Un mondo impazzito

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Lunedì 25 marzo 2013

CAMMINARSI DENTRO (466): Un mondo impazzito

Sia grazia essere qui,
grazia anche l’implorare a mani giunte,
stare a labbra serrate, ad occhi bassi
come chi aspetta la sentenza.
Sia grazia essere qui,
nel giusto della vita,
nell’opera del mondo. Sia così.

MARIO LUZI

La sensazione sgradevole che prova chi sia stato abbandonato dal proprio partner è quella di chi vede l’errore dappertutto intorno a sé.
Se prevale il silenzio del cuore dall’altra parte, se non arrivano più risposte, nemmeno alla più piccola richiesta di chiarimento, sembra che tutte le donne all’improvviso siano diventate insensibili e dure! Si finisce per vedere insensibilità e anaffettività dappertutto, come se la distanza naturale che passa tra le persone e il necessario distacco che appare indifferenza fossero  emblemi di una natura che non è più in grado di (cor)rispondere agli affetti che pure potrebbero interessarla e colpirla.
Ogni storia problematica o che finisca miseramente è riguardata senz’altro come effetto dell’incapacità di coinvolgimento emotivo e sentimentale di una delle due parti.
La tentazione di teorizzare e generalizzare va combattuta. Sentirsi assediati da folle di anime vaganti che non sorridono mai o che lo fanno perché prese dai piaceri del consumo e basta è vana follia. Immaginare un mondo impazzito che non è più capace di amare lo è ancora di più.
E’ accaduto soltanto che nelle regioni inferiori dell’essere ci sia stato un sommovimento del cuore che ha interessato uno solo degli infiniti individui che popolano quelle regioni. Il venir meno di un amore può essere riguardato come il venir meno della sensibilità generale? o come la perdita di sensibilità di intere categorie di quel mondo, come le donne, non importa di quale età, solo perché una donna abbia cessato di amare?

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Il non vissuto che ci accompagna

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Lunedì 25 marzo 2013

CAMMINARSI DENTRO (465): Il non vissuto che ci accompagna

Forse il momento della consapevolezza più grande fu quello dell’estate del 1967, quando mi ritrovai – superato l’Esame di maturità – a dover scegliere. Era la prima volta. Fino a quel giorno, avevo visto scorrere la vita senza inciampi. Nessun blocco, nessuna esitazione. Trascorsi l’estate su I fratelli Karamazov e ne uscii prostrato, senza fede, ormai. Con il compito non facile della scelta universitaria di fronte. In realtà, avevo poche chances, perché mi sentivo da anni votato all’insegnamento, ma quando non si sia superata ancora la linea d’ombra, tutte le possibilità possibili si affacciano alla mente e ci piace baloccarci con l’idea che siamo liberi e che intendiamo restare tali, cioè mantenere aperte tutte le possibilità. Continuai ad arrovellarmi fino al momento della partenza per Roma, con i documenti ancora incompleti: mancava il nome della Facoltà universitaria. Nell’Ufficio postale di Piazza Bologna, sul bollettino dei versamenti, invece di scrivere Lettere, scrissi Filosofia. Decisi proprio lì, in quel momento. Anche successivamente, dissi a me stesso che scegliere Filosofia era non scegliere ancora: si trattava di una sorta di passaggio propedeutico a tutte le altre scelte. Immaginavo, come tutti i miei coetanei, che fosse tutto possibile, che si potesse scegliere tutto. Mi angosciava il pensiero che, una volta fatta la scelta definitiva, non sarebbe stato più possibile tornare indietro, al di qua del bivio su cui mi sembrava di essere accampato, per imboccare un’altra delle tante direzioni che mi ostinavo a tenere ‘aperte’. In realtà, era solo la mia mente che si avviluppava nei ragionamenti segreti intorno al da farsi, perché per la prima volta ne andava della mia vita. Io non volevo prendere decisamente la strada che dall’età di dodici anni, avevo visto chiara davanti a me: l’insegnamento. Mi sembrava che la vita offrisse molto di più. Non capivo perché la vita mi mostrasse molto di più, se io avevo già deciso cosa fare, considerato che il mio cuore non aveva dubbi su ciò che desiderava.

Successivamente, chiamai libertà il grumo di emozioni e stati d’animo che si rincorrevano disordinatamente, sotto la spinta di una mente che non cessava di vagliare ogni aspetto della situazione. Subito dopo la pubblicazione dei ‘quadri’ della Maturità, avevo avvertito violentemente la sensazione che gli spazi chiusi erano finiti, dissolti ormai. Avevo davanti a me una dimensione sconosciuta, senza confini. Era inebriante, ma faceva male al cuore. Era quella una linea di confine tra due tempi della mia vita? Ero felice di essermi liberato delle infinite costrizioni della scuola, ma lì mi sentivo anche al riparo. Al riparo da cosa? Perché avrei dovuto sentirmi in pericolo? Se di libertà si trattava, perché averne paura? Solo molto tempo dopo, imparai con Leopardi a dare un nome a quel sentimento misto che era già proprio della vita adulta: il timore che accompagna sempre la speranza.
Gli studi classici mi avevano abituato a ragionare in termini di libertà/necessità, come se la libertà si stagliasse sempre di fronte a quello che credevo il suo contrario, cioè la necessità ferrea di ciò che è come è e non può essere altrimenti. In realtà, la libertà ha di fronte a sé il nulla. L’angoscia che l’accompagna proviene dal chiaro avvertimento di quel nulla in cui ci ritroviamo tutte le volte che siamo messi di fronte a una scelta. Ero libero, per la prima volta. Ma non lo sapevo. Provavo soltanto un misto di paura e felicità.

L’arrivo all’Università fu accompagnato da un checkup riservato a tutte le ‘matricole’. L’internista mi trovò rigido, teso, al punto che si irritò con me, perché non riuscivo a rilassare la muscolatura addominale. Mi spedì dallo Psichiatra, che mi trattenne a lungo. Questi mi chiese se intendevo proseguire gli studi. Gli risposi sì, non poco perplesso per la sua domanda. Mi descrisse il mio stato di eccitazione, i circoli viziosi in cui si avviluppava la mia mente, i rischi per lo studio… Mi suggerì esercizi per l’igiene mentale e mi raccomandò di farmi una ragazza. Il colloquio fu lungo. Lo ricordo quasi per intero. Mi ritrovai per la prima volta di fronte a qualcuno che sapeva di me, senza avermi conosciuto mai. Il turbamento che mi trasmise non mi abbandonò più, per tutto il Corso di laurea, fino alla discussione della tesi, e oltre. Si trattava di mettere ordine nel cuore, di imparare a fare i conti con la realtà e altro ancora, ma quando si ha la sensazione di avere il vuoto alle spalle, è difficile trovare un terreno solido su cui consistere.
Solo il 1969, con la conoscenza della donna che poi avrei sposato, provvide a darmi un po’ di stabilità. Molte cose ancora dovevano succedere, però, perché io potessi dire di aver trovato un equilibrio.
Temo che la linea d’ombra non sia solo una linea. Che non si tratti di un confine che si attraversa una sola volta. Le scelte che si succedono nel tempo, ma soprattutto, le conferme e i riconoscimenti sono tanti. E tanti debbono essere, per poter abbandonare l’età precedente, se ci accade di venire dalla ‘provincia’, come era il mio caso, e dal Risorgimento, forse dal Rinascimento, se non dal Medioevo, come sembrava a me di venire.
L’educazione sentimentale ricevuta era fatta di niente: nessuno aveva avuto il coraggio di parlarci di sentimenti. Ci siamo sporti sulla realtà facendoci aiutare dallo studio della Letteratura. L’amore era quello di cui parlava Dante, poi quello di cui parlava Petrarca. Boccaccio già ci confondeva le idee. Ma non finì nemmeno con lui. Tutti continuarono a parlare d’amore. A chi credere? Evidentemente, si trattava di demolire le teorie inammissibili. Con quale criterio? Se avessimo avuto un criterio, avremmo saputo dire che cos’è l’amore.
Il difetto della vecchia scuola si riassumeva nel fatto che mancava il punto di vista del presente, uno sguardo sulle cose che sapesse dare ordine e misura, aiutando a discriminare, a sceverare vero da falso.
Ai miei alunni, all’altezza del terzo anno del Liceo scientifico, avrei spiegato, poi, che la visione cortese della donna è spuria, perché negazione della donna; quelle che seguirono, fino a Dante, assumevano astrattamente l’amore e la donna, non erano espressione del rapporto con una donna reale. Solo a partire da Petrarca è possibile parlare di una reale esperienza d’amore. E il petrarchismo si protrasse fino a tutto il Settecento. La rivoluzione romantica mise l’accento sul soggetto amoroso, esasperando il senso delle cose: malattia del desiderio, era proprio quello che non ci voleva per un’età come quella adolescenziale in cui si tende a sposare l’infinito e la verità assoluta, la purezza e la fedeltà… Anche questa visione delle cose sarebbe stata cosa buona ‘demolire’. Ma la vecchia scuola si limitava a parlare di Letteratura, quindi non era dato sapere fino a che punto fosse utile seguire le suggestioni che provenivano da quei modelli di comportamento. Non bastarono nemmeno quattro anni di Filosofia, per arrivare a darmi un’educazione sentimentale. Solo la prova di realtà offerta da una donna reale avrebbe contribuito a bonificare il campo, ma restavano dubbi su quello che accadeva, sull’esperienza amorosa in corso, sul nome da dare alle cose.
Il 1968 d.C. segna per me la linea di spartiacque tra il vuoto di Educazione e la scoperta della vita, considerata in tutte le sue forme. Il ciarpame politico, ideologico e perfino storico su quell’anno cruciale della storia di una generazione è ciò che disprezzo di più. Nell’autunno del 1967 furono spazzati via dentro di me Medioevo e Rinascimento, Romanticismo e Risorgimento, a vantaggio della storia del mondo che si dischiudeva davanti ai miei occhi, aiutandomi a ridefinire ogni cosa, anche Medioevo e Rinascimento, Romanticismo e Risorgimento. Scoprimmo di essere Corpo, di avere una Mente che pensa: noi credevamo che pensassero solo i Filosofi… Nel magma incandescente delle lotte studentesche, apparve un’umanità nuova, che era lì, tutta davanti a me. Anche le mie cose – le persone che avevo sempre amato – ne uscivano ridefinite. Niente era più come prima. La sessualità e la passione politica mi fecero nascere a nuova vita.
Ma restava da definire la scelta fatta: pensare all’insegnamento voleva dire immaginare Lettere, l’insegnamento della Lingua e della Letteratura, mentre io mi ero iscritto a Filosofia. A partire dal 1965, quando la scoprii a scuola, la Filosofia non ha mai smesso di accompagnare la mia vita. Sono trascorsi quarantasette anni, ormai, eppure sento ancora forte il bisogno di proiettare ogni cosa in una dimensione filosofica. Nello stesso tempo, non ho cessato di interrogare i poeti e i narratori, perché il commercio tra pensiero e poesia che contraddistingue ogni forma d’arte, compresi il Cinema, la Musica e le arti figurative, ci fa dire che molte verità sono racchiuse nelle immagini artistiche più che nei discorsi della Scienza e della Filosofia. Per questo, poi, non disdegnai di insegnare per trentacinque anni Lettere, cioè Lingua e Letteratura, pur essendo laureato in Filosofia.
Ad aiutarmi in questa scelta intervennero le circostanze. Nel 1975 mi trovavo in Trentino, per una lunga supplenza di Lettere. Non fui mai chiamato per una supplenza di Filosofia e non c’erano cattedre di Filosofia, quando dovetti scegliere il Corso di abilitazione all’insegnamento. Anche in quel caso, scelsi l’abilitazione all’insegnamento delle Lettere, senza esitazioni. La Filosofia avrebbe continuato a guidare la mia vita. Subito dopo, vennero un incarico annuale, l’incarico a tempo indeterminato, l’immissione in ruolo, il trasferimento, l’assegnazione di una cattedra, la sede definitiva, la ricostruzione della carriera. La via era tracciata ‘per sempre’. Avevo accettato ogni passaggio della mia ‘carriera’ di insegnante senza obiettare nulla: mentre insegnavo ai miei alunni i segreti della Lingua e della Letteratura, continuavo a praticare privatamente lo studio della Filosofia, che era ormai una pratica di vita per me. Mi accadeva di dire sempre: Insegnante di Lettere, laureato in Filosofia. Era un po’ come dire che ero prestato alle Lettere. La mia natura era un’altra.

