Il tempo dell’elaborazione (5) – Tenersi il dolore dentro

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Lunedì 26 dicembre 2016

Tenersi il dolore dentro

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Mentre l’anno volge al termine, non possiamo impedire alla nostra mente di riandare al tempo trascorso, per trovarvi un senso – significato e direzione di marcia, valore simbolico e inquadramento in unità temporali più grandi -: perché non sia solo un anno solare, una somma di mesi e stagioni, con qualche grande evento sparso qua e là, bisogna fare in modo che una categoria più grande, capace di comprendere sotto di sé più tempo, ci venga in aiuto, e per questo invochiamo da parte nostra conoscenze e capacità di sintesi.
Mentre seguo il film “The giver” su Netflix mi vengono in mente le parole “Tenersi il dolore dentro”, che in verità vengono pronunciate all’inizio del film. Siamo in una società futura di sopravvissuti a qualche catastrofe generale. Sono state cancellate tutte le ragioni di divisione e le disuguaglianze ma anche emozioni e sentimenti. In un’organizzazione impersonale i destini vengono decisi da un Consiglio di anziani che sceglie tutto. Nella festa annuale in cui gli adolescenti avanzano alla vita adulta, Jonas scopre di essere il prescelto, giacché possiede tutte le qualità richieste per esserlo. Sarà il Raccoglitore delle memorie. C’è già un vecchio che svolge il compito, che ora passerà a lui la memoria di tutto ciò che è stato e che nessun altro deve conoscere. Mentre inizia a scoprire il negativo della storia precedente dell’umanità, la persona che sta al vertice del Consiglio ci rivela che il compito più grande di Jonas è «tenersi il dolore dentro»: egli non dovrà rivelare ai suoi compagni d’età né ad altri la natura del suo addestramento. Tutti dicono sempre la verità. A Jonas ora è consentito mentire! Dalla frequentazione del vecchio Giver Jonas arriva a scoprire la guerra, la ferocia, l’amore…
La riflessione che propongo all’attenzione di tutti, allora, è “tenersi il dolore dentro”: penso subito alle paure senza nome dei bambini e al dolore muto della perdita e della malattia. Accade a tutti noi di non riuscire a dire la forza che si abbatte su di noi e che ci supera, facendoci ammutolire. “Tenersi il dolore dentro”, allora, non è solo una prescrizione morale, un compito, una virtù, il segno quasi di un dono della persona: tacere, rimandare ad altro, dissimulare il colpo subito con un piccola bugia, sublimare il dolore patito con uno sguardo che tiene insieme e giustifica atteggiamenti e studiati silenzi richiede una forza morale che è diventata manifestazione rara di sé. In questa società, infatti, si esalta ad ogni piè sospinto la pubblica confessione di sé, la trasparenza assoluta, la verità al di sopra di tutto, anche dell’amore.
Più che l’autenticità della persona, che vedrebbe premiata la dissimulazione onesta, si pretende la veridicità (della parola) e la sincerità (dei gesti e dei comportamenti). L’insistenza, l’ostinazione, il tribunale, la testimonianza anonima sono autorizzati, nell’esercizio della ricerca e della ‘sanzione’ della verità. Si cade facilmente nella trappola ‘analitica’ dell’assolutizzazione della singola azione, eretta a emblema e simbolo della persona: una menzogna, un tradimento equivalgono a una condanna senza appello, giacché ci dicono una natura menzognera e ci portano all’esito di una relazione messa davanti all’Irreparabile.
La via del perdono non è praticata a cuor leggero né suggerita come la più doverosa, per salvare una relazione. Riuscire a farlo è la riprova della capacità della mente di saper incorporare e integrare esperienze ed eventi significativi, rinunciando alle condotte espulsive ed evacuative. Coraggio e magnanimità, compassione e gratitudine sostengono bene solo chi si sia esercitato a lungo nell’atteggiamento dell’accettazione della persona dell’altro: tanta parte dell’attività educativa poggia su questo principio.
