CAMMINARSI DENTRO (42): «La legge più bella: ubbidire al padre».

Se è vero che Amore è una forza che divide, si spiega forse così il muro che divide spesso i fratelli: ognuno di essi tende a realizzare il sogno del padre, a farsene interprete fedele. In questo compito, si scontra fatalmente con l’interpretazione contrastante – necessariamente contrastante? – che ne daranno i fratelli. In questo dissidio ho visto uno dei più grandi paradossi dell’esperienza: ciò che dovrebbe unire finisce per dividere!

Ma cosa vuole veramente il padre dai suoi figli?

Non dovranno forse essi realizzare la sua legge proprio infrangendola, cioè andando oltre la legge dell’amore, per realizzare una superiore e più desiderabile unità, oltre il padre?

O non è preferibile, piuttosto, pensare che il padre si attenda dai suoi figli un’obbedienza che non chiederà mai direttamente e che vorrà vedere contemperata con i processi di emancipazione personale dei figli che, crescendo, ‘si allontaneranno’ da lui?

Ma cosa significa legge dell’amore?

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Il vasaio

Sulle rive di un mare si ritira un vasaio negli anni della vecchiaia. Gli si velano gli occhi, gli tremano le mani, è arrivata la sua ora.  Allora si compie la cerimonia dell’iniziazione: il vasaio vecchio offre al vasaio giovane il suo pezzo migliore.

Così vuole la tradizione degli indigeni dell’America nord occidentale: l’artista che se ne va consegna il suo capolavoro all’artista che viene iniziato.

Il vasaio giovane non conserva quel vaso perfetto per contemplarlo e ammirarlo, ma lo butta per terra, lo rompe in mille pezzi, raccoglie pezzetti e li incorpora nella sua argilla.

EDUARDO GALEANO, Parole in cammino

Immaginiamo di aver ricevuto un invito analogo, che il vecchio padre ci abbia letto l’apologo di Galeano e che sia rimasto in attesa delle nostre azioni. Ci chiediamo cosa egli si aspetti da noi.

Credo, intanto, che rompere il vaso in mille pezzi non significhi rompere il vasaio in mille pezzi: egli è vivo ancora, ma anche se non fosse più qui tra noi, varrebbe lo stesso principio che guiderà la nostra vita: ubbidire al padre.
Egli si aspetta da noi che continuiamo a fare con lui, senza abbandonarsi mai all’idea che occorra il ‘parricidio’ per costruire il proprio vaso. L’arte difficile del figlio è corrispondere alle attese del padre. E non parliamo qui del proprio padre, dei singoli padri, come se ognuno di noi dovesse comprendere cosa un padre voglia, come se i padri volessero cose diverse, ognuno una cosa diversa.
Posto che la libertà è obbligazione, essa lega, non scioglie. Il padre si aspetta dal figlio che egli non cessi mai di obbedirgli, cioè di seguire la sua legge, cioè di farsi guidare dai principi che presiedono all’opera bella che egli ha creato.
Non c’è segreto da svelare. Non c’è un velo che copra il detto del padre, quanto egli ha detto a noi. C’è un solo segreto, tra i valori maschili, ed è il segreto del padre: è il padre che si fa segreto, che tace gli affanni, senza rinunciare al respiro lungo della vita distesa, che scioglie i grumi di dolore e rende giustizia dei diritti di ognuno nella propria mente ospitale. Il padre, infatti, è il lungimirante.

In materia di libertà, di responsabilità, nel rapporto padre-figlio, Cacciari si esprime così:

Libertà è obbligazione, responsabilità. La libertà obbliga, non libera. Ma allora se la libertà ha questo significato è evidente che se la libertà si caratterizza come responsabilità, al colmo della libertà starà la mia capacità di abbandonarmi completamente nella risposta, proprio di farmi tutto risposta. Allora, se la libertà è responsabilità, sarò completamente libero quando mi sarò svuotato completamente nella risposta. Quando non sarò altro che risposta. Ecco il concetto radicale di dono, che dovrà illuminare ogni atto donativo: la libertà come responsabilità si conclude necessariamente nella mia capacità di farmi dono, di farmi risposta, e il donare è da questo punto di vista l’immagine più propria della libertà.

Da questo punto di vista non si distingue tra credente e non credente. Il credente è colui che crede che la sua libertà e la sua capacità di donare gli sia a sua volta donata, e questo non lo può dire il non credente. Ma sul fatto che libertà è concepibile solo come responsabilità e dono non vi può essere differenza tra i due. La differenza si pone a tutt’altro livello, più propriamente teologico.

E allora, lungo il cammino che ci conduce a questa idea di libertà come responsabilità e dunque dono, vi è in tutta la sua drammatica evidenza la parabola evangelica, quella di Luca 17,10. Quando dice che alcuni servi fanno tutto quello che il padrone gli aveva comandato e alla fine della loro giornata di lavoro sono chiamati a dire: abbiamo fatto tutto quello che dovevamo, siamo servi inutili. Siamo servi perché semplicemente facendo il nostro lavoro abbiamo obbedito, in più inutili, dal radicalissimo punto di vista del Vangelo. Cioè fintanto che tu obbedisci soltanto in questa chiave e non ami, e cioè non dimostri questa tua sovrumana e indefinibile libertà attraverso il dono e il sacrificio di te che è il dono della tua libertà, non solo sei servo ma sei anche inutile. Eppure sono persone che hanno fatto fino in fondo il loro dovere, assolutamente incontestabili.

Questa è la radicalità con cui dobbiamo affrontare queste questioni. Perché qualsiasi nostra pratica viene illuminata dalla sua idea limite. E all’interno di questa possiamo sviluppare anche tutte le nostre politiche, che staranno da una parte precisa, in giusto conflitto con le altre. Perché il conflitto è sano visto che fa maturare delle decisioni e senza le decisioni non c’è figlio, non c’è uomo maturo, non c’è volontariato.


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