Nelle settimane passate tra il novembre e il dicembre 1967, trascorrevamo da una Facoltà all’altra, in cerca di qualcosa che non avevamo trovato ancora, a dispetto dell’iscrizione a una Facoltà universitaria. Di fronte alla prospettiva delle sessioni d’esame che ci aspettavano – giugno, ottobre, febbraio, giugno, ottobre… – mi resi conto del fatto che stare sui libri per quattro o dieci anni era la stessa cosa: una volta imboccata una strada, si trattava solo di percorrerla fino in fondo, senza soste. Pensavo ai sei anni di Medicina e ai quattro che sarebbero seguiti per la specializzazione in Psichiatria. Ero convinto di aver capito finalmente quello che volevo dalla vita. Rientrai a casa pieno di entusiasmo. Chiesi a mio padre il permesso di fare il passaggio di Facoltà, ma lui, già spaventato dal fatto che avessi scelto di proseguire gli studi oltre la Scuola Media Superiore, si preoccupò del fatto che potessi essere solo attratto da una chimera. Per lui, passare da 4 a 10 anni non era cosa chiara e ‘pacifica’ come per me. Disse di no. Così si aggiunse nel mio cuore, mentre studiavo Filosofia, l’interesse, la passione, la propensione allo studio della Psichiatria, a cui si aggiunsero subito Psicologia e Psicoanalisi. Da allora, non ho mai smesso di trascorrere dalla Letteratura alla Filosofia alla Psicologia alla Psichiatria alla Psicoanalisi, cercando in ognuna risposte ai problemi dell’esistenza. Per ognuna di queste discipline, poi, non ho mai smesso di cercare le relazioni con tutte le altre. Nel 1972 mi laureai in Filosofia con una tesi, che avevo iniziato a preparare al secondo anno, sui rapporti tra Filosofia e Psichiatria, segnatamente sull’influenza esercitata dal pensiero di Sartre sull’antipsichiatria di Laing e Cooper. Non avevo smesso di praticare le regioni di confine tra le discipline, anzi, era solo l’inizio.

Nel corso degli anni, quando ci intrattenevamo a discutere di Didattica, a scuola, un Collega mi ripeteva spesso che ero avvantaggiato nella cura della Didattica di Lingua e Letteratura dagli studi di Estetica fatti all’Università. In realtà, tutto quello che mi sosteneva sulla cattedra proveniva da studi che avevo proseguito senza interruzione su tutto il campo della Filosofia del linguaggio, della Linguistica generale, della Linguistica testuale, della Semiotica, dell’Estetica, della Teoria della letteratura scoperto all’Università. I quattro anni di Filosofia mi avevano fornito le ‘bibliografie’ e le ‘enciclopedie’ su cui avrei poi lavorato nei decenni successivi. Ancora oggi, oltre il passaggio alla pensione, sono impegnato su testi teorici e su Autori scoperti in quegli anni. Il rapporto tra Etica ed Estetica, tra Etica e Letteratura, è questione sempre aperta.

Lungo i miei trentacinque anni di insegnamento, ho avvertito sempre come bordo dell’esperienza, non vissuto, la parte di me restata in ombra: la Filosofia prima, la Psichiatria poi. Avrei dovuto insegnare Filosofia? Perché successivamente non ho mai fatto niente per passare a quell’altro insegnamento? Avrei dovuto fare lo Psichiatra? o lo Psicoterapeuta? Era quello che volevo veramente? Perché non ho fatto mai niente poi per renderlo possibile?
Dentro l’esperienza di volontariato, che dura dal 1989, ho avvertito la stessa sensazione di ‘inautenticità’. Avverto ancora oggi la sensazione di essere fuori posto; che debba sempre definire accuratamente, in modo ossessivo, i confini del mio intervento, come se temessi di essere accusato di invadere il campo degli Psicoterapeuti: il lavoro sociale che svolgo come Educatore, mentre sono emerse da qualche decennio le figure degli Educatori professionali, è ‘autorizzata’ in Exodus, la realtà nella quale mi sono formato per venti anni esatti, ma è sufficiente sentirsi Educatori, senza possedere le ‘coordinate’ professionali che contraddistinguono l’azione educativa al di fuori della Scuola? L’autoeducazione è sufficiente?

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Tra un’apparenza e l’altra: un’altra solitudine

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Sabato 23 marzo 2013

CAMMINARSI DENTRO (464): Tra un’apparenza e l’altra: un’altra solitudine

Il potere grande dell’illusione è tutto qui, nella sua capacità di far durare nel tempo, anche per anni, addirittura per decenni, il sentimento di qualcosa che accadrà, che accadrà a breve, che senz’altro accadrà. Almeno, così ci è stato detto e promesso. Magari con vaghe allusioni, sicuramente con rinvii e pretesti credibili, per impegni verosimili, impedimenti reali, ma crescenti.
Il difetto grande della fonte dell’illusione risiede nel fatto che deve essere quasi totale, avvolgere e riempire tutto il tempo, mantenerci in uno stato di sospensione che non si traduce mai in una parola chiara, una sentenza definitiva. Noi vorremmo anche un giudizio di condanna senza appello, i sensi di una decisione irrevocabile che aiutasse a mettere il cuore in pace, distogliendo magari lo sguardo altrove, per concentrarsi meglio sulle proprie umidità gastriche, da sempre aborrite, quasi fossero trasgressione morale o tradimento. Dovevamo essere interamente proiettati sulla chimera, presi dal sogno ad occhi aperti, dalla favola di ciò che sarebbe accaduto. Ma che puntualmente non si è verificato.

La distruttività di questa emozione sta esattamente nel fatto che ci accade di chiedere, di ostinarci nella ricostruzione di momenti e di cose dette, per carpire un segreto, per far rilevare la crepa che dovrebbe immettere in una nuova verità, concedendoci finalmente lo squarcio di luce sulla nostra condizione, che è poi tutto ciò che chiediamo. La pericolosità dell’insistenza è nella povertà da cui parla. E’ la mancanza il peccato di origine.
Ci era stato promesso ciò che immancabilmente è presente in ogni relazione sentimentale che si rispetti. La promessa non risiede in un giuramento o in un patto sottoscritto con un rito non scritto. E’ sufficiente imboccare la strada del sentire condiviso perché poi si finisca giustamente per accampare diritti che non sono riconosciuti.

Ci scaraventa nel paese senza tempo delle chimere la convinzione di stare in un patto, di averlo sottoscritto con qualcuno che ha detto sì assieme a noi, che avrebbe nel tempo rispettato l’accordo, come noi abbiamo fatto fedelmente ogni giorno per mesi e per anni, ingenuamente convinti del fatto che passare dal riconoscimento quotidiano e dalle corrispondenze amorose ai silenzi studiati e ai dinieghi faccia ancora parte del patto.