Ai padri e ai maschi, soprattutto, si richiede questa capacità, il dovere di esprimerla, per dare modo alla vita di dispiegarsi anche nei suoi modi capricciosi e imprevedibili. Il padre, poi, deve essere il lungimirante, colui che va oltre il quotidiano e l’accidentale, perché sa guardare le cose dall’alto, senza perdersi nei fatti e nelle prese di posizione degli altri. Il padre tace, apparentemente senza prendere posizione, in realtà ha di mira un bene più grande o la preoccupazione di preservare i beni presenti, in qualche modo minacciati. È noto l’aneddoto ricavato dalla biografia di Sigmund Freud: il padre passeggiava per le strade di Vienna, tenendosi vicino al muro di un lungo caseggiato. Un grasso commerciante si avvicinò e giunto vicino a lui, gli gridò: «Scansati, ebreo!», dando un colpo secco al suo cappello che cadde nel fango. Il giovane Sigmund, che ascoltava il racconto, aspettava il seguito della storia, proteso verso l’eroe che era suo padre, ma lui raccolse il cappello e andò via. I biografi riferiscono una delusione del piccolo Sigmund, di cui non abbiamo prove. È più giusto pensare che su quella delusione egli abbia saputo costruire dentro di sé l’immagine del Padre, che pensa non solo a sé ma alle conseguenze delle sue azioni. Pensando ad esse, a quello che poteva accadere, se avesse reagito all’offesa, quel padre si tenne il dolore dentro…
Il cuore della mia riflessione, tuttavia, è altrove, nella considerazione dello spettacolo del dolore del mondo a cui siamo quotidianamente sottoposti dai media. Essi non possono fare a meno di informarci. Dobbiamo decidere che ne è di noi, se dare voce al dolore degli altri oppure no, dando così un senso ad esso. Possiamo distogliere lo sguardo, ma, se siamo rimasti umani, ci porteremo dentro, comunque, la traccia di quel forte sentire.
Le agenzie di verità del nostro tempo – scuola, Chiesa, giurisdizione – talvolta si schierano contro l’ostentazione dello spettacolo del dolore da parte dei media: invocano il silenzio, il pudore, la prudenza, la compassione… Bisognerà dire, tuttavia, che ci lasciano soli di fronte a uno ‘spettacolo’ che comunque è già stato sottoposto al nostro sguardo. Restiamo quasi sempre soli di fronte ad esso e finiamo per tenercelo dentro, anche perché è difficile dare voce ogni giorno a tutto il dolore del mondo.
Non lo ammettiamo volentieri, ma nel corso della nostra giornata il nostro umore porta i segni di quella ferita. Tra i fatti di cronaca, poi, in cui qualcuno perda la vita o subisca grave offesa, ci portiamo nel cuore qualcuno più degli altri.
Mentre l’anno volge al termine, la stampa ripropone mese per mese i fatti di rilievo, come la morte dei personaggi famosi, le catastrofi naturali, i passaggi politici, il volto della povertà, la compassione. Sono rari i momenti di festa, dunque non rimproveratemi per questa mia riflessione, che non consegno al 31 dicembre: è partita già. Tutti sentiamo che qualcosa sta morendo e desideriamo ardentemente per noi e per gli altri che i primi giorni del nuovo anno siano nuovi, cioè portino cose buone. Sappiamo, allo stesso modo, che non è mai stato così, che i destini umani non sono scanditi dal calendario: i momenti di gioia e di felicità restano consegnati alla convivialità, al dono, alla gratitudine, spesso alla nostra capacità di tenerci il dolore dentro, magari per non togliere a chi è stato disattento o cattivo con noi la possibilità di durare ancora, non importa se inconsapevolmente.
Un piccolo sgarbo, una disattenzione, una mancanza anche grave, un silenzio studiato ci feriranno ancora. Ciò che conta è la capacità di dire sempre Sì ancora, se ricordiamo il bene ricevuto.
Possediamo tutti il coraggio e la forza, l’indulgenza e la magnanimità. Se sapremo tenere a bada i nostri demoni, non prevarrà il risentimento, né con esso lo spirito di rivalsa e la neghittosità e la tetraggine. Contro la malinconia del così fu, contro l’irredimibile, prevalga la speranza, lo spazio per accogliere in noi l’insanabile diversità, e la capacità di andare oltre l’errore, correggendo l’errore, senza respingere la persona che sbaglia.
Restare umani è continuare a volere il Bene, al di là di ogni commiserazione.
La terra senza il male non è mai esistita. Dovremo combatterlo in noi e fuori di noi, mirando a ritrovarci sempre dalla stessa parte, cioè dalla parte di chi cerca sempre nuove ragioni per dire Sì.

Scrivimi: posta@gabrielederitis.it

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