la riflessione sull’esperienza vissuta – come strumento da mettere al servizio dell’abbandono, della perdita, del lutto. Se prevale questo richiamo al lavoro da fare su di sé quando siamo nel ‘lutto’, cioè in tutte le forme di perdita di cui è dato fare esperienza, sarà necessario estendere il ‘lavoro’ a mancanza, lontananza, assenza, che non comportano di necessità una perdita. La malinconia d’amore, che è consustanziale alla mancanza, andrà combattuta con le opportune strategie di apparizione, a cui faremo ricorso nella vita quotidiana per esorcizzare la mancanza.
Il desiderio di conoscenza (dell’altro che è in noi, come dell’altro che è fuori di noi) che accompagna la domanda d’amore chiede di sapere ma non sempre è orientato nella direzione giusta: lo sguardo si rivolge al passato, come se in quel tempo immemoriale fosse depositato il germe della verità che salva. Vogliamo sentirci dire che le cose sono andate come vorremmo che fossero andate (solo chi sia dotato di maturità affettiva saprà accogliere la verità dell’altro che si dischiuderà davanti a noi attraverso i suoi racconti, che andranno ascoltati e basta: è vera maturità saper custodire nel proprio cuore la realtà dell’altro, oltre le paure e le insicurezze personali…). Ci rendiamo prigionieri del passato, quando la vera conoscenza è del presente: la persona con la quale siamo impegnati a stabilire una relazione è una presenza, si farà per noi vera presenza, se noi sapremo costruire un legame che non sia condizionato dalla paura né dal risentimento.
L’altro è impegnato a consistere nel presente, essendo preso, come noi, dal compito di elaborare il proprio  passato, per farne un’occasione da mettere al servizio del presente. Il presente-ora – luogo dell’esperienza che non si esaurisce nello spazio breve di un giorno, di un avvenimento, di un gesto datato – è tempo-ora, è il nunc che siamo impegnati a dilatare nel dominio del tempo vissuto, per farne possibilità di consistere e certezza del sentire. L’ordine del cuore, infatti, non è estraneo alla dimensione personale del tempo: assegnare all’altro il posto che gli compete nella percezione che ne realizzeremo è operazione ripetuta nel tempo, che ci consente di verificare la bontà del nostro interesse, la forza del sentire, il valore assegnato alla persona.
Chi si staglia davanti a noi non è mera presenza, vuota parvenza: l’apparizione dell’altro è ingresso nella nostra esistenza, se contribuiremo a dare senso a quella apparenza, legandola saldamente alla realtà dell’altro. Si darà incontro, se sapremo, da una parte e dall’altra, tenere insieme apparenza e realtà della persona, istituendo le file di continuità che costituiscono la vera garanzia della bontà della quotidiana contrattazione del significato delle cose; è nell’ancora che torniamo a ripetere e nell’ancora della volontà di sapere che sarà reso possibile dare vita a quella continuità che farà poi storia. E sarà storia da costruire, non rievocazione del passato personale, da spendersi in un improbabile commercio dei significati delle cose. E’ il futuro della propria elaborazione di cui parla Jacques Derrida.
Vivere nel passato, avendo assegnato ad esso il potere di fare giustizia nell’amore, perché luogo in cui sarebbe depositata la verità personale, è consegnarsi alla malinconia del così fu, vissuto come imperdonabile, imprescrittibile, irredimibile: è rinunciare alla possibilità della redenzione del tempo, al riscatto delle azioni compiute, al lavoro di elaborazione del passato, in vista di un significato ulteriore da dare alle cose. E’ il presente il tempo dell’amore, ché è il tempo della presenza, della trascendenza personale, dell’ulteriorità di senso, che contribuiamo ad assegnare giorno per giorno alla vita della coscienza con i nostri atti.
La valorizzazione della trascendenza della persona dell’altro passa attraverso il riconoscimento della trascendenza come realtà della persona che attingiamo facendoci guidare dal suo modo di apparire: solo tenendo insieme apparenza e realtà riusciremo a cogliere la profondità del sentire personale, cioè la sfera del sentimento, che ci conduce al cuore della realtà della persona.
Il visibile ci conduce sempre all’invisibile dell’esperienza dell’altro. Il volto, lo sguardo, la voce, la parola, gli atti dell’altro sono i suoi invisibilia, la realtà più vera della persona. Ad essi daremo voce, nella contrattazione dei significati: indicheremo ciò che ‘vediamo’, ciò che l’amore ci fa vedere. L’intelletto d’amore saprà dare un volto alla persona, saprà risalire dallo sguardo al soggetto inconscio del desiderio, si farà guidare dalla voce verso le oscurità dell’Ombra, accostandosi sempre più alla realtà della persona. Il presente è lo spazio ampio della temporalità della coscienza, il luogo del suo consistere, la dimora del suo essere. L’ek-stasis mondana è la propensione oltre i meri fatti, nell’atmosfera rarefatta ma concreta delle parole, dei gesti, delle azioni, che materializzano la spinta del desiderio: la tensione verso l’altro, che si afferma nel desiderio di conoscenza dell’altro, rivela i modi di darsi e di sottrarsi dell’anima, nella sua apertura alla dimensione estatica dell’altro: la nostra trascendenza è protesa verso la trascendenza dell’altro; i nostri invisibilia cercano gli invisibilia dell’altro. Il commercio delle anime, quando si dia incontro, costituisce il luogo della verità: per noi, «la verità è il tono di un incontro» (Hofmannsthal); solo imparando ad «abitare la distanza» (Rovatti) poi riusciremo a dare voce adeguata al desiderio, trascorrendo coraggiosamente da un ‘luogo’ all’altro, secondo i suoi spostamenti metonimici.