Siamo ciechi. Diventiamo ciechi. L’evidenza dell’amore che sola conta non c’è più. Ora altre evidenze si impongono alla vista che non vede, perché presa da altre evidenze, dai vuoti riempiti da noi, che prestiamo le parole e ci diciamo quello che nessuno ci sta dicendo, che continuiamo a credere a ciò che non c’è lì davanti a noi, luminosa presenza di sempre.

Siamo nella mancanza, eppure riscaldiamo il nostro cuore di una fede che proviene senz’altro dal bene ricevuto, che ci acconciamo a credere che sia ancora lì, a due passi da noi, dunque ancora per noi.
Questa nostra fede non merita la smentita crudele che non verrà, che non viene. Noi crediamo di non meritare una smentita, per aver lungamente prestato fede all’amore. Questo ci sembra di poter dire a noi stessi, per affrontare i giorni sempre uguali, trafitti solo dal dolore della mente, che si affanna a cercare un varco che non si apre più.

Il nuovo in cui ci ritroviamo quando arriviamo a decidere di non credere più – e questo è ciò che prevalentemente non facciamo – è dato dal puro vuoto della mancanza, dalla perdita di senso di qualcosa di cui non ci siamo ‘sbarazzati’ ancora. Siamo lucidamente infelici, perché comprendiamo bene che la felicità è a portata di mano, ma non riusciamo ad afferrarla. Questa è l’infelicità più grande.
L’indugio e l’ostinazione nascono da qui, da questa sensazione di possibile che sconfina in una libertà infinita. E’ tutto nelle nostre mani. Sembra quasi che il nostro destino sia nelle nostre mani. Ma si tratta solo del fatto che siamo a due  passi dalla decisione di riprenderci la nostra vita, per ritrarci al di qua dell’amore in cui avevamo creduto.

Noi possiamo oscillare indefinitamente tra apparenza e realtà, tra la falsa apparenza dell’amore che non c’è più e la bella apparenza di un tempo, che rinviava alla evidenza prorompente dell’amore.
Il destino dell’infelicità è tutto qui, in questo credere inutile nell’evidente apparenza che non è (più) tale, perché il nostro cuore, impegnato a far esistere e a far durare nel tempo l’oggetto d’amore, continua a generare la luce e il calore che riscalda l’altro furtivamente, che non si lascia più toccare l’anima dalle piccole mani che aprono e chiudono delicatamente, come fa accortamente la primavera con i suoi primi boccioli.

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Nell’aperto

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Giovedì 21 marzo 2013

CAMMINARSI DENTRO (463): Nell’Aperto troverà il suo ubi consistam ogni nostro più intransitabile stato di abbandono

Il bisogno di esistere non è soddisfatto solo dall’amore ricambiato. Senza rassegnarsi alla condizione dolente di chi è stato abbandonato e non riesca a ritrovare una dimensione piena dell’esistenza personale, conta spostare il baricentro della realtà sul proprio Sé, sulla parte oggettiva della personalità, sull’immagine depositata nella vita delle relazioni, nel lavoro… Non sull’io e le sue pretese di controllo e di dominio, di presa diretta e di direzione.

C’è l’onda del desiderio da soddisfare. Sempre. E il desiderio ci riporta alla vita e alle sue innumerevoli opportunità. La realtà è piena, secondo la grande psicoanalisi. La dimensione del vuoto è perdita di senso, fascino della dissolvenza, delirio di immobilità. All’ostinazione del vano chiedere sostituire la ricerca di senso, non rinunciando mai a darne uno ad ogni nuova evidenza. Dobbiamo imparare a governare i nostri sentimenti, attraversando il deserto del nostro scontento e curando pazientemente ogni più dura mancanza che si aggiunga alla mancanza che ci costituisce. Cedere alla tentazione di esistere. Abbandonare la dura soglia. Non attardarsi nell’attesa.

Ek-sistere, cioè protendersi oltre la mera percezione della propria ferita, per attingere il più corposo Sé, tutto quanto con il tempo si è stratificato e che è stato costruito accatastando i beni ricevuti, fino a farne muro al vuoto dei giorni perduti.

C’è dell’altro dentro e fuori di sé. Il lungo inverno del disamore deve essere attraversato impegnandosi a coltivare la propria anima: non bisogna trascurare il giardino della propria interiorità, armandosi degli attrezzi appropriati, per consentire alle più piccole piante di crescere e di affermarsi alla luce che attende.

In attesa del distacco definitivo, prepararsi al peggio, al deserto che verrà. La traversata può durare anche anni. Non ha senso restarsene immobili a implorare la pace perduta. Curare un’anima è il compito più grande. Anche la propria anima.

Se l’amore fu troppo grande, se l’investimento emotivo e sentimentale non consente oggi di riguadagnare spazi perduti, per poter dire ‘giardino’, impegnarsi a diradare le nebbie che impediscono di raggiungere i confini del mondo per piantare la bandiera della disperazione e lasciarla lì.

I sei lati del mondo vanno ridisegnati tutti: alto, basso, avanti, dietro, sopra, sotto. La tenda è senza teli. Restano esili bacchette a ricordare che un tempo lì c’era una casa. Il vento freddo e arido del silenzio ha portato via con sé ogni riparo. I confini di ogni ‘lato’ sono perduti.

Imparare a perimetrare la propria esperienza è il da farsi. Fare un tetto. Inventarsi una porta. Chiudere finestre. Tracciare confini. Occupare saldamente lo spazio dell’aldiqua. Arredare la provincia dell’uomo. Curare piante nei vasi e in giardino. Sistemare ogni giorno vestiti e suppellettili nelle proprie stanze. Togliere la polvere ogni giorno. Restituire allo spazio della propria esistenza i caratteri della casa. Riaprire i confini all’ospitalità. La cura è nell’aperto.

L’esperienza del dolore soltanto garantisce il governo dei sentimenti. Senza scadere in una masochistica accettazione della sofferenza che ci è stata inflitta, dobbiamo virilmente dire sì a un dolore che ci appartiene. Di esso definire le ragioni. Ma affrettarsi a portare fuori il cane. Innaffiare le piante. Mettere nei cassetti la biancheria pulita e stirata. Attivare l’aspirapolvere. Restituire trasparenza ai vetri. Riassettare il letto. Liberare il giardino dagli sterpi abbandonati. Ordinare ogni angolo della casa. Fare pulizia di fino, come viene insegnato ai ragazzi nelle Comunità educative: controllare che non ci siano ombre sui rubinetti e sulle maioliche del bagno e della cucina; passare il detergente sui lampadari, sotto i tavoli, lungo il battiscopa, sullo stipite di ogni porta… Ma, soprattutto, uscire a fare la spesa, provvedere alla manutenzione della macchina, rinnovare la carta d’identità scaduta, controllare in libreria le novità, come un tempo. Fermarsi a parlare con tutti quelli che hanno qualcosa da dirci. Prima o poi, ci ritroveremo di fronte a una nuova evidenza, accanto a tutto ciò che già si mostra a noi, che richiederà da parte nostra che diamo senso all’aperto, alla vita che di nuovo ci viene incontro.

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Il complesso di Telemaco

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Mercoledì 20 febbraio 2013

CAMMINARSI DENTRO (462): Il complesso di Telemaco

telemacoDa oggi è in libreria l’opera di MASSIMO RECALCATI, Il complesso di Telemaco. Genitori e figli dopo il tramonto del padre, Feltrinelli, pagine 160, € 14.

In breve
“Siamo stati tutti Telemaco. Abbiamo tutti almeno una volta guardato il mare aspettando che qualcosa da lì ritornasse. E qualcosa torna sempre dal mare.” Una nuova figura per capire il rapporto tra genitori e figli e per pensare alla possibilità di una vita soddisfatta.

Il libro
Edipo e Narciso sono due personaggi centrali del teatro freudiano. Il figlio-Edipo è quello che conosce il conflitto con il padre e l’impatto beneficamente traumatico della Legge sulla vita umana. Il figlio-Narciso resta invece fissato sterilmente alla sua immagine, in un mondo che sembra non ospitare più la differenza tra le generazioni. Abbiamo visto cosa significa l’egemonia del figlio-Narciso: dopo il tramonto dell’autorità simbolica del Nome del Padre, il mito dell’espansione fine a se stessa ha prodotto la tremenda crisi economica ed etica che attraversa l’Occidente. Le nuove generazioni appaiono sperdute tanto quanto i loro genitori. Questi non vogliono smettere di essere giovani, mentre i loro figli annaspano in un tempo senza orizzonte, soli, privi di adulti credibili. Esiste un al di là del figlio-Edipo e del figlio-Narciso? Esiste un al di là della guerra tra le generazioni e dell’individualismo senza speranza? Telemaco, il figlio di Ulisse, attende il ritorno del padre; prega affinché sia ristabilita nella sua casa invasa dai Proci la Legge della parola. In primo piano non è qui il conflitto tra le generazioni (Edipo), né l’affermazione edonista e sterile di sé (Narciso), ma una domanda inedita di padre, una invocazione, una richiesta di testimonianza che mostri come si possa vivere con slancio e vitalità su questa terra. Nel nostro tempo nessuno sembra più tornare dal mare per riportare la Legge sull’isola devastata dal godimento mortale dei Proci. Il processo dell’ereditare, della filiazione simbolica, sembra venire meno e senza di esso non si dà possibilità di trasmissione del desiderio da una generazione all’altra e la vita umana appare priva di senso. Eppure è ancora possibile, nell’epoca della evaporazione del padre, un’eredità autenticamente generativa: Telemaco ci indica la nuova direzione verso cui guardare, perché Telemaco è la figura del giusto erede. Il suo è il compito che attende anche i nostri figli: come si diventa eredi giusti? E cosa davvero si eredita se un’eredità non è fatta nè di geni nè di beni, se non si eredita un regno?

