IMPARARE A LEGGERE (10): Il piacere di fascinazione non consente di comprendere il significato di un’immagine.

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Dopo le prime considerazioni su ciò che accompagna l’icona, a partire dalla lettura dei testi linguistici, ci viene incontro una sorta di confessione di Roland Barthes – in Barthes di Roland Barthes (1975) – che potremmo assumere come eccezione per noi, rispetto alla regola che cerchiamo per definire compiutamente il lavoro di comprensione e di restituzione del senso di un’icona. Barthes scrive:

Ecco, per cominciare, alcune immagini: sono la parte di piacere che l’autore offre a se stesso terminando il libro. Tale piacere è di fascinazione (e perciò abbastanza egoista). Ho conservato soltanto le immagini che mi folgorano, senza che io sappia perché (questa ignoranza è propria della fascinazione, e ciò che dirò d’ogni immagine non sarà altro che immaginario). Ora, bisogna riconoscerlo, solo le immagini della mia giovinezza mi affascinano. …

L’emozione sempre viva che alle immagini della giovinezza è collegata impedisce di leggere i sensi riposti dell’icona? Sembrerebbe di sì. L’esempio offerto da Barthes ci aiuta a sufficienza fin qui.

Potremmo dire, infatti, che per avviare il processo semiosico di attribuzione del senso si richiede una ‘distanza’ maggiore: l’assunzione dell’icona a oggetto di indagine, oltre l’emozione che pure proveremo di fronte a un oggetto di elezione. Scegliere di illlustrare il senso, dispiegandolo in tutti i suoi aspetti e andando oltre la semplice-presenza, per risalire a tutto ciò a cui allude e che fonda la rappresentazione, è già sforzo di depurazione della forza dell’emozione. Non diremo che occorra ‘sbarazzarsi’ di essa, per accedere più lucidamente al senso.

Paradossalmente, si richiede proprio quella ‘fascinazione’ iniziale – le prime impressioni, che sempre proviamo nella fruizione estetica di un oggetto d’arte – per impegnarsi poi a dire cosa significhi l’immagine, a partire da ciò che ha preso a significare ‘per noi’. Ci sarà da depurare l’emozione, semmai, da residui di ingenua soggettività e da ‘errori’ derivanti da un sentire non esatto, senza, con questo, pretendere di poter fare a meno dell’emozione stessa.

Si potrebbe dire che il risultato finale è proprio l’emozione estetica, cioè l’equivalente del piacere del testo. Questa emozione si afferma sempre, tutte le volte che un oggetto colpisce la nostra sensibilità viva, suscitando un assenso che va dalle modificazioni degli stati di corpo e d’animo al sentimento vero e proprio. Sempre noi siamo impegnati ad attribuire valore all’oggetto stesso, e dalla qualità di questo valore dipende poi la qualità dell’emozione che accompagna la ‘relazione’ con l’oggetto.

L’educazione estetica cos’altro è se non il necessario affinamento della sensibilità personale, che si richiede per poter godere delle cose belle, sostenendo ‘contemporaneamente’ la crescita della sensibilità con lo sviluppo della personale capacità di lettura della realtà?

Una conclusione provvisoria, oggi, potrebbe essere questa: la ‘conoscenza’ dell’oggetto – considerare anche la conoscenza personale, cioè la conoscenza degli altri – non può prescindere dal nostro vivo sentire, ma quest’ultimo può ‘ridursi’ a fascinazione. Quando questo accade, il processo di comprensione si arresta.

Quante volte sperimentiamo nel corso della nostra vita questa ‘vittoria’ delle emozioni, in presenza di oggetti e persone che non riusciamo a ‘identificare’ nel prosieguo dell’esperienza? Di essi subiamo il ‘fascino’. Possiamo parlare di seduzione tutte le volte che l’oggetto risulta “non identificato, non analizzabile, teorico ed amoroso” (Baudrillard). Dobbiamo ‘impedire’ che l’immagine cancelli la Realtà.

A chi obiettasse che l’amore non può non essere seduttivo risponderemo che possiamo fare di più rispetto all’assunzione acritica dell’esistenza dell’altro come rispetto alla pretesa di possesso totale di quello: tra i due estremi della dipendenza disfunzionale – per usare il linguaggio dei cognitivisti – e del diniego si dà relazione. ‘Ragione’ e ‘sentimento’ sono consorti, pur in presenza di un fondo enigmatico e buio da cui ci accade sempre di divinare nelle cose d’amore.

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