libera mente

Quando ero dirigente di Azione Cattolica pensavo che la Chiesa dovesse cambiare, e difatti stava cambiando sotto i ‘colpi’ del Concilio Ecumenico Vaticano II: punto dopo punto, la vita della Chiesa sembrava dovesse uscirne rinnovata. Per decenni poi ho creduto che la via imboccata fosse irreversibile, che il disprezzo del mondo di medievale memoria sarebbe finito, per fare posto a una visione più gioiosa del mondo stesso e della vita. Immaginavo che ogni Cardinale, ogni Vescovo, ogni presbitero in basso avrebbe accolto con gioia tutto quello che veniva da Roma, per sentirsene permeato, rinfrescato…

Quando ero dirigente sindacale cercavo “l’unità a tutti i costi”, come veniva chiamata da chi più realisticamente contava i delegati ai Congressi sulla base delle tessere di Partito e delle quote concordate in sede confederale. Credevo che non ci fosse bene più prezioso, a cui tutti si sarebbero votati, dell’unità interna e tra i sindacati confederali. Il primo impegno politico era rivolto alla garanzia dell’unità. Il prezzo da pagare non era mai troppo alto.

Quando ero dirigente politico ho fatto i ‘lavori’ più umili – dalla vendita del giornale casa per casa alle riunioni vissute tutte senza lamentarsi mai – per testimoniare una vicinanza e una medesimezza umana senza remore né dubbi. Credevo che da quelle parti non potesse esserci posto per i personalismi e le invidie e l’insincerità. Mi aspettavo che la politica potesse cambiare la mia città, la provincia, la regione, l’italia, il mondo. Ogni riunione importante, infatti, si apriva con una Relazione introduttiva con la quale si illustrava la situazione internazionale, nazionale, regionale, provinciale, cittadina. Conoscevamo il mondo. Ne conoscevamo bene i bisogni reali e riuscivamo a guardare nella direzione del bene comune, sul quale non avevamo dubbi: la strada delle riforme democratiche e del parlamentarismo era stata imboccata da tempo, dunque non c’era motivo di dubitare della bontà del metodo.

Quando ero dirigente scolastico – impegnato negli organismi rappresentativi ed elettivi – credevo che la scuola dovesse cambiare, che dovesse subire un profondo processo di riforma, perché la terra che calpestavamo era incerta, bisognosa di più solide fondamenta. Credevo che occorresse “la riforma”, più di ogni altra cosa al mondo. Dal 1974 non c’è stata nessuna riforma: quello che è cambiato non è mai stato risolutivo, definitivo. Si è discusso in tutte le sedi su come la scuola dovesse cambiare. In alcuni momenti, addirittura ho sperato. Negli ultimi dieci-quindici anni della mia carriera di insegnante mi sono reso conto del fatto che, mentre si discuteva senza cambiare, io continuavo ad insegnare in quella scuola vecchia nella quale sembrava non si potesse fare niente di buono. La mia esperienza umana e professionale si è arricchita un bel po’: ho fatto sempre meglio quello che mi ero apprestato a fare nel 1974. Se mi volgevo a riconsiderare le cose fatte, mi sembrava che ero diventato sempre più bravo, più attento ai ragazzi, più efficiente. La mia azione educativa si era fatta nel tempo sempre più efficace. Ad esempio, mentre tutti discutevano dell’inutilità di un Corso di 10 ore per il recupero disciplinare, io cercavo di far entrare in quelle 10 ore il meglio delle mie conoscenze, il distillato della disciplina, il suo impianto generale, la struttura tematica, le scelte strategiche da fare per realizzare un minimo di ‘effetto di padronanza’. Dalla parte dei ragazzi, ho avuto la sensazione che quella fosse scuola, che non servisse altro perché fosse scuola: bastavamo noi. Io e loro. L’esperienza, infatti, dell’informatica prima e della multimedialità dopo non ha aggiunto nulla all’essenziale, e l’essenziale è rimasto il rapporto frontale con il gruppo-classe che ogni insegnante costruisce nel tempo con quello che Cacciari ha chiamato l’arrischio della relazione. Mentre si cercava di ‘aggiornare’ l’intero corpo docente, su tutte le materie possibili – compresa la relazione educativa! -, i docenti continuavano a fare scuola, a fare educazione, nella trincea quotidiana in cui ognuno di loro era esposto, faccia a faccia con i ragazzi. Alla fine, di questo soltanto si è trattato. L’azione educativa si gioca nella relazione educativa con i ragazzi, presi uno per uno, e con il gruppo-classe di cui sono parte significativa. Questo ho fatto dal 1974 ad oggi. Senza riforme, indipendentemente dall’Aula multimediale, dalla Mediateca, dalla Sala di proiezione, dalle nuove tecnologie educative, tranne forse le mappe concettuali e mentali, alla base della quali c’è l’apprendimento significativo e la didattiva costruttivista, che mettono al centro le attività mentali dello studente, che sono la risorsa a partire dalla quale soltanto acquista senso l’educazione, intesa come formazione onnilaterale del cittadino: l’organizzazione della conoscenza nella mente dei ragazzi è tutto, è ciò che oggi occorre prendere di mira, perché il ‘comportamento insegnante’ sia dotato di senso. L’effetto di padronanza che lo studente vede crescere in sé nel tempo è ciò che lo rende libero, cioè autonomo nelle attività intellettuali. Raggiunto l’obiettivo della liberazione dei propri alunni dall’ignoranza e dalla paura, cos’altro ci sarebbe stato da fare? Insieme abbiamo letto Gilgamesh e Dante, Šalamov e Levi, Petrarca e Virgina Woolf, Ravasi e Galimberti… Abbiamo letto metricamente la poesia di Catullo e quella di Orazio. Abbiamo indagato il tragico nell’antico e nel moderno, oscillando tra destino e follia, senza perdere mai di vista quello che conta: potersi sempre ritrovare dalla stessa parte, a dispetto della distanza che cresceva tra noi, per le derive del tempo e per l’alea dei destini personali e per le complesse vicissitudini dell’anima. Non abbiamo mai smesso di chiederci a quali condizioni fosse possibile l’amore, cosa potevamo sperare, in chi credere. Ci siamo salutati poi facilmente, perché consapevoli del fatto che il cammino intrapreso insieme non avrebbe comportato mai che qualche cosa potesse scavare alcun solco fra di noi, tranne quello del tempo che scolpisce ogni cosa, salvando ciò che conta e perdendo ciò che non merita di essere ricordato.

Quando ho avviato la mia esperienza di volontariato nel campo delle tossicodipendenze – era il 1989 -, avevo dentro un bisogno urgente di donarmi, di mettere a disposizione la moneta del tempo, perché sapevo già tutto quello che c’era da sapere al riguardo: la gratuità del servizio e il lavoro paziente accanto all’Ombra mi avrebbero ripagato di tutte le delusioni. E così è stato. Dall’esperienza religiosa a quella sindacale a quella politica, attraverso l’esperienza costante della relazione educativa, con i ragazzi a scuola e con i tossicomani il pomeriggio, tutta l’esperienza di vita è stata un cercare la liberazione degli altri da qualche schiavitù. Così facendo, mi sono liberato da paure e insicurezze. Ho imparato a distinguere tra insicurezza e incertezza, tra ‘dentro’ e ‘fuori’, tra illusione e realtà. Ci sono alcune cose ancora che mi restano da fare, ma il più è stato fatto: come direbbe Calvino, ho cercato il chi e il come e ho cercato di dargli un nome e l’ho fatto durare, per restare fedele al compito della mia vita, perché nessuno potesse dire di avermi cercato e di non avermi trovato.

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