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Il discorso tenuto da Laura Boldrini subito dopo la sua elezione a Presidente della Camera dei Deputati

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Sabato 16 marzo 2013

CAMMINARSI DENTRO (461): Il discorso tenuto da Laura Boldrini subito dopo la sua elezione a Presidente della Camera dei Deputati

Laura Boldrini[Video] Care deputate e cari deputati, permettetemi di esprimere il mio più sentito ringraziamento per l’alto onore e responsabilità che comporta il compito di presiedere i lavori di questassemblea. Vorrei innanzitutto rivolgere il saluto rispettoso e riconoscente di tutta l’assemblea e mio personale al Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano che è custode rigoroso dell’unità del Paese e dei valori della costituzione repubblicana. Vorrei inoltre inviare un saluto cordiale al Presidente dalla Corte costituzionale e al Presidente del consiglio. Faccio a tutti voi i miei auguri di buon lavoro, soprattutto ai più giovani, a chi siede per la prima volta in quest’aula. Sono sicura che in un momento così difficile per il nostro paese, insieme, insieme riusciremo ad affrontare l’impegno straordinario di rappresentare nel migliore dei modi le istituzioni repubblicane. Vorrei rivolgere inoltre un cordiale saluto a chi mi ha preceduto, al presidente Gianfranco Fini che ha svolto con responsabilità la sua funzione costituzionale. Arrivo a questo incarico dopo aver trascorso tanti anni a difendere e rappresentare i diritti degli ultimi in Italia come in molte periferie del mondo. E’ un’esperienza che mi accompagnerà sempre e che da oggi metto al servizio di questa Camera. Farò in modo che questa istituzione sia anche il luogo di cittadinanza di chi ha più bisogno. Il mio pensiero va a chi ha perduto certezze e speranze. Dovremmo impegnarci tutti a restituire piena dignità a ogni diritto. Dovremo ingaggiare una battaglia vera contro la povertà, e non contro i poveri. In questa aula sono stati scritti i diritti universali della nostra Costituzione, la più bella del mondo. La responsabilità di questa istituzione si misura anche nella capacità di saperli rappresentare e garantire uno a uno. Quest’Aula dovrà ascoltare la sofferenza sociale. Di una generazione cha ha smarrito se stessa, prigioniera della precarietà, costretta spesso a portare i propri talenti lontano dall’Italia. Dovremo farci carico dell’umiliazione delle donne che subiscono violenza travestita da amore. Ed è un impegno che fin dal primo giorno affidiamo alla responsabilità della politica e del Parlamento. Dovremo stare accanto a chi è caduto senza trovare la forza o l’aiuto per rialzarsi, ai tanti detenuti che oggi vivono in una condizione disumana e degradante come ha autorevolmente denunziato la Corte europea dei diritti umani di Strasburgo. Dovremo dare strumenti a chi ha perso il lavoro o non lo ha mai trovato, a chi rischia di smarrire perfino l’ultimo sollievo della cassa integrazione, ai cosiddetti esodati, che nessuno di noi ha dimenticato. Ai tanti imprenditori che costituiscono una risorsa essenziale per l’economia italiana e che oggi sono schiacciati dal peso della crisi, alle vittime del terremoto e a chi subisce ogni giorno gli effetti della scarsa cura del nostro territorio. Dovremo impegnarci per restituire fiducia a quei pensionati che hanno lavorato tutta la vita e che oggi non riescono ad andare avanti. Dovremo imparare a capire il mondo con lo sguardo aperto di chi arriva da lontano, con l’intensità e lo stupore di un bambino, con la ricchezza interiore inesplorata di un disabile. In Parlamento sono stati scritti questi diritti, ma sono stati costruiti fuori da qui, liberando l’Italia e gli italiani dal fascismo. Ricordiamo il sacrificio di chi è morto per le istituzioni e per questa democrazia. Anche con questo spirito siamo idealmente vicini a chi oggi a Firenze, assieme a Luigi Ciotti, ricorda tutti i morti per mano mafiosa. Al loro sacrificio ciascuno di noi e questo Paese devono molto. E molto, molto dobbiamo anche al sacrificio di Aldo Moro e della sua scorta che ricordiamo con commozione oggi nel giorno in cui cade l’anniversario del loro assassinio. Questo è un Parlamento largamente rinnovato. Scrolliamoci di dosso ogni indugio, nel dare piena dignità alla nostra istituzione che saprà riprendersi la centralità e la responsabilità del proprio ruolo. Facciamo di questa Camera la casa della buona politica. Rendiamo il Parlamento e Il nostro lavoro trasparenti, anche in una scelta di sobrietà che dobbiamo agli italiani. Sarò la presidente di tutti, a partire da chi non mi ha votato, mi impegnerò perché la mia funzione sia luogo di garanzia per ciascuno di voi e per tutto il Paese. L’Italia fa parte del nucleo dei fondatori del processo di integrazione europea, dovremo impegnarci ad avvicinare i cittadini italiani a questa sfida, a un progetto che sappia recuperare per intero la visione e la missione che furono pensate, con lungimiranza, da Altiero Spinelli. Lavoriamo perché l’Europa torni ad essere un grande sogno, un crocevia di popoli e di culture, un approdo certo per i diritti delle persone, un luogo della libertà, della fraternità e della pace. Anche i protagonisti della vita spirituale religiosa ci spronano ad osare di più: per questo abbiamo accolto con gioia i gesti e le parole del nuovo pontefice, venuto emblematicamente “dalla fine del mondo”. A papa Francesco il saluto carico di speranze di tutti noi. Consentitemi un saluto anche alle istituzioni internazionali, alle associazioni e alle organizzazioni delle Nazioni Unite in cui ho lavorato per 24 anni e permettetemi – visto che questo è stato fino ad oggi il mio impegno – un pensiero per i molti, troppi morti senza nome che il nostro Mediterraneo custodisce. Un mare che dovrà sempre più diventare un ponte verso altri luoghi, altre culture, altre religioni. Sento forte l’alto richiamo del Presidente della Repubblica sull’unità del Paese, un richiamo che questa aula è chiamata a raccogliere con pienezza e con convinzione. La politica deve tornare ad essere una speranza, un servizio, una passione. Stiamo iniziando un viaggio, oggi iniziamo un viaggio. Cercherò di portare assieme a ciascuno di voi, con cura e umiltà, la richiesta di cambiamento che alla politica oggi rivolgono tutti gli italiani, soprattutto in nostri figli. Grazie.

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Ascoltare Mariangela Gualtieri

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Venerdì 15 marzo 2013

CAMMINARSI DENTRO (460): Ascoltare Mariangela Gualtieri 

Sii dolce con me. Sii gentile.
da “Bestia di gioia”

Sii dolce con me. Sii gentile.
E’ breve il tempo che resta. Dopo
saremo scie luminosissime.
E quanta nostalgia avremo
dell’umano. Come ora ne
abbiamo dell’infinità.
Ma non avremo le mani. Non potremo
fare carezze con le mani.
E nemmeno guance da sfiorare
leggere.
Una nostalgia di imperfetto
ci gonfierà le particelle lucenti.
Sii dolce con me.
Maneggiami con cura.
Abbi la cautela dei cristalli
con me e anche con te.
Quello che siamo
è prezioso più dell’opera blindata nei sotterranei
e affettivo tiepido fragile. La vita ha bisogno
di un corpo per essere e tu sii dolce
con ogni corpo. Tocca leggermente
leggermente poggia il tuo piede
e abbi cura
di ogni meccanismo di volo
di ogni guizzo e volteggio
e maturazione e radice
e scorrere d’acqua e scatto
e becchettio e schiudersi o
svanire di foglie
fino al fenomeno
della fioritura,
fino al pezzo di carne sulla tavola
che è corpo mangiabile
per il tuo mio ardore d’essere qui.
Ringraziamo ogni tanto.
Sia placido questo nostro esserci –
questo essere corpi scelti
per l’incastro dei compagni
d’amore. 

Non sono capace, amore, di farti un canto.
Tu sei tutto di spine e di fuoco
e mi tieni lontana dal tuo cuore
pericoloso. Io non so bastarti alla gioia
e così poco così poco mi pare
t’incanto, sollevo quell’ombra scontrosa
che tu sei tutto d’amaro e furore
tu sei in urto e sperdimento
mio velocista, mio primatista del cuore
mio barbarico ragazzo di vento
mio torrente furioso.
Arrivi alla mia acqua quieta
con onde e sonagli e pepite d’oro.
Un vecchio fiume saremo un bel giorno io e te,
io acqua e tu moto, io sponda e tu vento,
io pioggia e tu lampo,
io pesce e tu guizzo d’argento
io luna riflessa, tu cielo tu spada
d’Orione, tu tutto l’amore umano
che tento che tento
d’amarti per bene
mio grembo splendenza.
E tu prendimi
portami con te
come un incendio
nelle tue abitudini.