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α Cadiamo sempre in un errore prospettico di cui non ci rendiamo conto quando ci attardiamo su posizioni sterilmente preoccupate del mero recupero del passato, mentre dovremmo considerare il vero compito di consistere nel presente, il nostro presente, e da lì muovere i nostri passi verso un futuro da costruire come spazio dell’elaborazione dell’esperienza vissuta, luogo di tutti i ‘vissuti’ che affiorano alla coscienza e che reclamano una ulteriorità di senso e spazio nella stessa coscienza, l’istituzione di file di continuità nella trama di sempre nuovi racconti, perché ciò che è stato non precipiti nella malinconia del ‘così fu’: solo ciò che è raccontato prende vita; dare forma alle cose è questo nominare e dare voce a ciò che preme dolorosamente in noi e che ci chiama a sempre nuovi compiti, all’esercizio rinnovato della parola che incanta e commuove il viandante che è in noi. Rimettersi in cammino gioiosamente è la scienza della vita che è vita davvero.

α È coraggio di vivere questo congedarsi dalle secche del passato che non passa, per dare nuova voce ad ogni richiamo delle cose che chiedono senso, che si dia senso a tutte le voci che si accampano sulla scena della vita intorno a noi: ad esse corrispondere non è tradire il senso della nostra presenza – quasi un venir meno alla fedeltà alla terra che ci sostiene e che ci nutre -, se il posto che andranno ad occupare in noi quelle voci contribuirà a dare senso alla nostra vita, facendo diventare biografia l’infranto, se chi ci guarda è interessato a raccontarci la favola della nostra vita. È questo corrispondere alle nostre attese che dà senso all’attesa e alla speranza. Avviene, talvolta, che un ascoltante riesca ad essere angelo per noi. Massimo Cacciari ha scritto che «la creatura è in ascolto»: quell’«è» va scritto in corsivo, per significare che non di pochi ascoltanti di professione è il compito di costituire occasione di salvezza per qualcuno. Ad ognuno di noi sia angelo chi gli sta accanto, che sia capace di raccontare a noi quello che siamo stati, perché sia possibile consistere in questo presente e sperare di essere amati ancora.

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