Fare scuola ‘da soli’?

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Fare scuola non vuol dire farla come scuola, essendo cioè voce particolare, espressione minore di una voce più grande, diciamo pure di un coro di voci.  Proprio perché la mia è stata un’esperienza in cui ha prevalso l’assenza di cooperazione e di scambio, debbo chiedermi oggi: la solitudine degli Educatori è senza rimedio? L’esistenza di Consigli e Dipartimenti disciplinari non basta a fare di un Istituto una comunità, un sito educativo. La frequentazione di una stessa sede non basta a fare di individui appartenenti alla stessa categoria professionale dei Colleghi interessati a cooperare in vista di fini comuni. Un Collega che andò via tempo fa dalla mia Scuola era convinto del fatto che occorre mettersi d’accordo preventivamente su cosa debba intendersi per scuola e poi passare a dire ‘programmazione educativa e didattica’…

Evidentemente, ci accorgiamo strada facendo che non abbiamo in mente la stessa cosa quando diciamo scuola. Partecipiamo con un po’ di insofferenza a riunioni che si succedono sempre uguali per decenni, dentro le quali non si cerca un significato comune da dare alle cose. Le parole poi finiscono per veicolare significati utili a far funzionare la macchina istituzionale, ma non soddisfano i bisogni dei singoli né tanto meno quelli della collettività. Le scadenze imposte dal ‘calendario’ stanno lì a scandire i tempi della vita scolastica e rappresentano spesso una fonte di ansia per chi vorrebbe più tempo, ma sa bene che non è possibile chiederne, ché non di tempo meccanico si tratta qui.

Il tempo trascorso sulla cattedra è prevalentemente tempo vissuto, esperienza più che comportamento. Il fare scuola è stile educativo, relazione sociale, magistero disciplinare. Ogni docente deve inventarsi il mondo, non potendo disporre di un lessico comune che dica il mondo e la sua storia. Perfino ‘alunno’, allievo’, ‘studente’, ‘ragazzo’ finiranno per significare cose diverse tra loro, secondo chi ne parlerà e come. ‘Docente’, ‘professore’, ‘insegnante’ dicono la stessa cosa. Io preferisco ‘educatore’, per me.

Lo ‘studente’ è un ragazzo che cresce. Di lui occorrerà studiare la natura, che ci viene restituita in forme sempre aggiornate dalle nuove scienze dell’educazione. Delle attività superiori, di cui è capace la mente di ogni essere umano, occorrerà indagare il modo in cui si esplicano nel commercio esistente tra mente e cervello. L’uso della memoria e il metodo di studio non possono essere invocati perentoriamente con la sanzione dell’incapacità o dell’inadeguatezza dello studente: mnemotecnica e metodo sono oggetto di studio, di attività didattica? Oltre tutte le scelte ‘tecnologiche’, di tecnologia educativa, non è tempo di occuparsi di quello che avviene nella mente dei ragazzi? Non bisognerà occuparsi più da vicino dei modi di essere di cittadini che si ritrovano a vivere in quella che Gillo Dorfles oggi chiama «(in)civiltà del rumore», giacché in essa si consuma un autentico «furto dell’immaginario»? Non andrà costruita la conoscenza nella mente dello studente? Non deve forse essere messo in condizione di (ri)organizzare nella sua mente la conoscenza che gli viene proposta?

Dopo aver concluso la personale esperienza di insegnamento, non posso più immaginare – come ho sempre fatto – che il prossimo anno andrà meglio. Le ‘teorie’ sono state verificate tutte. Quando c’era il Preside ‘lassista’, si attribuiva ogni responsabilità ai docenti, che avrebbero dovuto addirittura sostituirsi a lui (come se fosse possibile! si rischiava grosso): le cose andavano male per colpa dei docenti. Con l’arrivo del Preside ‘legalista’ e ligio alle leggi e ai regolamenti, il malessere dei docenti non è stato più invocato né indicato da lontano come materia di cui poter discutere. Al conformismo più bieco di una volta – perché non richiesto! – si è sostituito il silenzio di oggi, che non è mai stato possibile comprendere: trasformismo o servilismo? La distanza tra colleghi è cresciuta; eppure, non si mostra più alcuna forma di disagio, tranne il mugugno.

In 34 anni di insegnamento ho sperimentato la chiarificazione crescente a me stesso della condizione solitaria in cui agivo. Da una parte, ho vissuto come privilegio gli spazi di libertà di cui godevo; dall’altra, soffrivo per la mancanza di confronti ravvicinati, anche sui temi che trattavo giorno per giorno. In materia di libertà sono arrivato a soluzioni definitive, ormai. Sono convinto con Cacciari che libertà è obbligazione. Essere liberi non vuol dire sciogliersi ma legarsi. Mi è sempre piaciuto dover rendere conto a qualcuno di quel che facevo, anche fuori della scuola. Dover raccontare a qualcuno quello che avevo fatto mi aiutava a dare senso al lavoro fatto.

Mi sono sempre illuso, prima di ogni riunione collegiale, che sarebbe stata l’occasione buona per stringere rapporti con gli altri; per ritrovarsi a discutere su questioni cruciali, sulle quali la discussione sarebbe durata oltre la riunione indetta; che ci saremmo incontrati ancora, magari avremmo usato il telefono, la posta elettronica, la chat, Skype… Niente. Non solo non c’è mai stato un seguito per le discussioni avviate! ma nessuno mai ha detto: ci rivediamo? ci risentiamo? mi presti quel tuo libro? come affronti questo argomento? …

E’ corretto chiamare quel silenzio solitudine? La sensazione che ne consegue è silenzio? Sicuramente, si trattava di illusione, a proposito dell’attesa vana, che non si è tradotta mai in speranza, che da un interesse comune potesse nascere qualcosa; non parlo di amore o, addirittura, di amicizia, ma una consuetudine, la ricerca di piacevoli momenti di scambio di esperienze, un contatto emotivo, la sensazione gradevole di essere parte di qualcosa che fosse più grande di me… Niente. Per questo, ho scritto: Noi non ci rivedremo più. Non abbiamo mai fatto niente insieme fin qui! Cosa dovrebbe mai succedere proprio ora? Si è trattato, dunque, di un addio poco fa. Ma da cosa mi sono allontanato? Cosa è venuto meno che non fosse già assente? E’ possibile perdere una privazione? Ha senso immaginare che possa mancare una mancanza? Per un tossicomane, sì. Per me, no.

Dalla scuola mi sono sciolto delicatamente, sorridendo a tutti, anche a quelli che mi hanno confessato tra le lacrime di avermi sempre voluto bene. Quelli che mi stimano veramente non hanno detto niente. Essi sanno. Qualcuno sostiene che a molti mancherò. Probabilmente, sì. Non è forse così per tutte le cose belle che avevamo a portata di mano e di cui non abbiamo saputo approfittare? Se ai colleghi mancherà la sensazione che si sarebbe potuto fare (ancora) qualcosa insieme, ci credo. Soffriranno – forse! – di una loro privazione che essi stessi hanno inflitto a se stessi, non per il fatto che io me ne sia andato. Altro non è possibile pensare.

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