Mariangela Gualtieri
da ‘Senza polvere Senza peso’

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Il bisogno di esistere

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Mercoledì 20 febbraio 2013

CAMMINARSI DENTRO (459): Il bisogno di esistere

L’essere oggetto d’amore è, per così dire, il luogo in cui solamente la persona esiste e può quindi anche venire alla luce. (Max Scheler, Essenza e forme della simpatia)

Ricevere un primo sguardo interessato e poi inequivocabili gesti di affetto e complicità, e poi scoprire che non occorre alcuno sforzo per istituire file di continuità in un cercarsi e trovarsi e manifestarsi la gioia del contatto e dello scambio non è quello che comunemente poi si chiama felicità? Non è forse la gioia sovrabbondante il culmine della tensione sentimentale? Sentire in ogni istante la presenza dell’altro e non dubitarne mai.
Immaginate ora che questo stia accadendo a un ragazzo di trent’anni o forse più. E non importa che sia un tossico e che la sua donna non sia poi quello che ci vorrebbe per lui, a giudicare dai suoi racconti. Basta leggergli negli occhi la sovrabbondanza e la continuità e il corteo dei giorni felici. Non è forse questo sentirsi vivi? Non è riconoscimento, accrescimento di sé, sicurezza raggiunta? Non si ha più paura.
Di tutte le forme di benessere che l’amore procura c’è quella più trascurata, che emerge chiara nei giorni dell’abbandono e della miseria, cioè il rafforzamento e il completamento dell’identità personale. Se a definire quest’ultima nel tempo concorrono fattori più sostanziali e concreti – l’indipendenza economica fornita dal lavoro, l’autonomia personale che si realizza nella vita di relazione -, è a partire dalla certezza di essere amati che ci si protende verso il mondo con fiducia, incoraggiati ad osare. Si è più assertivi. Il curriculum vitae ha una riga in più. Nessuno andrà in giro a dire: abbiate fiducia in me, ho una donna. Tuttavia, il cuore lo pensa. Quel sentimento di sé diventa la base su cui riposano le altre certezze. Anche i filosofi hanno detto che nelle cose d’amore ne va della nostra identità. Si dilata il senso del tempo: il futuro non è più una minaccia; si pensa a quello che potrebbe esser fatto più in là di un giorno. C’è qualcuno che ci autorizza a sperare.
Dell’amore di un uomo per una donna, dell’amore ricambiato, diremo che soddisfa il nostro bisogno di esistere, se esistere significa trascendere il puro dato vitale, la condizione di sussistenza nel presente e basta. Il carattere temporale dell’esistenza personale permette di dire che consistere nel qui e nell’ora ha senso se quello stesso consistere è oscillare tra progetto e destino, protesi verso il progetto della propria esistenza, cioè verso la realizzazione del soggetto del desiderio che noi siamo. Abbiamo bisogno d’amore perché soltanto sotto lo sguardo benevolo di una donna ci sentiremo al riparo dalle ingiurie del tempo. I colpi della sorte non ci troveranno esposti e impreparati. Fraintendimenti e incomprensioni, invidie e gelosie, esclusioni e negazioni non ci vedranno soccombere. Sapremo sempre raggiungere e oltrepassare la soglia del tempo. Non conosceremo la stagnazione del desiderio e l’inaridirsi del cuore. Occupiamo un luogo illuminato che ci scalda il cuore e ci chiama incessantemente ad esistere.

Ma la cosa migliore non furono quei baci e neppure le passeggiate serali, o i nostri segreti. La cosa migliore era la forza che quell’amore mi dava… – Hermann Hesse

Immaginate ora il tempo della miseria e dell’abbandono, meglio ancora il tempo che precede ogni abbandono, quando un amore sia di quelli che non durano per sempre, e immaginate di avere di fronte un ragazzo di trent’anni o forse più, che si sia legato a una donna che lo fa soffrire già, che gioca a non farsi trovare, ma che gli concede capricciosamente attimi estatici e abbandoni assoluti, ci prodigheremo a dire che non è vero amore, che esso non durerà, quando il ragazzo, istruito dalla vita a riconoscere il vero amore, chiamerà amore anche questa pena del cuore, per la compiutezza e la continuità mai raggiunte? Se chiameremo amore ogni amore, anche quello non corrisposto o che cessi di essere tale, non sarà sempre per quel bisogno di esistere che è alla base della nostra esperienza amorosa: non siamo forse noi a dire ‘amore’ prima di aver avuto la certezza di essere amati, e di essere amati di amore vero, quello che è fatto di file di continuità ininterrotte e con i chiari caratteri di ciò che durerà per sempre?
Jacques Lacan ha scritto che «l’amore è sempre corrisposto». Se è così, se così deve essere per poter dire ‘amore’, non dovremo imparare allora a ‘curare’ meglio il nostro bisogno di esistere, senza incorrere nell’errore, magari ripetuto nel tempo, di affrettarci a chiamare amore quello che presto si rivelerà solo una canzone di Cole Porter?

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Curiamo le nostre ferite

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Lunedì 18 febbraio 2013

UNA GIORNATA AL CENTRO DI ASCOLTO (4): Curiamo le nostre ferite

Solo a momenti l’uomo fa esperienza di una pienezza divina, dopo la vita è sogno di essi Friedrich Hölderlin

C’è un territorio della coscienza da esplorare per ogni persona che entri nel raggio della nostra azione: l’esperienza del tempo, con la percezione più o meno chiara delle epoche della vita trascorse, con il sentimento del tempo che accompagna lo sguardo dell’utente. Chiamiamo ‘sentimento del tempo’ il modo personale di sentirsi uomini, cioè abitatori del tempo. Tutta la nostra esistenza è ‘tempo’.
Nel ‘vissuto’ personale non conta il tempo effettivamente trascorso e le stagioni della vita. Non ha molta importanza dire, in prima istanza, infanzia, adolescenza, maturità…, come se ogni stagione dovesse portare ad ognuno di noi gli stessi doni!
Abbiamo fatto tesoro di racconti che hanno modificato sensibilmente lo sguardo sul tossicomane e i suoi destini. Il resoconto più drammatico è stato quello di una ragazza non più tale che si batteva da due anni per riconquistare la fiducia del Giudice che le aveva tolto la bambina appena nata. Al termine della sua testimonianza, gridò: «Ma dove sono stata io negli ultimi trentadue anni?»
La percezione di questo dolore è difficile per noi che, magari, abbiamo messo in colonna gli anni uno dopo l’altro, per interi decenni, assegnando ad ogni anno un chiaro significato nell’evoluzione della nostra vita, contribuendo con le nostre energie spirituali a dare senso ai tempi dell’esistenza. Dovremo procedere con cautela e con pazienza, senza forzare i tempi della coscienza: non si tratta di ‘sistemare’ quel lungo intervallo di tempo, come se competesse solo alla memoria provvedere ad esso! Non basta e non giova assegnare un significato, come se fosse questione di chiarezza! La stessa attribuzione di senso a quell’epoca trascorsa dipende da altri fattori decisivi, come il lavoro, la vita dei sentimenti, il senso di sé…
Ce la caviamo dicendo ‘vuoto’, per definire quei trentadue anni: lei stessa ha confessato di ‘non esserci stata’ in quegli anni, di non avere ricordi, perché fuori di sé, in uno stato di coscienza alterato, che, una volta passato, porta via con sé tutto il tempo ‘occupato’ emotivamente da altro.
Resta da capire, anzi, da comprendere cosa significhi portare il peso di quegli anni ‘vuoti’, quale senso dare ai giorni ora, in questo tempo della coscienza in cui affiorano solo ricordi ‘negativi’: il male fatto agli altri e a se stessi, lo strascico dei mancati giorni. C’è chi si aspettava risposte che non sono mai arrivate. C’è chi ha pianto, si è disperato, si è inaridito, ha smesso di credere. Come rimediare a tutto ciò?
Solitamente, chi fa esperienza di quel ‘vuoto’ giudica irredimibile il tempo inesorabilmente trascorso. È un tempo perduto, che non tornerà in nessun modo, non redimibile, che non è possibile riscattare. I filosofi hanno parlato di malinconia del così fu, per significare la caduta in uno stato di stagnazione del desiderio a cui si condanna chi è convinto di non poter essere perdonato, di non poter ‘redimere’ il passato concordando con gli altri, con tutti gli altri, un nuovo senso per esso: il velo della compassione deve calare necessariamente su di esso, per poter poi riuscire a perdonare se stessi. Se non è possibile condividere con nessuno il bisogno di perdono, il ‘peso’ di quegli anni resta intatto.
‘Dissodare il terreno’ delle relazioni personali, in un programma terapeutico, vuol dire tentare di ‘ricucire’ rapporti cercando le persone una per una: è importante verificare fin dove sia possibile. Naturalmente, sarà l’interessato a cercare il rimedio, a tentare la riconciliazione, a ‘raccogliere’ il perdono che spesso arriva inatteso.
L’aiuto che possiamo dare a chi si ritrovi a fare i conti con i propri ‘pesi’ è sempre lo stesso: possiamo curare gli altri solo con le nostre ferite. Ci guiderà il ricordo sempre vivo dei torti fatti agli altri, non importa quanto grandi. Io so, ad esempio, che alcuni gravi fraintendimenti che si sono verificati negli anni in cui ho insegnato hanno determinato rotture irreparabili con alcuni genitori influenti nella città, che a distanza di venti anni e più mi stanno facendo pagare le scelte fatte: il tempo non ha curato le ferite; il distacco si è fatto definitivo; intere zone della realtà sono ostruite per me, cioè non posso contare su persone di cui avrei bisogno. Questo è un ‘peso’ grande. E non è il solo!
Con le mie ferite vado all’incontro con le ferite di quella ragazza e con quelle di tutti gli utenti che si ritrovino a fare i conti con il loro passato.
Noi ci affanniamo sempre a dire, nelle nostre conversazioni: espiare, perdonare, perdonarsi, redimere il tempo ‘perduto’, ma non è sempre possibile. Ci sono pesi che ci accompagneranno per tutta la vita, che opprimeranno la nostra coscienza nei momenti di malinconia, che costituiranno sempre un problema per noi, una questione aperta che vorremmo chiudere per trovare pace.
Possiamo curare gli altri solo con le nostre ferite. L’esperienza del dolore, a cui non ci siamo mai sottratti, cioè l’esperienza della libertà, è il campo dell’esperienza in cui si dà possibilità di incontro. Il senso della medesimezza umana rende possibili i complessi processi empatici, che mettono capo non all’occasione propizia e non si riducono a giusta distanza: ciò che conta è la qualità degli accordi. Curando le ferite degli altri, curiamo le nostre ferite.

Due studenti avevano frequentato per molti anni un vecchio maestro molto saggio. Un giorno il maestro disse loro: «Ragazzi, è venuto il tempo che andiate per il mondo. La vostra vita sarà felice se sarete in grado di trovare in essa tutte le cose splendenti».
Gli studenti si accomiatarono dal maestro con un misto di tristezza ed eccitazione e presero due strade diverse. Molti anni dopo si ritrovarono per caso. Erano felici di rivedersi e ognuno era molto curioso di sapere come l’altro se l’era cavata nella vita.
Il primo disse malinconicamente al secondo: «Ho imparato a vedere molte cose splendenti in questo mondo, ma purtroppo sono ancora infelice. Perché ho anche visto molte cose spiacevoli e tristi, e ho la sensazione di non aver prestato la dovuta attenzione agli insegnamenti del maestro. Forse non mi colmerò mai di gioia e di felicità, semplicemente perché sono incapace di vedere splendere tutte le cose».
Il secondo allora, raggiante di felicità, disse al primo: «Non tutte le cose sono splendenti, ma tutte le cose splendenti sono».

L’Epilogo di
Hubert Dreyfus e Sean Dorrance Kelly, Ogni cosa risplende. I classici e il senso dell’esistenza, Einaudi 2012, pag.210

La saggezza di questo Epilogo è ciò che sostiene ogni relazione di aiuto: dalla parte dell’Educatore, la consapevolezza che «la realtà è piena», come ci ha insegnato la grande psicoanalisi, costituisce un’autentica certezza. Anche in un piccolo paese di provincia, al di là dei beni strumentali e dell’offerta dell’industria del tempo libero, non manca la possibilità di relazioni umane significative, come è tipico di ogni comunità umana. Se consideriamo, poi, la natura ‘relazionale’ della mente, che si istituisce e si consolida a partire dai processi di attaccamento successivi alla nascita, è facile concludere che la relazione di aiuto andrà costruita intorno alla realtà, più che alla figura dell’Educatore o dell’utente. Quest’ultimo sarà posto al centro, alla maniera di Rogers, ma il movimento che si imprimerà all’azione sarà orientato interamente verso un sano rapporto con la realtà.
L’esperienza dell’incontro con la realtà umana dell’altro è il criterio di verità: dalla qualità delle nostre relazioni umane dipende il senso che diamo alla nostra esistenza. L’azione quotidiana dei soggetti che noi siamo è volta ad instaurare o a ripristinare o a ‘curare’ tutte le nostre relazioni. La manutenzione degli affetti è lo sfondo su cui si colloca l’efficacia dei nostri atti liberi.

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Quando la terra trema

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Domenica 17 febbraio 2013

CAMMINARSI DENTRO (458): Quando la terra trema

Ore 9.00

Certe cose ci puntano il dito e ridono.
Certe cose
si nascondono agli occhi della gente
e si odono piangere sommessamente.
Certe cose cadono dal cielo:
cose nere informi, mostri
della notte e terrore
dei giorni.
Certe cose sembrano essere state predisposte
da Dio e dal Diavolo.
Certe cose sono come le aquile.
Vivono in alto
possono benissimo dimenticare la valle.
Certe cose sono come il terremoto:
utilizzano tutte le nostre paure.
Certe cose sono come la Bellezza che è morta da tempo:
solo l’acqua profonda del pozzo può lavarle e destarle.

Emanuel Carnevali

Ieri, alle 22.16, un breve terremoto ha scosso la mia città, che si è ritrovata non più solo coinvolta in un evento che avesse altrove il suo scenario tragico. Questa volta eravamo noi protagonisti. Dopo qualche ora, ho appreso che l’epicentro era stato individuato a Sora. A pochi metri da casa mia.
Nelle ore successive, fino a quando non siamo stati vinti dal sonno, ho partecipato serenamente alle discussioni sul da farsi, mentre si accudivano i bambini con i quali non si è smesso di giocare e di sorridere.
Ora, non c’è da fare cronache dal terremoto. A quelle penserà chi lo fa di mestiere. Piuttosto, abbiamo ricevuto la conferma che la terra è instabile proprio sotto i nostri piedi. Essa continuerà a tremare a lungo, senza concederci la possibilità di un patto, di un accordo. È sempre stato così. Avremmo dovuto saperlo da sempre e non avremmo dovuto abbandonarci mai alle nostre facili certezze, da cui abbiamo fatto discendere tutte le scelte. Non dovevamo rinunciare a pensare ogni giorno che viviamo qui, in mezzo a una natura ‘ostile’. Non dovevamo abbandonarci prometeicamente all’ebbrezza della conoscenza, dimenticando i nostri limiti.
Ci è stato insegnato che non possiamo fare a meno di vivere come se non dovessimo mai morire, che è indispensabile ‘superare’ nel gioco della vita quotidiana le secche della caducità delle cose, che ci viene ricordata ad ogni piè sospinto da piccole e grandi ‘morti’. E però, nello stesso tempo, non avremmo dovuto dissipare la ricchezza, in vista di questi che non sono i giorni buoni. Avremmo dovuto mettere la vita al riparo dall’imponderabile, considerando anche l’eventualità di questo ‘spossessamento’.
La mia casa non è caduta. Forse, non cadrà tanto facilmente, perché ho partecipato alla sua progettazione, quindi so che resisterà ai colpi meno forti. Arriva già, tuttavia, la notizia di case lesionate, forse inagibili. Questo mi fa sentire al centro del dramma. È accaduto qualcosa che lascerà il segno. Si è aggiunta una nuova paura a tutte le altre.

Ore 23.00

La scoperta di questa sera è sconvolgente per me: in casa, le donne progettano di attrezzare le macchine, in vista del peggio. Hanno in mente il terremoto recente dell’Emilia che era stato preceduto da brevi scosse come quella di ieri. Debbo, dunque, ‘trasferirmi’ in questa nuova dimensione: immaginare che tutto crolli o che l’onda sismica costringa a fuggire. Per questa evenienza, bisogna avere le macchine pronte e attrezzate. Mi si pone subito un problema: che cosa portarsi dietro.

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Sull’amore

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Venerdì 15 febbraio 2013

CONTRIBUTI A UNA CULTURA DELL’ASCOLTO CAMMINARSI DENTRO (457): Luciana Littizzetto sull’amore

 

14 FEBBRAIO 2013

L’ironia e la denuncia: il monologo di Luciana sull’amore.
Parte con il consueto umorismo cui ci ha abituati a ‘Che tempo che fa’. Poi, nella seconda parte, si fa sempre più seria: nel monologo di San Valentino di Luciana Littizzetto nella terza serata del Festival anche i diritti negati alle coppie gay e la violenza sulle donne.

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Silenzio, si chiude!

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Sabato 9 febbraio 2013

CAMMINARSI DENTRO (455): Silenzio, si chiude

Rimediare alla solitudine assoluta della vecchiaia è possibile, a condizione che si disponga di occasioni per agire ancora disinteressatamente, per mantenere aperte relazioni sociali produttive e utili, qualora non si disponga di occasioni per agire economicamente, produttivamente, utilmente. (La solitudine di cui parlo qui è data dalla somma dei silenzi di cui si fa esperienza nel tempo: è l’assommarsi di tanti silenzi che ‘provengono’ dalle direzioni più disparate, a conferma del fatto che la vita ci prende in giro: ad esempio, ci siamo dedicati all’ascolto, per ritrovarci tra inascoltanti, che non prendono sul serio nemmeno la loro attività di ascolto. Parlo di solitudine assoluta per significare il silenzio assordante delle mancate risposte, del disamore e della viltà e dell’incapacità di perdonare e di affrontare fraintendimenti ed equivoci, che sono il sale della vita).
La beata solitudine, sola beatitudine, sbandierata come tale dai filosofi di professione, cessa di essere ‘ritiro spirituale’ e porto di quiete quando intervengano i problemi materiali ad assediare l’esistenza. Allora si scopre un altro genere di solitudine, che uccide più di mille nemici: il silenzio.
Anche quando si sia appresa la lezione dell’amore, che non ha senso chiedere ciò che non arriva come risposta spontanea, e quando si sia appresa la lezione del potere, che senza protezione si è esposti a tutti i venti e non esistono diritti da rivendicare, resta ancora in piedi l’illusione che qualcuno ci aiuterà, se rischiamo di sprofondare in una solitudine ancora più grande, quando non potremo provvedere a noi stessi. L’ultima illusione, prima di soccombere sotto i colpi della sorte, è che ci sia ancora qualcosa da fare per salvarsi. Magari ci affanneremo, anche per anni, a rimediare agli errori commessi, cercando di espiare le colpe piccole e grandi accumulate qua e là. C’è, tuttavia, chi non ci perdonerà mai i nostri errori. Intere zone della realtà, per questo, sono ostruite. L’accesso a noi è interdetto. Ritrovarsi davanti a un ‘funzionario’ di questa o quella realtà pubblica o privata e leggere nell’espressione impersonale e fredda del viso la volontà di non darci risposte costituisce l’ennesima verifica del silenzio intervenuto a ridefinire ampie porzioni dello spazio della nostra esistenza.
C’è stato un tempo in cui eravamo ‘comunisti’, come ci fu detto bruscamente prima ancora di esserlo politicamente, perché convinti che si dovessero affrontare, e risolvere, tutti i problemi dei poveri e delle categorie sociali deboli. Per questo, fummo costretti ad abbandonare la Chiesa prima, poi il Partito e il Sindacato, riservandoci, in ultimo, con il Volontariato, un modo di fare politica, cioè di servire gli altri, che credevamo al riparo dalle passioni tristi, soprattutto dall’invidia.
Siamo partiti più di venti anni fa con mancati riconoscimenti, con un lavoro oscuro, che niente chiedeva per sé, durato dieci anni almeno, quando un riconoscimento ufficiale è arrivato. Dopo altri dieci anni, siamo qui a misurare in mesi il silenzio che ormai ci avvolge.

Subito dopo la seconda guerra mondiale, in Francia, si verificò un episodio non rilevante dal punto di vista storico, ma significativo per noi: la rivista Combat, organo ufficiale della Resistenza francese, per ragioni economiche e di direzione, decise di chiudere i battenti. Senza clamore, fu pubblicato un ultimo numero che si apriva con l’Editoriale Silenzio, si chiude. Oltre al silenzio dei ‘fratelli’, il Centro di ascolto Libera Mente si ritrova a fare i conti con un fenomeno inedito, dopo 20 anni di lavoro educativo nel campo della tossicodipendenza: non ci sono più ragazzi, non vengono più persone a chiedere aiuto. La tentazione di ‘chiudere’ senza aggiungere altro è grande. Gli ostacoli incontrati sul cammino non sono mai venuti dai ragazzi, solo in pochi casi dalle loro famiglie. Come ebbe a dire all’inizio della nostra avventura un Fondatore di Comunità nostro amico: «Io ho paura della gente normale, non dei ragazzi affetti da tossicodipendenza!»
Il privilegio della cultura, oggi, aiuta a misurare la forza dell’ignoranza e l’influenza estesa di chi puntella il potere gratuitamente, anche quando dal potere riceva solo danno. Il potere più grande, tuttavia, non è quello politico, ormai corrotto nel midollo, ma quello del silenzio. Ritrovare nelle persone più semplici o in coloro che lungamente sono stati riguardati a torto come ‘fratelli’ – e magari ci chiamano oggi solo Colleghi – la capacità di escludere ancora con il silenzio, semplicemente con il silenzio, è comico e tragico ad un tempo. Interrogarsi sulle ragioni del fenomeno senza interpellare le scienze dell’anima è tempo perso: la presenza significativa nelle grandi realtà educative, nei luoghi nevralgici dell’organizzazione, di individui propensi all’invidia e all’esercizio del potere allo scopo di escludere per non patire a causa della propria modestia culturale e della propria inettitudine, è sufficiente per inceppare il ‘meccanismo’ generale, creando ‘strozzature’ che finiscono per strozzare chi ci lavora disinteressatamente, per di più, senza insidiare il potere di nessuno. Aver rivendicato per anni un riconoscimento pieno che non è mai arrivato rende ‘residuale’ ormai il rapporto ‘fraterno’ con tutti gli altri membri dell’organizzazione. Il destino delle ‘chiese’ è sempre lo stesso: funzionano come strutture ‘monarchiche’, con un potere assoluto, che accoglie solo per cooptazione dall’alto. In esse ha senso solo dare in silenzio, senza poter mai rivendicare alcunché. In questo modo, le ingiustizie si perpetuano per anni, anche per decenni, fino a quando chi non è disposto più a un destino di emarginazione crescente non decide di rispondere con il silenzio al potere distruttivo di chi ha esercitato efficacemente il proprio potere con il silenzio, per uccidere.
Continuare a lavorare per chi è rimasto, per il gruppo delle famiglie soprattutto, è doveroso e sollecita a trovare altre risposte, soprattutto a cercare altrove occasioni ulteriori per buttare via la propria vita, quando ci si alza al mattino. Sicuramente, si aggiornerà l’offerta, se i tempi sono cambiati e un ciclo si è esaurito. ‘Crisi’ significa proprio questo: il vecchio ordine è morto, per fare posto a un nuovo ordine. Crisi è trasformazione, cambiamento, passaggio da forma a forma. Accade, nel bel mezzo delle crisi, di scoprire che non è sempre valido l’adagio secondo il quale ci si salva insieme. A volte, per salvarsi, bisogna darsi alla fuga, abbandonare in silenzio la sala centrale dove si festeggia qualcosa che non ci appartiene più, perché il padrone di casa si è dimenticato non solo di fare gli onori di casa, ma addirittura di rinnovarci l’invito a partecipare alla festa.

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L’ascesi della scrittura

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Sabato 9 febbraio 2013

CAMMINARSI DENTRO (454): L’ascesi della scrittura

Il suo scopo non è comunicare né convincere nessuno, bensì superare il confine tra realtà e immaginario. – MICHEL FOUCAULT

Fare della Scrittura un costume, una mentalità non vuol dire aspirare al riconoscimento riservato ai grandi scrittori o presumere di essere tali. Molti di noi hanno preso a scrivere nelle più diverse età della vita, non importa se ‘poesie’, ‘racconti’ o testi come i nostri che non rientrano in nessuno dei generi conosciuti ma soddisfano quel bisogno di ‘scrivere di sé’ che viene addirittura raccomandato in quanto ‘terapeutico’. È già sufficiente farlo essendo spinti da bisogno di chiarezza e di verità. Scrivere in pubblico, poi, è compito arduo, in quanto si esibisce l’ordito delle relazioni ‘interne’ e la trama delle relazioni ‘esterne’, finendo sempre per svelare qualche cosa di sé che viene strappato alle regioni dell’Inconfessabile. Finisce per risultare facile farlo, trovando il coraggio di pubblicare sempre, grazie a una ragione molto sottovalutata: le persone non leggono, per di più non leggono fino in fondo, ma soprattutto non si dedicano all’esercizio della lettura, con l’intento di fare della lettura stessa una pratica di vita, una disposizione ad apprendere, un esercizio spirituale, cioè una pratica di libertà. Solo tardi, quando si sia scritto molto e con qualche competenza teorica, si arriva a capire che mentre scriviamo, scopriamo la Scrittura, quell’attività spontanea e a modo suo ‘creativa’ che si fa mentre si scrive: scopriamo con stupore che è quasi qualcun altro che scrive per noi o, meglio, una sorta di automatismo interviene a guidare la mano. È stato detto autorevolmente che la Scrittura ci precede, ci istituisce come autori del testo, facendo sì che attraverso di noi si esprima la nostra Ombra, la parte nascosta, silente, il profondo, l’inconscio, il soggetto del desiderio che noi siamo.

Non abbiamo mai compreso quanto riferiscono gli scrittori a proposito della pagina bianca, che costituirebbe, in alcuni casi, motivo di grande timore! Forse perché non siamo scrittori di professione, non ci mettiamo mai di fronte alla pagina bianca non avendo già qualcosa da dire. Proprio quando ci sentiamo ‘gravidi’, prendiamo la penna per dare libero sfogo a ciò che urge, che preme in noi…
Qui ci interessa indicare una zona dell’esperienza da noi investita di un compito essenziale: l’esercizio dell’ascesi, di cui la Scrittura è parte. Ascesi non è solo purificazione, rinuncia, elevazione spirituale. Nell’atto della scrittura, la fatica che facciamo ad esprimerci fino in fondo costituisce un lavoro doloroso di espressione compiuta di sé che comporta sempre il ‘sacrificio’ di una parte di sé, di quell’Io che non ama certo mostrare il lato dell’esistenza che normalmente non appare o rischia di non essere sufficientemente rischiarato dallo sguardo altrui: la parte emersa, pur essendo visibile, o proprio per questo, sfugge ai più, che non sanno ‘leggere’ o che cercano altrove il senso della nostra ‘presenza’, rinunciando a farsi guidare dall’apparenza verso l’invisibile dell’esperienza, che costituisce l’unica realtà da conoscere, quando non si smarrisca il filo che conduce ad essa e che permette ogni volta di tornarvi di nuovo; la parte sommersa, che non è necessariamente tutta inconscia, pertiene alla regione invisibile dell’esperienza personale a cui quasi nessuno è interessato ad accedere, tranne chi ci ami di vero amore, non necessariamente una matura donna sensibile. Talvolta, una nipotina affezionata penetra più a fondo di una donna adulta ‘titolata’.
Paradossalmente, cerchiamo un pubblico che sia capace di raggiungerci là dove siamo veramente, mentre ci sforziamo di nascondere in superficie le nostre cose, depositandole proprio là dove pochi le vedranno, cioè sotto gli occhi di tutti.
Inizialmente, si cerca il proprio ‘pubblico’, si immagina che esista una schiera di lettori costanti impegnati a legare insieme quanto andiamo dicendo oggi alle ‘conclusioni’ importanti a cui giungemmo un anno fa o un mese fa. Grazie alla rilevazione quotidiana del numero degli accessi alle pagine web, alla distribuzione geografica dei ‘lettori’, ma soprattutto al tempo di permanenza sulle singole pagine, si scopre presto che quasi nessuno legge fino in fondo, considerato il tempo che richiede una lettura che infrange la prima regola raccomandata per il web, cioè la brevità. Sappiamo bene come si scrive per il web, cosa renda gradevole la lettura e cosa induca il lettore a non abbandonare la pagina. Tuttavia, a noi interessa altro. Avendo appreso a nostre spese che la scrittura non ci farà amare di più da chi ci ama già o che susciterà sentimenti analoghi in qualcun altro; che non ci metterà a contatto con nessuno, se non occasionalmente e per brevi periodi; che non farà di noi un ‘autore’ per il solo fatto di scrivere; che la scrittura di sé serve solo a noi, come la stesura del riassunto di un altro testo. Una casa editrice pubblicherebbe mai una raccolta di riassunti? Un pubblico colto ed esigente perderebbe il proprio tempo a leggere generici riassunti? Questo tipo di testo risponde ad una esigenza privata e basta. Allo stesso modo, raccontare di sé non è attività che possa interessare e intrattenere se non persone che arrivino a cogliere risonanze in sé che valgano come altrettanti echi di quanto andiamo facendo. Dunque, non c’è qua o là un testo compiuto che aspiri ad essere riconosciuto come tale. C’è solo la scrittura, il succedersi ripetuto di un esercizio di comprensione delle proprie ragioni, dei propri risultati e delle proprie sconfitte. Il valore di verità e il piacere del testo che si può ricavare dalla lettura sono assegnati ai frammenti che si rimandano tra di loro, perché di ordito si tratta, perché conta il volo della mente, trovare le parole, non creare un pubblico disposto a non abbandonarci mai.
Il vero ‘pubblico’ della nostra scrittura siamo noi stessi. Forse, noi scriviamo proprio per raggiungere quella parte di noi che non conosciamo, che ci sfugge, che straripa da tutti i lati, che non si lascia chiudere in un ‘testo’ per sempre. A noi serve poter mostrare a noi stessi il risultato di una ricerca costante di senso, perché abbiamo fame di senso, perché il nostro amor proprio e l’autostima e l’assertività e il rispetto di sé sono soltanto parole, se non sapremo dire a noi stessi i modi e le ragioni del nostro consistere qui e ora, in quest’ora buia della notte, mentre i nostri fantasmi assediano la nostra mente e non ci lasciano dormire e non ci consentono di aspettare l’alba per affacciarci a dire ancora il nostro bisogno d’amore a chi vorrà sentirlo.

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Stare dalla parte buona della vita

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Lunedì 4 febbraio 2013

CAMMINARSI DENTRO (453): Il lampadiere

I camminatori veri sanno dove appoggiare i piedi e dove appoggiarsi con le mani. Come il lampadiere: colui che mette la luce in cima alla canna e mette la canna sulla spalla con la luce rivolta all’indietro, in modo che altri possano seguire tranquillamente il sentiero. Mi sono chiesto come può il lampadiere vedere il sentiero. Mi piace pensare che ci sia un cammino già tracciato, un terreno sicuro dove appoggiare il piede solcato da migliaia di tracce che altri prima hanno lasciato. Così il cammino del lampadiere risulta sicuro. E’ forse questo lo stare dalla parte buona della vita? – Don Antonio Mazzi

«Stare dalla parte buona della vita» è espressione bellissima, che reca conforto e fa bene al cuore. Produce l’effetto benefico del rasserenamento: come se cessasse all’improvviso l’assedio rappresentato dalle cattive notizie di cronaca. Come se non corressimo più alcun pericolo! Come se il Politico non costituisse più una minaccia. Come se i poveri non dovessero più temere la vendetta dei ricchi.

L’immagine diffusa del lampadiere ce lo presenta come impegnato a fare luce a quelli che seguono. Il pensiero corre subito al resto, a come egli possa avanzare al buio, senza perdersi o cadere. È intervenuta opportunamente l’interpretazione di don Mazzi, che arricchisce l’immagine di un significato in più: «Mi piace pensare che ci sia un cammino già tracciato…». Davanti a lui non è solo buio, impenetrabile tenebra, quasi a significare la fatica dell’Educazione, l’ostacolo dell’errore e del male. La luce che egli riesce a scorgere davanti a sé non è nelle cose: non è una luce. E’ dentro il buio che riesce a poggiare il piede sul terreno sicuro dato dalle orme lasciate sulla terra da altri che vi hanno tracciato un sentiero. Forse la ‘competenza’ del lampadiere è proprio in questa sua capacità di valorizzare quanto altri hanno saputo fare prima di lui. Forse i buoni camminatori sono proprio come lui, sempre protesi a strappare un insegnamento alla vita, perché essa non procede mai nella tenebra assoluta, come una nave che avanzi nella tempesta senza un timoniere a bordo! Ci è stato dato il coraggio, perché inaugurassimo ogni volta qualcos’altro ancora. Per poter dare luce, occorrono occhi di seconda vista, cioè la capacità di tenere unite luce e tenebra. Forse la parte più importante è proprio la tenebra: come potremmo testimoniare diversamente la difficoltà del cammino, se il cammino stesso fosse rischiarato sempre da una luce diffusa, che nulla lascia inindagato e inespresso? La luce della conoscenza è tutta nella lampada? Non siamo soli nella notte. Come gli angeli, che non conoscono l’ansia, siamo noi: di questo sempre certi, che le strade battute da altri prima di noi sono il miglior viatico per la notte. Da lì facciamo derivare la luce della nostra lampada.

È stato sempre così: non abbiamo mai potuto fare a meno di essere costruttivi, concilianti, protesi a creare le condizioni per l’unità, perché in tutte le sedi politiche e sociali prevalesse l’unità sulla frantumazione dei progetti o dei semplici punti di vista. Siamo stati impazienti e ci siamo fatti travolgere dalla malinconia tutte le volte che abbiamo visto prevalere gli elementi di divisione. In mezzo alle crisi più gravi, nel dramma delle catastrofi naturali, di fronte alle perdite irreparabili e agli abbandoni, non abbiamo esitato mai: ci siamo sporti verso la vita, a cercare il barlume che salva, lo spiraglio, la maglia che non tiene, per niente rassegnati alla malinconia del così fu. Abbiamo voluto sempre per noi che la timida ala della speranza non perdesse il suo vigore. Abbiamo la contentezza nel cuore, perché siamo grati dei doni ricevuti. Non ci manca mai il conforto delle voci amiche, per riscaldare i giorni in cui domina la tetraggine e tutto sembra vacillare intorno a noi. Siamo certi che i bambini abbiano qualcosa da dirci. I nostri maestri più grandi oggi sono loro. La vita scaturisce dai loro sogni e dal candido ritmo della loro voce squillante. Mi ritrovo dalla parte buona della vita grazie a loro.
Ma stare dalla parte buona della vita significa, soprattutto, avere fiducia, credere nelle intenzioni altrui, affidarsi alla mano premurosa di chi ci ospita nella propria casa, concedere agli altri la possibilità di spiegarsi, creare lo spazio linguistico necessario perché venga fuori quanto di buono gli altri hanno da dare. Concedersi il compito di illudersi ancora su di loro, perche possano esprimere più di quanto non abbiano mostrato di sé finora. Che debbano crescere o debbano cambiare, le persone presenti nella nostra vita costituiscono per noi una promessa. Imbarcarsi nell’impresa ricorrente di un progetto nuovo ha suscitato sempre in noi il sentimento fiducioso dell’attesa. Anche se siamo stati smentiti mille volte dalla realtà, non possiamo fare a meno di pensare che domani le cose andranno meglio. Il nostro compito è portare la speranza a chi non ce l’ha.

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Sull’amore (Umberto Galimberti)

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Mercoledì 30 gennaio 2013

CONTRIBUTI A UNA CULTURA DELL’ASCOLTO
CAMMINARSI DENTRO (452): Sull’amore

Amore non è una cosa tranquilla, non è delicatezza, confidenza, conforto. Amore non è comprensione, condivisione, gentilezza, rispetto, passione che tocca l’anima o che contamina i corpi. Amore non è silenzio, domanda, risposta, suggello di fede eterna, lacerazione di intenzioni un tempo congiunte, tradimento di promesse mancate, naufragio di sogni svegliati.

Amore è toccare con mano il limite dell’uomo. Scrive Platone: «Gli amanti che passano la vita insieme non sanno dire che cosa vogliono l’uno dall’altro. Non si può certo credere che solo per il commercio dei piaceri carnali essi provano una passione così ardente a essere insieme. E’ allora evidente che l’anima di ciascuno vuole altra cosa che non è capace di dire, e perciò la esprime con vari presagi, come divinando da un fondo enigmatico e buio». Non bisogna leggere Platone in modo “platonico”, cioè ascetico, edificante, cristiano. Non bisogna intendere la mortificazione del corpo come mortificazione dei piaceri, delle passioni, della sessualità. Platone guarda più in alto, i problemi che gli stanno a cuore sono quelli della dicibilità della indicibilità, quindi le regole della ragione e gli abissi della follia. Guardando “le cose d’amore” o, come dice il testo greco, ta aphrodisia, Platone si chiede che cosa con esse l’anima riesce o non riesce a dire. E dove il dire si interrompe e la regola non basta a portare la parola ad espressione si apre lo sfondo buio  del presagio e dell’enigma. Amore appartiene all’enigma e l’enigma alla follia.

L’amore porta fuori dal luogo dove solitamente si svolge la vita, crea uno stato di sospensione in cui spazio e tempo perdono estensione e durata. Estraneo all’ordinato scorrere della quotidianità, l’amore è atopos, è fuori luogo. Le cose d’amore, infatti, non appartengono al racconto dell’anima razionale perché, in loro presenza, l’anima subisce una dislocazione (atopia) che, spostando il regime delle sue regole, indebolisce il possesso di sé. La sua trama viene interrotta da qualcosa di troppo che, spezzando la continuità del dire e l’ordine del discorso, porta verso itinerari di fuga che l’anima non riesce a inseguire. Pulsioni e desideri, infatti, irrompendo come significanti incontrollati nell’ordine dei significati statuiti, producono nel senso quel controsenso che fa ruotare i discorsi senza immobilizzarli intorno a un dispositivo ideale che l’anima ha faticosamente raggiunto come sua connessione.

da UMBERTO GALIMBERTI, Gli equivoci dell’anima

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